Interconnessione / Oltre la miseria del simbolico
Siamo già l’avatar di noi stessi in un metaverso e non ce ne siamo accorti? O meglio ogni singolarità, avendo reciso il legame sociale, è l’avatar di se stesso in quel metaverso e non se ne rende conto? Il comportamento simbolico della specie, che ci ha fatti umani da circa duecentocinquantamila anni, è in crisi e in discussione e noi, che lo abbiamo alterato e utilizzato per destabilizzarlo, non siamo in grado di rendercene conto? Non sarebbe la prima volta. Sempre, le tecnologie che noi stessi, animali tecnologici, creiamo, causano un gap tra tecnica e valori; tra tecnologie e evoluzione delle nostre capacità affettive e cognitive di governarle. Stavolta la questione è tale da alzare il livello e si propone, per così dire, ad alzo zero. Dobbiamo fare i conti con Bernard Stiegler, per cercare di capirlo. È un compito non rinviabile. Possibilmente e almeno in parte prima di Mark Zuckerberg e altri, che stanno usando la situazione e noi stessi. Il contributo di Stiegler, alla ricerca di comprendere la nostra epoca non si limita alla capacità dell'analisi e della denuncia, ma è importante principalmente per la capacità enunciativa, per la disposizione ad attraversare il tempo presente con uno sguardo propositivo, scientifico e politico allo stesso tempo.
“…la questione politica più importante, e forse la sola, se mai ancora una questione può essere politica, è quella dell’estetica del noi; nell’epoca dello sfruttamento industriale dei tempi di coscienza e dello spirito che essi costituiscono, epoca della mancanza di epoca, come se noi mancassimo di noi…” [p. 78], così Stiegler pone il problema che affronta con La miseria del simbolico.
Al centro degli interessi di questo filosofo scomparso troppo presto, vi è la ricerca per l'azione istituente in un percorso a tutto tondo che va dalle tecnologie al lavoro, dall'educazione all'estetica. Un'analisi della nostra attuale condizione umana, la sua, che riguarda quella che il maestro, Gilbert Simondon, chiama l’individuazione psichica e collettiva: la via per la quale noi che siamo animali sociali individuiamo noi stessi. Con cui è particolarmente importante, appunto, fare i conti.
Lo scopo principale è sfondare i contorni del pensiero, dello stesso pensiero che come quello di Stiegler è in grado come pochi di pensare il presente, per attingere un inedito paradigma delle istituzioni, con particolare attenzione a un pensiero istituente. Non sono poche le iniziative concrete e pratiche a cui Stiegler ha dato vita, per favorire l’emergere di possibilità di trasformazione del presente, mentre lo ha attraversato come una freccia pensante ed impetuosa, quasi dettata da un’urgenza premonitrice. Fino a considerare molteplici aspetti della nostra contemporaneità con una preoccupazione costante: la valorizzazione della capacità creativa e generativa di noi umani nel trasformare i vincoli che noi stessi creiamo in possibilità di emancipazione. Ora che l’editore Meltemi mette meritoriamente a disposizione con un certo ritmo i suoi lavori anche in traduzione italiana, grazie a un gruppo di studiosi che da sempre hanno collaborato con lui e diffuso il suo pensiero, come i componenti del Gruppo Ippolita, Rosella Corda, Paolo Vignola, Giuseppe Allegri e alcuni altri, proprio con la traduzione e la cura di Corda e Allegri, possiamo disporre anche del primo volume di La miseria simbolica, dedicato a L’epoca iperindustriale.
