5 / Parasitus in fabula
C’era una volta un topo di città. Dopo essere stato ospitato a un frugale pranzo dal topo di campagna, ricambia l’invito per fargli assaggiare i cibi succulenti della sua ricca dispensa; mentre i due stanno mangiando, si sente un terribile latrato di cani e lo spavento induce il topo campagnolo a tornarsene alla sua misera ma sicura vita. La favola, scritta da Esopo nel VI secolo a.C., sarà ripresa nella sesta Satira di Orazio per comporre l’elogio della semplicità della vita campestre. Anche nella versione che ne proporrà Trilussa, all’onestà della vita rustica si contrappone l’universo ipocrita ed ingiusto della città: “er sorcio de campagna” è allarmato dalla presenza delle tagliole nel lussuoso locale in cui è stato invitato dal “sorcio de città”; ma quest’ultimo lo rassicura, in campagna per i topi che rubano c’è pronta la “tajola”, ma in città nelle trappole ci finiscono soltanto “li sorcetti poveri”, quelli ricchi possono stare tranquilli. Nella versione che ne proporrà La Fontaine, la serenità del pasto raffinato, consumato su di un tappeto di Turchia nel palazzo del Topo di città, è turbata da rumori alla porta. I due topi spaventati decidono di recarsi in campagna dove poter mangiare con calma, senza la paura che interrompe i festini dei Re.
I topi sono ospiti indesiderati che mangiano alle spalle del padrone di casa, contadino o signore, vorrebbero prendere senza restituire nulla in cambio; ma ecco il rumore, altro parassita in termini d’informazione, che li sorprende alle spalle e li caccia. Quel che mostra Michel Serres in Le Parasite (Grasset, 1980) è che la favola ci offre un chiaro modello della catena parassitaria; nella freccia semplice irreversibile, l’ultimo venuto prende il posto dei precedenti, vince al gioco perché ha scoperto il posto del potere (e del filosofo). All’inizio è la produzione, di alimenti o di beni intellettuali, rara e sovrabbondante, che subito attira i parassiti: il signore ha ricevuto il cibo dall’agricoltore che, a sua volta, lo aveva preso dalla mucca, dagli alberi, dai campi. La Terra è il serbatoio comune, donatrice universale da cui tutti possono attingere, ospite che rende possibile l’avvento dei parassiti. Il topo di campagna forse ha compreso che la città mangerà sempre sulle spalle degli agricoltori: quanto la favola annuncia è quel che viviamo oggi, non solo la fuga dell’uomo dai campi, ma la sua messa a morte. “L’agricoltura, vecchio parassitismo primario, è eliminata dai parassiti di rango superiore, abituati al rumore, quelli di Megalopoli”, scrive Serres.
Ogni forma di produzione, di trasformazione della materia, implica il prelievo di risorse, dalla terra in agricoltura, dagli animali con l’allevamento, dai servi obbligati al lavoro. Prometeo, che ha fatto dono agli uomini del fuoco e delle tecniche, forse viene punito dagli dei per aver dimenticato che la produzione si paga, che implica sprechi ed entropia crescente. “Bisogna parlare di Prometeo dal punto di vista dell’aquila”, suggerisce il filosofo francese: il rapace, che giunge ogni giorno a squarciare il petto del produttore incatenato, si è fatto parassita più che predatore. Quando poi avviene la distribuzione, quando cibi, informazioni e merci vengono scambiati e trasportati lungo cammini, subito compaiono ostacoli, vi sono incidenti nel flusso. Ogni scambio presuppone un terzo che precede lo scambio, è sempre fondato su un abuso, l’equilibrio è subito inclinato; in principio è l’abuso, il prelievo senza restituzione, solo dopo compaiono il valore d’uso e quello di scambio, condizioni ideali, valide solo per sistemi chiusi. L’abuso è la relazione stessa, coincide con l’apertura del sistema; siamo costretti al lavoro, a fare ordine che produce disordine, a cacciare parassiti che tornano di continuo. C’è sempre una lepre in giardino, un pidocchio sulle foglie della vite, un serpente in paradiso.
