Oltre Maigret: Simenon e la crisi di coscienza
Riconoscendo a Georges Simenon il talento di una scrittura “profondamente originale”, Alberto Savinio non poteva ignorare la ancora più originale carenza dell’uso dell’aggettivo nell’autore belga – sul quale, per il 120esimo anniversario della nascita, la sua città natale di Liegi ha promosso dall’8 all’11 marzo un festival intitolato “Le printemps Simenon”. Descrivere un fatto, un luogo o una figura senza qualificarli richiede una speciale potenza espressiva e una disposizione naturale alla perifrasi, alla similitudine e alla metafora tali da far parlare Guido Piovene di “minuziosità” e di “coerenza tra descrizione d’ambiente e descrizione psicologica”.
Così, in Il passeggero del Polarlys del 1930, il primo romanzo di una collana di circa cinquecento titoli dei quali solo un centinaio, racconti compresi, dedicati al commissario Maigret, la donna che si affaccia timidamente sul ponte della nave ricorda a Simenon “chi esce da una vasca da bagno e teme l’impatto con il freddo”. E in un romanzo di oltre trent’anni dopo, La camera azzurra (uno dei più riusciti tra quelli non propriamente polizieschi, remake mascherato di Lo straniero di Camus quanto alla sostanza del plot e al senso dell’assurdo), la donna delle pulizie viene descritta con una sola fulminante immagine: “una vecchietta del paese che portava scarpe da uomo”. In Simenon la forza di osservazione epidittica fa sempre premio su quella raffigurativa eidetica, per cui non gli serve l’aggettivazione per rendere un quadro diegetico, che preferisce dimostrare anziché fare intuire, sceneggiare piuttosto che rapportare.
Ma bisogna saperlo fare, giacché una rappresentazione meno forte della vecchietta con le scarpe da uomo, pur realistica e concreta, avrebbe imposto che fosse definita eccentrica, non rendendo però la figura; come la viaggiatrice non sarebbe apparsa davvero indecisa e incerta a dirla tale e, ancora in Il passeggero del Polarlys, l’uomo che fuma “gonfiando il petto sotto una vecchia giacca di Landwehr a cui ha cambiato i bottoni” non sarebbe stato mostrato nel pieno del suo stato di privazione e di dignità chiamandolo trasandato e contegnoso, senza riferire l’illuminante dettaglio dei bottoni nuovi.
È l’icasticità a sostenere in Simenon non solo la narrazione e la descrizione ma anche la terza struttura del romanzo, l’interlocuzione, che offre dialoghi analogici e mimetici, come presi dal vero, entro una personalissima tecnica che fa un tout de même di narrato, parlato ed esposto senza che sia possibile distinguere i passaggi da uno all’altro impianto né che sia dato aspettarsi un segnale o solo un ammicco nemmeno nei cambi di scena. Di più: quasi sempre lo scambio continuo di ordine, dal narrativo al descrittivo al dialogato, si combina con l’altrettanto frenetico cambio di tempi narrativi che, come vedremo, integra decisamente una scrittura originale fatta di febbrili andirivieni narratologici che non può inevitabilmente non apparire anche stravagante.
Se perciò, da giornalista, Indro Montanelli lodava in Simenon la concisione, il critico Robert Kemp scriveva nel ’48 di Pedigree, il romanzone più ambizioso e impegnativo: “È scialbo, cari amici, è scialbo! Certo, ma è meraviglioso”. Di qui l’accostamento spontaneo che viene da fare con Andrea Camilleri, lo scrittore che in Italia più lo richiama per prolificità, stile letterario dimesso e definizione dei personaggi: primo fra tutti Maigret, padre nobile di Montalbano soprattutto nel comune metodo d’indagine che, secondo Giuseppe Petronio, è nel commissario francese di tipo “intuitivo e non induttivo come in Sherlock Holmes”, proprio come nell’investigatore siciliano che giunge alla soluzione di ogni caso grazie a un flash che gli illumina di colpo la mente.