Potrebbe bastare un ossimoro utilizzato da Rossella Corda nell’introduzione al libro per sintetizzare uno dei principali obiettivi del lavoro filosofico di Stiegler: Dell’accecamento che vede. Occupandoci in questo periodo del cosiddetto digital self e delle sue molteplici correlazioni e implicazioni, stiamo rilevando che – alla luce della inevitabilità per noi esseri umani di costruire un sé per le vie disponibili e ad ogni condizione – a livello di bodily self prevale la tendenza all’autoreferenzialità, all’anaffettività, alla solitudine, al narcisismo. Posto che la mente costruisce se stessa mentre costruisce il mondo, la mente che emerge in questo nostro presente registra una prevalenza della mente estesa e dello spazio virtuale come estensione di sé, insieme a una notevole atrofizzazione della mente situata. Si nota che per quanto riguarda l’intelligenza vi è un’espansione delle competenze computabili e una riduzione delle intelligenze emotive, con scelte rapide e superficiali e pervasività dell’attivazione dopaminica. L’intersoggettività, che è la sede della nostra individuazione, registra un’accentuazione della crisi di legame e della neutralità emozionale, inducendo a concepire l’altro come avatar. A sperimentare trasformazioni importanti è la stessa esperienza di presenza, con l’incremento dell’indifferenza e dell’effetto distanza; l’affermazione della pratica disturbata e disturbante del multitasking; l’«always on» che interferisce con l’immaginazione; lo stato di tensione connettiva permanente che non facilita la presenza e l’addormentamento; l’atrofizzazione del senso di vergogna.
Nei contesti della nostra vita, in quel tutto intrecciato dove si forma la nostra esperienza, emergono: alienazione dell’empatia spaziale; aumento verticale dei conformismi: più del 90% delle adolescenti americane fanno la stessa cosa contemporaneamente; rarefazione del senso del tempo; web reputation e crisi relative.
Una società automatica, per dirla con Stiegler, crea un sé automatico, e viceversa? Siamo esseri aperti, caratterizzati da neuroplasticità, e nel momento in cui l’estetica è diventata oggetto di uno sfruttamento industriale sistematico, trasformando il corpo che sente, il corpo sensibile, il corpo desiderante, in un corpo consumatore, viviamo nell’epoca dell’ecologia industriale dello spirito [p. 45]. Siamo di fronte a una fenomenologia che Fabio Merlini ha definito estetica triste [cfr. U. Morelli, L’estetica triste].
La produzione e diffusione di oggetti temporali, caratterizzati da obsolescenza programmata e dal fatto che, come le nostre coscienze, fluiscono e scompaiono nel momento in cui appaiono, porta alla coincidenza del fluire delle coscienze con il fluire degli oggetti temporali: ciò permette alla coscienza di adottare il tempo degli oggetti temporali in questione.
Stiegler formula il costrutto di epifilogenesi per indicare il tempo spazializzato e lo spazio temporalizzato come depositi sedimentari di avvenimenti in mezzo ai quali si vive spesso senza saperlo; una memoria che si trasmette di generazione in generazione per il fatto che, occupando lo spazio delle nostre vite, essa si esteriorizza e si conserva nel nostro intorno esistenziale, al riparo dalla fragilità del vivente. Da tempo Stiegler ha portato avanti l’epifilogenesi come processo di produzione di ciò che ha definito ritenzioni terziarie per distinguerle dalle ritenzioni primarie e secondarie individuate da Husserl. Per fare un esempio, in una composizione musicale, la nota che è presente può essere tale, e non solamente un suono, nella misura in cui trattiene (ritiene) in sé la nota precedente che vi rimane presente, e la stessa nota precedente trattiene in sé quella che la precede, e così via. Se questa è la ritenzione primaria, non bisogna confonderla con la ritenzione secondaria che è la melodia che si può ascoltare e riascoltare anche con l’immaginazione e che costituisce il passato della propria coscienza.
La ritenzione primaria, insomma, ha soprattutto a che fare con la percezione; la ritenzione secondaria con l’immaginazione. E la ritenzione terziaria? Stando alla musica, la ritenzione terziaria non sarebbe stata possibile senza l’invenzione delle tecnologie per la registrazione e l’ascolto di un brano musicale, con la ripetizione identica di uno stesso oggetto. La ripetizione può produrre differenze, o quella differenza può annullarsi dando luogo all’indifferenza proprio in ragione della ripetizione, in base alla prevalenza del desiderio o della coazione a ripetere. La miseria del simbolico si innesta nell’indifferenza e sarebbe da rintracciare nella difficoltà ormai strutturale di costituzione, allo stesso tempo, sia dell'io che del noi, a partire dalla povertà di un immaginario colonizzato. Quello di Stiegler è però un taglio critico con un orientamento militante finalizzato a reperire nella stessa condizione di miseria del simbolico, sullo stesso piano di immanenza, le energie in grado di consentire una via di fuga.