Due topi pranzano insieme, ecco sopraggiungere un terzo, persona o rumore, che fa cessare la festa; per impedire l’accesso ai parassiti servono segnali d’allarme, cioè bisogna complicare il sistema, ostruire certi cammini per consentire ad altri di comunicare, ma a costi più elevati. Solo un parassita caccia un altro parassita: aggiunge una mediazione, un anello in più nel sistema, e così può accadere talvolta che il sistema si consolidi, si arricchisca e si faccia più complesso. Chi fa rumore alla porta può essere un dio, un benefattore, un mediatore angelico o un demone, lo si può accogliere o cacciare, scivolare lungo lo spettro dove si confondono ospitalità e ostilità: l’hospes diventa hostis, l’invitato si trasforma in nemico, l’animale è reso domestico o selvaggio. Il parassita parassita i parassiti, suggerisce Serres, e chiunque può assumere la posizione del terzo fra i due ospiti. In un sistema rumore e messaggio si scambiano posizione: per chi conversa è rumore la musica che altri ascoltano, per i topi è rumore l’arrivo del padrone, per il quale al banchetto è disturbo il passaggio dei topi. Il rumore è un jolly, può distruggere o costruire, produrre l’oscillazione che costringe ad adottare un nuovo sistema o annientarlo. Resta il fatto, argomenta Serres, che il parassita è l’intermediario inevitabile, il fondo primario di ogni relazione, come il rumore di fondo è il,fondo dell’essere. Solo nel sito della sorgente vi è soltanto luce, ma non appena si è in un ambiente si incontrano ostacoli, non appena qualcosa si sposta e trasporta (oggetti, messaggi, saperi), lo spazio trasforma quanto emesso, e il messaggio si perde, poco o molto. “La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria”: il Kant della Critica della Ragion pura ricorda che era questo il sogno dell’idealismo platonico. Ma chi abbandona il mondo sensibile, per slanciarsi sulle ali delle idee nello spazio vuoto dell’intelletto puro, finisce per non trovare più nulla a cui sostenersi e non è più in grado di spostarsi. La colomba vola perché l’aria, che fa da resistenza, le dà sostegno; nel tubo di Newton cadrebbe subito a terra.
L’ossigeno alimenta la nostra vita, ma invecchiare è un’ossidazione. Vediamo perché vediamo male, ci sono sempre intercettazioni nello spazio di trasformazione in cui ogni realtà si muove. Il canale che conduce il flusso e trasporta il messaggio non può cancellarsi e dunque frena il flusso; la comunicazione perfetta non esiste, se vi sono canali, cioè mediazioni, allora per forza vi è rumore: il reale non è razionale, i sistemi funzionano perché non funzionano, ha ricordato Serres in più occasioni. Ogni sistema di comunicazione e distribuzione vive sempre in una “disarmonia prestabilita”: i messaggi incontrano ostacoli, angeli e altre figure ermetiche li intercettano agli incroci, imponendo deviazioni anche minime al transito. Non esiste sistema senza parassiti, anzi l’attività parassitaria è probabilmente la cosa più comune al mondo; il rumore fa parte della comunicazione, l’errore e la confusione sono parte della conoscenza, la luce diffusa dal sapere ha il suo inevitabile cono d’ombra. Non esiste rendimento ottimale, vi sono sempre perdite, usura, si producono sempre scarti all’equilibrio, ed è questo a permettere che ci sia storia. Chi sogna di fare tabula rasa, di ripetere la fatica di Ercole cartesiana, ricostruire tutto dalle fondamenta, eliminando ogni opacità per giungere alla purezza (nel cielo delle Idee, nel Paradiso dei Santi, nell’isola di Utopia o nel cosmo cristallino degli enti matematici), è paragonabile all’uomo che brucia la sua casa per poter ascoltare il rumore dei topi in soffitta. «Siamo giunti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito, e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!», ci ricorda il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche. La fluttuazione e il rumore non sono uno scacco alla ragione, come voleva la strategia classica del pensiero, in nome di ordine, pulizia e proprietà. Anche il razionale in senso numerico, l’insieme delle grandezze esprimibili in forma di frazione, convive con i numeri irrazionali, scarti che non cessano di appartenere alla matematica e di comporre l’insieme dei numeri che diciamo reali. Siamo sicuri che il parassitismo sia un ostacolo al funzionamento del sistema e non la sua dinamica stessa, chiede Serres?
