Metropoli d’Asia, la prossima distopia

4 Ottobre 2022

Ricordate Blade Runner di Ridley Scott, la Los Angeles del futuro fatta a strati, sopra le élites e chi comanda e sorveglia, e sotto la neoplebe dai tratti asiatici che si affolla negli spazi inquinati e perennemente piovosi della metropoli mescolandosi ai replicanti? Ebbene ci spiega Andrea Berrini nel suo ultimo libro Metropoli d’Asia. Sguardi su un altro futuro (EDT, 2022) che c’è questa città distopica, solo che sta in Asia. Gran conoscitore delle metropoli asiatiche, e della classe creativa di queste città che egli va a frequentare (editori, artisti, scrittori), Berrini ci offre un affresco impressionante.

Che si legge tutto d’un fiato, anche se lui ha impiegato anni a visitare, abitare e pensare quelle nuove città (Pechino, Bombay, Kuala Lumpur, Hong Kong, Singapore). Ne esce uno sguardo, da antropologo urbano, che esplora la città asiatica e ne mostra il volto, nell’ordine: lo skyline, le architetture, i quartieri, gli ambienti, le persone. Passando dal macro al micro. Con una ricchezza di particolari e una capacità di fissare con empatia quel volto urbano, quei volti umani.

Questo Altro ci assomiglia, dice Berrini, e va più in fretta di noi. Che si tratti della smisurata Pechino con i suoi anelli sempre più grandi e periferici e al centro la città del comando politico del Partito-Stato; della Kuala Lumpur dei grattacieli e dei perimetri inimmaginabili legati da metro e autostrade, che sembrano realizzare le utopie architettoniche di Wright e di Mies a una scala immensa; di Bombay che mescola in un ristretto spazio peninsulare i grandi ricchi e i grandi poveri, i compound e grattacieli e gli slum; di Hong Kong e Singapore, finanza e libertà repressa dal comunismo la prima, libertà vigilata da un potere oppressivo la seconda: ovunque ritroviamo tratti ‘altri’ rispetto a noi continuamente mescolati a tratti ‘nostri’ che sono qui portati all’estremo, egoismo capitalistico ed estetica kitsch, classe media ancora in crescita e costumi sessuali e consumi vistosi che erodono la morale ufficiale dell’Oriente.

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Fotografia di Michael Wolf.

Come se la modernizzazione portata dall’Occidente, prima per via militare-coloniale poi economico-culturale, avesse voluto sperimentare qui tutte le contraddizioni, costruire in laboratorio tutte le alchimie e le mescolanze possibili, che da noi in Occidente sono limitate da fattori come la democrazia, il pluralismo, l’opinione pubblica. Eppure si esce dalla lettura di questo libro con la sgradevole sensazione che lì, in quelle metropoli asiatiche, si stia realizzando qualcosa che ci riguarda da vicino.

Prendiamo l’architettura di quelle metropoli, cui Berrini dedica un attento esame: sono le nostre forme architettoniche replicate e ingrandite! Come la sede della tv di stato progettata a Pechino da Rem Koolhaas, l’architetto olandese che ha voluto cinicamente imitare quello che il potere cinese aveva fatto a Tienanmen negli anni ’50: la bigness di Koolhaas ha trovato qui spazio di espressione illimitato tanto che perfino Xi Jinping ha esclamato: weird (strana), di fronte a questa architettura. O le infrastrutture per la mobilità, le ferrovie e i porti e le autostrade e le metro, che sono le stesse nostre portate lì dai nostri ingegneri e developer urbani, salvo che sono molto più estese. O i sobborghi di villette che sono la riproduzione allargata dei suburbs del sogno americano, salvo che lì stanno accanto agli slum. E forse perfino i ghetti, li abbiamo inventati noi e lì si riproducono a macchia d’olio per milioni di poveri, di immigrati dalle campagne in continua crescita.

Ma la parte più bella del libro è nelle persone, i protagonisti sono proprio loro, che Berrini incontra e ci racconta. Creativi inquieti alla perenne ricerca di esprimersi come a Kuala Lumpur. Giovani che lottano per la libertà come quelli del movimento degli ombrelli e poi delle rivolte duramente represse a Hong Kong. Intellettuali che resistono al cambiamento – urbanistico, sociale, culturale – imposto dal regime come a Pechino.

Militanti che come a Bombay sostengono la loro omosessualità. Etc. Tutti si muovono contro una forma nuova di oppressione, che si tratti del comunismo cinese o del “fascismo” induista, entrambi ad alta intensità tecnologica e rivolti a modificare i comportamenti individuali, con il controllo sociale mediante le tecnologie digitali, la censura sulla rete, “la dittatura dentro a ogni segmento della società”. 

Questo universo distopico assomiglia molto a quello immaginato da Orwell, da Huxley cent’anni fa in Occidente, salvo che lì in Asia si realizza oggi ad opera di Grandi Fratelli, di Uomini Alfa che hanno i contorni del potere politico e militare cinese, della repressione culturale e razziale indiana, cioè hanno nomi e cognomi noti e non sono affidati a sistemi impersonali come nei romanzi distopici del Novecento. Qualcuno ha sostenuto che il Duemila è un secolo che sta dentro il Novecento, che porta all’estremo le contraddizioni culturali, sociali, politiche del secolo dei totalitarismi e delle due guerre mondiali. E se avesse ragione? Se il futuro ‘altro’ cui il libro di Berrini è dedicato fosse il ‘futuro alle spalle’ di Walter Benjamin e di Hannah Arendt?

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