La tèchne del simbolico si presenta in tal modo nel solco dell'intero percorso di studi e ricerca di Stiegler, quello che considera il pharmakon sia come veleno che come antitodo. Emerge così la possibilità di un nuovo orizzonte estetico da cogliersi come potenziamento della capacità di sentire e sentire dunque insieme, della risonanza di una nuova filia, e quindi di una nuova politica. Gli effetti possono essere presi nella trappola dello sfruttamento e della sincronizzazione, fino al depotenziamento di un narcisismo esanime; oppure sfuggire questa presa e rimettere in moto processi attivamente desideranti, in una fuga sul posto che si configura come un salto in avanti. Quello che a Stiegler appare esemplare è partire dai pezzi esplosi di un ambiente estetico saturo e dare vita a nuove profilazioni per una nuova capacità di immaginare e sentire, facendo in modo che l'umano si dia attraverso il positivo della tèchne, considerando il fatto che noi umani siamo animali neotenici e protesici. Per questo occorrerebbe un riesame dello stato dell'arte, mettendo mano all'arsenale delle ritenzioni terziarie, per agire in senso opposto. Si tratta insomma di non fabbricare cliché di attese prevedibili lisciando il pelo di un tempo sincronizzante ma, per così dire, prendere la storia contropelo, à la Walter Benjamin, e agire controcorrente nello scarto essenziale, nella dissonanza tra attesa e inatteso, attraversare il disperare, accecati, in vista dell insperato. Per questo è necessario coraggio e spericolatezza.
Così la questione diventa quella posta da Freud in Il disagio della civiltà, che Stiegler cita in exergo al terzo capitolo, quello caratterizzante l’intero libro: “Allora sembra possibile influire sull’uomo fino a indurlo a cambiare la sua natura in quella di una termite”. È possibile, insomma, la perdita dell’individuazione nell’epoca iperindustriale fino al punto che la società si trasformi in un formicaio, perdendo gli esseri umani la distinzione di dire di no?
Secondo Stiegler noi non abbiamo lasciato la modernità, perché siamo più che mai nella industrializzazione di tutto. In questa situazione si verifica quella che egli chiama la perdita di individuazione a causa dell'avvento di un divenire usa-e-getta. In questo stadio ipermoderno della grammatizzazione, di quella direzione mediante la quale la società stessa si produce, a dominare è un calcolo generalizzato. Ad esserne interessata è principalmente la nostra esperienza estetica e la lotta estetica diviene immediatamente politica.
Occorre non darsi mai per vinti nella ricerca di maggiore autonomia individuale e solidarietà collettiva, e si tratta di perseguire uno spazio immaginativo da curare, sostenere e fomentare collettivamente. È vero che l'immensa maggioranza della società vive in zone esteticamente disastrate dove non è possibile vivere e amarsi perché vi si è esteticamente alienati. Così scrive Stiegler e aggiunge: “Io conosco bene questo mondo, provengo da lì, e so che è portatore insospettabile di energie, ma se sono lasciate all'abbandono diventeranno essenzialmente distruttive”. E allora è necessario perseguire strategie di invenzione di nuove istituzioni che combattano la miseria del simbolico e diano forza, sostegno, autonomia ai processi di soggettivazione nel senso di maggiore libertà, responsabilità, condivisione e solidarietà.