L’imprudente Cicala della favola di Esopo, adattata da La Fontaine, dopo aver passato l’estate a cantare, si ritrova in inverno senza neppure una briciola nella credenza; la fame la costringe a chiedere cibo alla previdente Formica che, dopo aver ammassato pazientemente riserve per l’inverno, ora non è disposta a cedere nulla, neppure in prestito. La sua risposta alla Cicala è un invito a ballare, visto che nella bella stagione ha perso tempo a cantare. La versione di Gianni Rodari invita ad assumere la prospettiva del dono al posto di quella dello scambio, a passare dalla logica del profitto a quella della gratuità: “Chiedo scusa alla favola antica / se non mi piace l’avara formica / io sto dalla parte della cicala / che il più bel canto non vende … / regala!”. La formica ha ammassato grani e vermi, ha cacciato parassiti inetti al lavoro, cantori rumorosi, tiene pulito il suo formicaio, il suo reale è razionale. La formica è un animale politico, ha edificato il collettivo, una città di polizia ben amministrata, di soldati, operai e consumatori. Come per tutti gli organismi, uomo incluso, il suo diritto di proprietà ha un’origine stercoraria, quello che sporca diventa suo, propre dice il francese, unendo saggiamente il pulito con il proprio. Serres ha indicato in questo gesto il meccanismo comune che presiede alle tre funzioni della civiltà indo-europea, indagate da Georges Dumézil, le stesse che si ritrovano nello “specchio del feudalesimo” ricordato da Georges Duby. Il potere politico, militare e religioso (Marte e Giove) si mantiene nutrendosi di quanto giunge dai produttori, il cui emblema è il dio romano Quirino: il coltivatore preleva quel che offre il suo campo, l’allevatore prende latte, carne, lana dagli animali e ne controlla la riproduzione. Il gesto che accomuna le tre funzioni è cacciare parassiti. Il sacerdote purifica il suo spazio di clausura e lo rende omogeneo, il militare difende le frontiere e caccia gli invasori, come fa il produttore con le erbe infestanti e gli insetti sul suo terreno. Tre spazi puliti, sempre più puliti quanto più si procede verso il centro, mentre ai margini restano i barbari e il male, hic sunt leones. All’interno lo spazio chiuso e protetto del sacro, la città al riparo delle mura, all’esterno il vago dove corre il male, la campagna disseminata di differenze e percorsa da potenziali pericoli. Lo schema comune della nostra cultura, la genesi stessa del collettivo, è deparassitare, purificare, espellere l’estraneo, il nemico: è la scomunica religiosa, la prigione per i politici, l’isolamento dei malati, la pasteurizzazione del latte. Ma più si esclude più si viene esclusi.
L’agricoltura è nata dal gesto di espulsione, dall’eliminazione radicale, cioè fino alle radici, delle erbe presenti in un campo per moltiplicare solo la varietà più fortunata o più adatta. Al posto del vecchio equilibrio tessuto di differenze, ecco prodursi una tessera bianca del domino, costruzione di un luogo recintato e ripulito, da cui sono stati cacciati gli estranei. Il vomere dell’aratro è un coltello sacrificale, il gesto dell’agricoltore è il primo atto del religioso. Abele offre un agnello in sacrificio, prima di venire sgozzato dal vegetariano Caino che offre i frutti delle sue coltivazioni. Solo un parassita ne caccia un altro, ricorda Serres. Il primo che, avendo recintato un terreno, decise di escludere quel che c’era prima, è il fondatore della nostra società civile; solo dopo, come voleva Rousseau, potrà dire “questo è mio” e trovare persone così ingenue da credergli. Agricoltura e cultura hanno la stessa origine, si tratta sempre di espellere per ripulire. Così nasce la geometria, modello per le scienze a venire: gli arpedonapti, preti e agrimensori, misurano i terreni inondati dalle piene del Nilo per ridistribuire le proprietà. Di qui sorge lo spazio astratto, da cui cioè tutto è stato estratto e sottratto, lo stesso gesto con cui si costruiscono le altre idealità formali: Platone estirpa tutto ciò che deriva dall’impurità dei sensi, annulla l’invadente empiria pullulante di differenze; l’io pensante di Cartesio caccia il più maligno di tutti i parassiti, il “genio” che intorbida le procedure della ragione. Nello spazio bianco così conquistato il pensiero è padrone, può far passare le catene dei suoi ragionamenti, moltiplicare il semplice e l’unitario, il razionale e il tecnologico. L’oggetto-mondo si costituisce come spazio vergine, bagnato dalla luce omogenea della Ratio matematica, un proliferare di semplici sostituisce l’antica molteplicità di complessi. In principio non c’è lo spazio vuoto, il puro è solo ciò che è stato purificato, frutto del lavoro di pulizia ed esclusione.