Ma al pari di Simenon, anche Camilleri ha provato ad affrancarsi dal suo commissario impegnandosi da autore civile (e “civili” sono detti i suoi titoli non montalbaniani, come “duri” sono stati chiamati dallo stesso Simenon quelli non maigretiani) per non rimanere legato al genere, epperò finendo per essere considerato – nel vano tentativo di mutarsi da narratore popolare in narratore impegnato – allo stesso modo un giallista e come tale non degno dell’Olimpo della letteratura dove qualsiasi genere non ha cittadinanza. E dove gli studi critici su Simenon non sono così numerosi quanto la mole sterminata della sua opera supporrebbe, anche perché in Italia il suo nome è rimasto legato al successo televisivo di Gino Cervi in televisione, senonché già da prima ad essere più letto e pubblicato era il ciclo di Maigret che non il resto. Il canone non poteva non tenerlo fuori, ma il Simenon non di consumo e di genere ha continuato con forza a chiedere un posto.
Fu Savinio a fare conoscere nel 1936 Simenon in Italia come “scrittore serio”, cioè non come il padre di Maigret, senonché “scrittore serio”, ovvero impegnato (a meno che Savinio non intendesse dire “preso sul serio”) Simenon non è mai diventato (tant’è che è raro leggere citazioni di suoi brani), se anche il suo romanzo più serio, Pedigree (per il quale così scriveva all’editore Gallimard nel ’41: “Ho iniziato la grande opera a cui sto pensando da anni”, quella che avrebbe dovuto riconoscergli, nelle intenzioni, un posto di rispetto nella letteratura) è stato accolto tiepidamente dal pubblico e addirittura con sfavore da André Gide, lo scrittore che per lui più di tutti stravedeva per l’abilità di intrecciare trame da leggersi d’un fiato.
Letto il pesante dattiloscritto del romanzo al quale tutt’oggi è attribuito il ruolo di libro matrice di tutti quelli duri, il Nobel francese della letteratura 1947 gli rimproverò la mancanza di “trance” nei personaggi, forse perché, trattandosi di un racconto autobiografico, ricordava le persone senza ricrearle. Gli consigliò allora di rifare il romanzo usando la terza persona, così da distaccarsi da quanti realmente gli erano noti per renderli personaggi. E Simenon seguì il suggerimento ma senza ottenere il risultato sperato, finendo per ammettere che i romanzi fiume che chiamava romanzi-cronaca, molto di moda allora, non erano nelle sue corde, amando egli i contrapposti romanzi-crisi, brevi e fatti per portare i personaggi velocemente al parossismo e metterli presto nudi (espressioni dello stesso Simenon riportate a Gide), senza la lentezza che è propria dei romanzi spalmati nel tempo e quindi lenti, del tipo La montagna incantata di Mann, così tirato ma tanto letterario.
E in realtà il Simenon stringente e conciso non è autore di romanzi che superino le duecento pagine (generalmente composti di undici capitoli scritti, secondo la leggenda, in undici giorni), né di grandi affreschi epici o saghe familiari, perché è esclusivamente “scrittore di cose” anziché “di parole”, secondo la distinzione di Sciascia sugli autori che dicono e quelli che parlano, gli uni diretti ai fatti e gli altri fermi sulle proprie avvisaglie. Conciso non meno che concitato, Simenon sembra scrivere, nella prassi per esempio delle agenzie di stampa, come se ogni parola avesse un costo e quindi proponendosi di essere breve, comprensibile e piacevole con il minimo sforzo: ma si tratta di sprezzatura, quella che Raffaele La Capria chiamava “stile dell’anatra”, leggerezza apparente che nasconde una fatica indicibile, o forse un ingegno straordinario, dal momento che Simenon scrive currenti calamo. Non per questo manca di lucidità e brillantezza. Sciascia, che non lo amava molto, riconosceva nondimeno che egli sapeva sin dall’inizio come avrebbe continuato e chiuso un romanzo, segno di una volontà di progettazione che è solo di quanti non procedono a vista.