La sollecitazione delle nostre capacità di produrre metamorfosi delle situazioni e di riconoscere la componente generativa dei processi critici, valorizzando le possibilità curative del pharmacon, secondo l’analisi di Catherine Malabou, è possibile grazie all’intelligenza e alle sue metamorfosi. Nel suo libro Metamorfosi dell’intelligenza [Meltemi, Milano 2021], Malabou, – a cui dobbiamo, tra l’altro, uno studio di particolare originalità sulla plasticità esplosiva, [Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, Meltemi, Milano 2019] – , sostiene che l'intelligenza suppone una certa attitudine a produrre senso a partire dal disordine, a fare ordine nell'incertezza. Non avrebbe, l'intelligenza, secondo Malabou, solo la disposizione ad adattarsi, ma sarebbe caratterizzata dalla capacità di trarre profitto dal caso, interpretare un segnale ambiguo e indeterminato, stabilire analogie, similitudini o differenze anche laddove è difficile vederle. In questo modo si riesce a tessere relazioni tra elementi che non hanno in apparenza punti in comune. L'intelligenza, insomma, è la parte metamorfica, strategica, del vivente. Da ciò discende l'impossibilita della domesticazione ontologica dell'intelligenza e, come scrive Malabou, “ci sarà sempre qualcosa di strano a fare dell’intelligenza un attributo del verbo essere”.
Se accade che nella maggior parte dei casi le vite seguano il loro corso come i fiumi, accade altresì che talvolta abbandonino il proprio letto senza alcun motivo geologico, senza che alcun tracciato sotterraneo consenta di spiegare tale inondazione o straripamento. Quella che Malabou chiama la plasticità esplosiva è proprio la forma improvvisamente deviante, deviata, di queste vite. Secondo Malabou, l'approccio psicologico all'intelligenza, non trovando un'appropriata definizione per il fenomeno, ha finito per consegnarsi alla misura. In seguito all’evidente fallimento dei test di misurazione, i biologi hanno allora cercato l'intelligenza nei geni; ma di fronte al silenzio della genetica è stato il cervello stesso con il suo sviluppo epigenetico a costruire il nuovo laboratorio della mente. La mappatura del cervello umano nella sua interezza, con i programmi Human Brain e Blue Brain, sta portando a produrre forme di coscienza artificiale in grado di autotrasformarsi, accedendo al proprio codice sorgente. Il libro di Malabou mira a superare le posture tecnofobiche oggi diffuse e mette in campo un importante originale dialogo tra autonomia e automatismo, mostrando il ruolo che il concetto di intelligenza può giocare non solo nella valorizzazione delle potenzialità umane ma anche nel dibattito sulla democrazia sperimentale, riportando le riflessioni a livello della ricerca delle condizioni di generatività, su cui si è concentrato il percorso di ricerca di Bernard Stiegler. Secondo Malabou, simulando il cervello umano, l'intelligenza artificiale rivela il suo potere di creazione automatica. Musica, pittura, letteratura, giochi, appaiono nuove forme che fanno qualcosa di più che imitare le produzioni umane. Sono forme che le spingono a reinventarsi, rigenerando processi di costruzione democratica dell'intelligenza collettiva. “Dopo Darwin”, scrive Malabou, “dopo Copernico, dopo la psicoanalisi, ecco la quarta ferita: la cattura ad opera dell'intelligenza della propria simulazione. Curare una tale ferita vuol dire accettarla e non negarla, senza rassegnarsi ma al contrario reinventando un'affidabilità. In modo un po’ paradossale esistono forme di spossessamento che rendono più forti.”
La disposizione non solo ad accettare il presente, ma a reinventarlo alle nuove condizioni, è una postura che con determinazione viene anche da un altro vertice, quello delle tecnologie, considerate da un fisico come Roberto Siagri, che ne è progettista, e artefice di ricerca applicata. Nel suo libro La servitizzazione, [Guerini e associati, Milano 2021], Siagri assume il processo di servitizzazione, ovvero la trasformazione dell’economia del prodotto in economia dei servizi resa possibile dal progresso delle tecnologie digitali, come dispositivo di analisi di una nuova progettualità umana.