La formica ha cacciato la cicala, non vuole ospiti insolventi, ma per eliminare i parassiti deve produrne altri: la purificazione ha i suoi costi, richiede energie, sprechi di tempo e scarti, bisogna lavorare per poter lavorare. E il parassita cacciato ritorna sempre, come il rimosso, perché l’unico nemico del parassita è un altro parassita più forte. La funzione parassitaria è ineluttabile, è l’essere stesso della relazione: la forza spesa per escludere un parassita ne produce altri. Per avere una conoscenza perfetta, per compiere un lavoro senza fatica e scarti, dovremmo cancellare lo sforzo e l’usura, ignorare che non esistono pasti gratuiti, che ogni azione ha il suo rovescio entropico. Il demone di Maxwell, nel separare le molecole calde dalle fredde, è costretto a sprecare energia, cioè a sviluppare disordine; ed è così che fa la vita nella sua lotta per arrestare la deriva entropica. Le fatiche di Ercole sono ottimiste, ci illudono che si possano ripulire finalmente tutte le stalle; ma il mito non racconta che i parassiti ritornano, come il virus della varicella che si riattiva, cinquant’anni dopo, come herpes zoster. Il tohu-bohu del primo giorno della creazione perdura ben oltre le origini, per tutta la settimana, attraversa il paradiso stesso.
Ma giunge il tempo della vendetta delle cicale, quando lo spazio si copre di voci e di musica: le piccole energie di comunicazione invadono tutti i luoghi, errano a caso e finiscono per dominare. La cicala non ha bisogno di inviare soldati per controllare il territorio; il suono si diffonde con maggiore ampiezza e velocità, occupa più facilmente lo spazio rispetto a chi produce. Chi può differire il desiderio più a lungo controlla meglio le relazioni, è signore delle mediazioni; la voce e il rumore hanno la meglio sulla cosa e la sostanza. Un’antica parabola sufi, variamente declinata, racconta di uno zoppo che sale sulle spalle di un cieco: quest’ultimo compie lo sforzo fisico, offre l’energia macroscopica, la forza per sorreggere il corpo dell’altro, che invece paga in informazione, in energia microscopica. È il cieco ad indicare la strada, a dirigere: ha inventato la cibernetica, si è fatto gubernator, regge il timone, la leggerezza dei bit senza peso, cara a Calvino, guida il supporto materiale, il software controlla l’hardware. Chi produce il moto è cieco, si sposta obbedendo al messaggio che riceve; chi sta sulle spalle e comanda fa in modo che i produttori ricevano poca o nessuna informazione, controllando i canali di trasmissione.
Il lavoratore manuale è reso cieco dal paralitico intellettuale. È questo il meccanismo che garantisce il potere della burocrazia, più forte sia della forza che del diritto. Il produttore possiede il contenuto, ma il parassita è sempre più forte perché controlla la posizione e quindi i rapporti fra i soggetti. Di qui il senso del prefisso para, che significa “di lato”, “presso”, quello che si ritrova in “parabola” e in “parola”: la logica del parassita è spostata, non agisce sulla cosa ma sulla relazione, svolge ruolo di mediatore e gestisce i passaggi; chi controlla la distribuzione delle merci ricava maggiore profitto di chi le produce. Il sofista e il politico, rumori di sistema che non possono essere soppiantati, intercettano ogni relazione e gestiscono il collettivo. Sono gli uomini della mediazione, dell’esame e della critica, a occupare lo spazio, sanno dove disporsi per intercettare la produzione e l’informazione, rare, e si fanno esigenti. Esigono, dall’exigere latino che significa in primo luogo spingere fuori, cacciare, escludere; la loro azione è un’esazione, fanno pagare un’imposta, pretendono, come il matematico, una tassa che nessuno può pagare perché l’esattezza assoluta non è di questo mondo.