Alla stregua quindi di un corridore di Formula uno che conoscendo il circuito manda in visibilio il pubblico con le sue esibizioni spericolate, Simenon scrive in maniera funambolica e sa dare le vertigini al lettore, sia pure ora incantandolo e ora stordendolo. La sua acribia di osservatore, i suoi viaggi intercontinentali, tutte le sue esperienze, non ultime quelle intime, gli servono come deposito di “tele grezze” (espressione da lui amata come pure “lascivia”) con cui ricavare abiti di fogge diverse ma sempre dello stesso tessuto. Cambiano i luoghi, le epoche, gli scenari, ma la galleria dei personaggi non muta mai, al pari dello schema narrativo, ricorsivo e un po’ corrivo qual è, per modo che anche la domestica a ore di Il grande male porta scarpe da uomo come la donna delle pulizie di La camera azzurra e la signora Pontreau del primo titolo sarà ricalcata dal Tony Falcone del secondo nella scena del loro ritorno a casa tra una folla ostile e in una progressione scandita attimo per attimo per creare l’attesa della caduta del tragico nell’ordinario.
Simenon opera secondo variazioni sul tema, ma il suo genio non è nella fabula quanto nell’intreccio, involgendo un vorticoso gioco di metalessi che, con ripetute e repentine analessi e prolessi, scombinano mirabilmente i tempi principali e derivati della narrazione (benché la proposizione di Simenon sia quasi sempre paratattica, priva di subordinate), mentre quelli della scrittura reggono una verticale invero molto facile da perdere. Il segreto di Simenon è insomma nel tourbillon della trama che imbastisce e non nella reiterante storia che inventa. Si prenda La camera azzurra. A riassumere la fabula ci vuole davvero poco: due amanti clandestini entrambi sposati si vedono in un albergo finché il marito di lei non si ferma all’uscita e instilla in loro il sospetto di essere stati scoperti: sicché lei architetta di rendersi libera, uccidendo il consorte, nel patto che anche lui faccia altrettanto con la moglie. Finiscono arrestati e condannati al carcere a vita. Se la trama è piuttosto banale e risaputa, l’intreccio appare una lezione magistrale su come costringere il lettore a non distrarsi fino alla fine. Ed è proprio questo il grande merito che Gide per primo riconosce a Simenon quando gli scrive: “Lei avrebbe certo riso a vederci, nella stessa stanza, immersi nella lettura. Jean Lambert, mio genero, leggeva Il grande male; Catherine, mia figlia, Il borgomastro di Furnes e io… in quindici giorni ho riletto dodici dei suoi primi libri”. L’immedesimazione interna, quella cioè legata alla trama (differente dall’altra esterna dovuta all’attrazione dello stile), deriva dal senso di sospensione che l’autore crea tenendo sempre pronta sulla scena una minaccia incombente, il presentimento imminente di un fatto nuovo che si rivela puntualmente un rovescio.
E se è pur vero che anche i romanzi duri sono alla fine di genere poliziesco, perché c’è sempre una colpa individuale da scoprire e perseguire, la differenza con il mondo di Maigret non è data solo dalla costante del lieto fine che chiude ogni episodio del commissario con il successo della sua inchiesta, mentre nei romanzi duri l’epilogo consolatorio è sempre assente e invalgono finali angoscianti e gravidi di inquietudine, ma anche sotto la specie del genere, giacché le indagini di Maigret rispondono a un modello invariabile di giallo quando gli altri stanno a metà tra thriller psicologico e noir d’ambiente e anziché l’attenzione tengono viva la suspence e in molti casi il brivido. Con una caratteristica comune, sebbene a diverso grado: sia in Maigret che altrove Simenon non ricerca il whodunit ma il whydunit, ovvero il perché di un caso e non chi ne è artefice. In Il grande male la ricerca della verità circa la morte di Jean Nalliers recede di fronte alle conseguenze che la stessa morte determina in capo alle persone a lui vicine, né è perseguita e stabilita dall’autore, che però già in una scena rivela presto che si è trattato di un delitto e chi è stato a commetterlo.