Il percorso analitico di Siagri è attraversato da una spinta di utopia concreta che finisce per configurarsi come una nuova, inedita, forma di vita, un progetto sociale ed economico profondamente innovativo. L’attenzione del libro abbraccia contemporaneamente la rivoluzione digitale, la trasformazione della servitizzazione, la sostenibilità resa possibile dalla digitalizzazione, l’evoluzione del comportamento dei consumatori dal possesso all’uso, la riorganizzazione delle imprese e lo stesso ruolo dell’imprenditore. Per rendere possibile un’evoluzione di tale portata lo sguardo tecnologico e sperimentale del fisico Siagri, si rivolge alla mentalità umana e alla necessità di un profondo cambiamento nei modi di essere e di pensare di noi umani.
Alla ricerca della differenza fra il modello di produzione industriale e quello di produzione digitale, Siagri riconosce che quella differenza non è altro che il rapporto che esiste tra la gestione della certezza e la gestione dell'incertezza. Mentre la prima prospettiva è riconducibile al determinismo, la seconda riguarda principalmente il principio di indeterminazione. Se l'incertezza viene riconosciuta, quindi, come un fattore costitutivo e non come un fattore secondario, marginale o di disturbo, l'umanità è oggi nella condizione di cercare la via per fare di più con meno, e di perseguire uno sviluppo sostenibile che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. Stabilendo una distinzione tra quella che viene definita la forza dell'uomo newtoniano, identificata con la capacità di conoscenza e predizione e con la debolezza propria dell'incapacità di azione; e quella che viene definita la debolezza dell'uomo heisenberghiano, incapace di conoscenza e predizione ma che trova la propria forza nel ruolo di partecipante al processo evolutivo di creazione e distruzione, Siagri sviluppa una prospettiva coevolutiva, che considera la tecnologia in chiave fortemente e decisamente antropologica, come espressione di un essere, quello umano, che ha tanti spazi di miglioramento davanti a sé proprio perché caratterizzato da incompletezza, e per quella stessa caratteristica è un essere tecnologico.
Nel prossimo futuro i calcolatori, oltre a raggiungere prestazioni molto elevate, saranno sempre più intrecciati con la nostra vita fino a confondersi con essa e dunque a scomparire, nel senso che non ne avremo più contezza. Un po' come l'aria che respiriamo: ci accorgiamo della sua assenza non della sua presenza. Del resto, già ora non dobbiamo essere presenti fisicamente per essere presenti, scrive Siagri, e grazie alla pervasività del digitale interconnesso su piccola e larga scala, non ci limiteremo a visualizzare la realtà né a virtualizzarla, ma la aumenteremo e il tutto avverrà in tempo reale. La grande disruption della quarta rivoluzione industriale, per noi che siamo figli di una società in continua evoluzione, troverà nei dati la nuova materia prima e ognuno di noi potrà disporre di un gemello digitale. Attraverso la presentazione delle più recenti soluzioni tecnologiche Siagri finisce per evidenziare la grande rilevanza che il digitale può assumere, attraverso la servitizzazione, per la creazione di un nuovo processo di umanizzazione, capace di migliorare la qualità della vita, quella dell'ambiente e quella del lavoro, attraverso una coevoluzione tra umani e macchine.
Il fatto che siamo sempre più interconnessi fa sì che la conoscenza umana si espanda a ritmi che erano inimmaginabili solo una decina di anni fa e quindi ciò si traduce in un esponenziale aumento di opportunità. La combinazione fra tecnologie, modelli economici sostenibili e nativi digitali spontaneamente orientati al pay-per-use, insieme a un'appropriata progettualità intraprenditiva da parte di tutti, potrà generare un vantaggio, questa volta proprio per tutti, affrontando anche il grande tema della giustizia e dell'uguaglianza.
La composizione tra l'analisi critica, comunque proiettata in avanti verso l'emancipazione e la liberazione dell'esperienza, che distingue l'approccio di Stiegler; la capacità trasformativa e generativa dell'intelligenza evidenziata da Malabou; e la centratura sulle potenzialità evolutive delle tecnologie digitali propria dell'analisi di Siagri, consentono di riconoscere sentieri possibili di attraversamento del presente, oltre la miseria del simbolico e verso forme di vita inedite.