C’erano una volta un gatto e una scimmia. Vivevano come animali domestici nella stessa casa, da grandi amici, con la sola preoccupazione di procurarsi ogni giorno da mangiare. Un giorno, seduti vicino al fuoco, guardavano il loro padrone arrostire delle castagne. L’astuta scimmia induce il gatto a tirarle fuori dal fuoco, lasciando a se stessa l’onere di dividerle. Il gatto, ingenuo e fiducioso, obbedisce, prende le castagne ad una ad una fino a bruciarsi la zampa: la scimmia se le mangia tutte prima che giunga una servetta a cacciare i ladruncoli. Da quel momento, racconta La Fontaine, il gatto disdegna le castagne e si trova più a suo agio con i topi. Il gatto compie lo stesso gesto del demone di Maxwell, si impegna in un lavoro di cernita; nell’alleanza che stringe con il suo compare contro l’ospite non esiste rivalità, ma il rapporto non è alla pari: nella struttura d’ordine in forma di catena parassitaria, la scimmia scroccona occupa l’ultimo anello, il posto a valle, il pozzo di potenziale direbbe Réné Thom. Rovesciando la figura ingannevole della piramide del potere, mangia chi occupa il posto dove le cose cadono; lo sa bene il lupo che rimprovera l’agnello, posto più a valle, perché gli intorbida l’acqua. Il gatto della favola, non potendo più parassitare nessuno, non avendo un “padrone” che lo sfama, diventa predatore. La caccia non è che lo scarto affamato del parassitismo, ricorda Michel Serres; richiede più energia, più impegno rispetto alla scrocconeria che è più diffusa, più originaria, più probabile, proprio perché meno costosa.
Crediamo di essere animali sociali (o politici), quando invece siamo animali simbionti, non possiamo fare a meno di convivere con altri della nostra specie, ne abbiamo bisogno e spesso li trasformiamo in ospiti parassitandoli. Per nutrirci dipendiamo da altri organismi, animali o vegetali, respiriamo grazie all’ossigeno che ci donano le piante. Del resto, è così che ha preso avvio la nostra esistenza: in quanto cuccioli neotenici siamo stati tutti in balia delle cure materne e prima ancora abbiamo vegetato nel grembo assorbendo materia ed energia. Il cucciolo d’uomo non si nutre solo di latte, gli occorre anche la parola e la cultura, un altro tipo di ambiente, senza il quale morirebbe: siamo parassiti anche delle nostre lingue, nostre madri che ci accolgono. La donna, chora platonica, utero e matrice, è l’ospite, riceve e accoglie in sé il parassita dotato di una potenza di trasformazione. La produzione nei mammiferi è un ciclo endoparassitario: il feto è il parassita della madre e spesso il nostro “attaccamento” (come diciamo dei pidocchi alla superficie della pelle) prosegue ben oltre l’infanzia. Manteniamo una condizione di dipendenza, in termini economici ma anche affettivi, in quel sistema simbiotico-parassitario che è la famiglia, con le patologie psichiche che ne conseguono. C’è chi si avverte nella relazione parentale nella condizione dell’intruso, ospite non invitato e sgradito, figlio non voluto, oppure nella condizione estrema del parassita, mantenuto dal lavoro del padre, e quindi assimilabile a uno scarafaggio. È questo il rimprovero umiliante ricevuto dal giovane Kafka, come ricorda nella Lettera al padre: nella replica simulata che lo scrittore attribuisce al padre in cerca di una patente di innocenza, l’accusa rivolta al figlio è di “voler vivere soltanto di me”, come un soldato mercenario che ignora il duello cavalleresco fra nemici alla pari e combatte da parassita, “che non solo punge, ma per rimanere in vita succhia anche il sangue dell’avversario”.
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