Oggetti d'infanzia | La cartella

24 Maggio 2013

All’inizio lei non c’era. Il primo giorno di scuola della mia vita io ero senza cartella. Entrai in classe solo con la mia angoscia incredibilmente tenuta a freno dalla convinzione che non dovevo dare segni di cedimento e non dovevo piangere, nonostante avessi  tanta voglia di farlo. Mi sedetti a caso nel primo banco libero, a metà dell’aula. Mi sembrava di essere abbastanza simile agli altri quaranta bambini, tutti maschi, che mi stavano attorno. Mi sembrava che in fondo potessi anch’io resistere alla tremenda pressione di quel formidabile rituale. Non era stato poi così complicato salire lo scalone che dal piano terra portava al corridoio dove qualcuno mi aveva indirizzato verso la prima A, in quella che sarebbe stata la mia classe nella scuola elementare “Carlo Poerio”, periferia nord di Milano. Però mi accorsi rapidamente che qualcosa non andava. Tutti i miei compagni, volti perlopiù sconosciuti perché io all’asilo non ero andato, avevano la cartella. Solo io mi ero presentato sprovvisto del più caratteristico segno di appartenenza a quel mondo. Provai una fitta di disagio, mescolata alla sensazione di non essere a posto, che cercai di mascherare con un davvero disperato sorrisetto, l'estrema risorsa di cui ero in possesso per non apparire troppo diverso dagli altri.

 

In effetti, quel giorno, la cartella, che molti avevano assolutamente vuota come poi scoprii, non serviva. La maestra non fece nessun riferimento al materiale scolastico. Fu esclusivamente un giorno di ambientamento, di cui ricordo uno strambo giochetto ritmico fatto battendo due dita per mano sul bordo del banco. Ma perché mia mamma mi aveva mandato a scuola così? Forse perché non aveva avuto tempo di acquistare la cartella? Oppure perché, paradossalmente, non ci aveva pensato? O, addirittura perché, pur pensandoci, l'aveva considerata superflua per quell’occasione?

 

Così in cartoleria andammo solo nel pomeriggio di quel primo ottobre 1970. Ricordo il gesto del cartolaio, uomo corpulento con i capelli a spazzola, che abbassava da uno scaffale alle sue spalle il mio lasciapassare. Era una cartella rigida, in crosta di vitello, di color verde smeraldo. La faccia esterna  si richiudeva con due borchie metalliche ed era ricoperta di un finto pelo di coniglio bianco. L’interno mi pareva angusto ed era diviso da una parete di cartone rivestita di tela. Non che mi piacesse particolarmente, ma era almeno una cartella, oltretutto una delle ultime a disposizione in cartoleria. Era la parte mancante del mio essere scolaro.

 

A casa la riempii dei pochissimi oggetti che avevo a disposizione, l’astuccio di pelle e un quaderno a righe con copertina gialla. Non avevo ancora il libro, il sussidiario. Quella fu la mia cartella per tutte le elementari. La sua insignificanza venne compensata dall’incredibile robustezza. Si allentarono i meccanismi delle serrature, insomma perse col tempo la capacità di chiudersi adeguatamente e mi rimaneva sempre un po’ sghemba sulla schiena. Si diradò il pelo di coniglio lasciando apparire vaste alopecie sulla sua faccia esterna, che io peraltro avevo riempito di disegnini e parole e nomi. L’interno divenne sempre meno liscio e ospitale, divelta anche la parete divisoria. Alcune incrostazioni di merenda rimasero visibili per sempre. La base si fece rugosa e sempre più screpolata. Ma “lei” resistette, né io ebbi mai l’impulso di dirle basta. Era la mia cartella, era parte di me, era me alle elementari.

 

Non so quante volte sono tornato a ripensare ai quel giorno di scuola. Perché ho sempre avuto la convinzione che quella leggera imprecisione contenesse più sensi di quanto si potesse pensare. In quel vuoto c’era il mio stare in mezzo agli altri, considerandoli appunto “altri” C’era la mia inappartenenza alle cose e ai luoghi. C’era soprattutto quell’insopportabile sensazione di provvisorietà che non mi avrebbe più abbandonato. Sto qua, ma per poco. Inutile esagerare, inutile mettere radici.

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