Milan Kundera, Parigi, 1981
Era stato Dominique Fernandez a presentarmelo. Nel 1977. Impressionante, allegro, travolgente. Andai a trovarlo a Rennes, dove insegnava, per fargli un’intervista per L’Europeo. Vera preparò una buonissima cena con un dolce, ricordo, coperto di semi di papavero. Avevo letto Lo scherzo e Amori ridicoli, che mi sembrarono e mi sembrano tra i libri moderni più straordinari che abbia letto. Tradotti in Italia non avevano suscitato nessuna eco. L’intervista rimase in attesa mesi. Quando ne sollecitavo la pubblicazione il responsabile delle pagine culturali dell’Europeo mi diceva che lui la proponeva, ma il direttore commentava invariabilmente: Kundéra, ma chi è sto Kundéra? Poi venne D’Agostino e il suo tormentone sull’Insostenibile leggerezza dell’essere in una trasmissione televisiva di Renzo Arbore. L’intervista uscì.
Milan si trasferì poi a Parigi e per qualche anno, sino al mio rientro in Italia, ci siamo visti almeno una volta la settimana. La sua conversazione era formidabile, libera, divertente, mai convenzionale, risentita. Una sera, arrivato a casa per una cena, scoprimmo di avere la stessa giacca: l’avevamo comprata la mattina ai saldi nello stesso negozio di Saint Germain.
Non amava i giornali e soffriva per le interviste. Non poteva sopportare di diventare, nella prosa di certi giornalisti, una specie di pupazzo fatto parlare da un ventriloquo. Una sera mi telefonò per farmi una proposta apparentemente bizzarra. Un’importante rivista letteraria gli aveva chiesto un’intervista. Gli ho chiesto che sia tu a farla, mi disse, ma vorrei scriverla io, sia le domande che le risposte. A te dispiacerebbe firmarla?, mi chiese. Gli risposi che per me era un onore. È certo l’intervista migliore che io abbia mai firmato.
Dipingeva. Faceva delle guaches singolari, leggermente paurose. Me ne mostrò. Mi piacquero. Me ne regalò una. Con una dedica ironica. Poco tempo dopo mi chiese una riproduzione: la voleva usare per la copertina di un suo libro pubblicato in Canada.