Lo studio filologico del contenuto delle cosiddette “buste gialle” (usate da Simenon alla maniera dei foglietti appesi a un filo da Montaigne, come serbatoio cui attingere e schedario di luoghi e personaggi) comprova l’interesse dell’autore per le dinamiche psicologiche che stanno alla base di un caso giudiziario, le quali molte volte non corrispondono neppure alle ragioni che l’hanno creato: i personaggi di Simenon non sanno perché hanno compiuto o vogliono compiere un gesto pur estraneo alla loro coscienza e, chiamati dal giudice a darne spiegazione, si interrogano se la risposta debba riguardare le ragioni del momento o quelle del tempo del fatto in questione, perché – ci dice Simenon – gli uomini cambiano anche per se stessi e molte volte non sanno dare conto delle proprie azioni pur essendo del tutto sani di mente.
L’orsacchiotto, romanzo del 1960 (l’ultimo uscito del prezioso catalogo simenoniano Adelphi che da anni si va mirabilmente arricchendo), riflette appieno questa ontogenesi umana: un affermato ginecologo, che nulla ha davvero da chiedere alla vita e alla fortuna, entra in crisi per un episodio secondario che intacca la sua morale e lo destina a conseguenze devastanti nella confusione crescente e nell’inconsapevolezza di quanto gli sta accadendo. Simenon può allora scrivere di lui: “L’uomo che insegnava a Port-Royal non era lo stesso che nella Clinique des Tilleuls teneva a lungo la mano delle pazienti. E non era lo stesso neppure nel suo ambulatorio privato, a pranzo in famiglia, in casa di Viviane o da sua madre. Così che, alla fine, non era più nessuno. Quello che andava cercando dal mattino, da mesi, da anni, era sé stesso, ecco la verità”.
Questa scomposizione fondamentale della personalità si ritrova anche nei romanzi nei quali Simenon, dopo aver rinunciato al deludente esperimento di raccontare di sé fatto con Pedigree e Mi ricordo…, narra comunque della propria vita ma affidandosi a un narratore, un autore implicito che scrive in prima persona. Il suggerimento di Gide è stato dunque adattato a un modello narrativo che consente una trasposizione camuffata da sé a un’alterità fittizia, quindi un salto dal vero al verosimile.
Nel 2021 Adelphi ha raccolto attorno a Pedigree altri otto romanzi del tipo autodiegetico e fra questi figura il più significativo, Gli altri del 1961 (mai in Italia uscito in volume), che testimonia – nella rara forma en travesti della saga familiare – la teoria della scissione dell’io cui Simenon si dedica come per uno studio scientifico, naturalistico e infine positivistico. “Pur restando me stesso” scrive l’io narrante, “avevo l’impressione di vivere più vite contemporaneamente, di indossare personalità diverse che in un certo modo sentivo fraterne”.
Non c’è chi non veda alle spalle di Simenon il Pirandello della frantumazione della coscienza e della sua molteplicità e irriconoscibilità. Senonché dietro Simenon è presente anche Eschilo, che non dà all’uomo simenoniano la possibilità di un’altra vita, come Pirandello concede a Mattia Pascal, perché lo lega al suo destino, che è inevitabile e inesorabile, voluto non dagli dèi ma dagli uomini. È entro questa chiave che Simenon chiama “duri” i suoi romanzi sociali fatti di hybris, intendendo ricreare una cosmogonia del dramma umano che superi non solo i confini nazionali di ogni Paese ma pure i luoghi (essendo trasfigurati quelli teatro delle vicende principali pur rimanendo reali altri che sono secondari) nonché le epoche, se è vero che leggiamo oggi un suo romanzo degli anni Trenta senza sentirlo fuori dal nostro tempo.
In generale l’uomo simenoniano è spinto a tradurre le irresolutezze del proprio passato in un destino di verità, facendo della sfera soggettiva il portato di una condizione oggettiva generale. Il mondo di Simenon è di fatto popolato da coppie di coniugi dominate da lei, figli in contrasto fra di loro perché amati diversamente, individui assillati da sensi di colpa, inclini a conati di viltà, timorosi della loro fragilità, combattuti nei loro segreti inconfessabili, divisi unicamente tra deviati e devianti, convenzionali e ribelli. Ma tutti sono perdenti, predestinati a un destino di rovina e schiavi di un mistero esistenziale, cosmico, connaturato nella natura umana. Non è quella di Simenon infine una voce che ancora oggi non tace e ci parla mettendoci davanti allo specchio?