Passato anteriore: la nuova Preistoria
Julien Gracq, in La littérature à l’estomac (José Corti 1950), dice che il lettore francese, sempre pronto a mandare alla ghigliottina i propri uomini politici, è invece passivo e credulone rispetto ai grandi scrittori del passato. Per una ragione molto semplice: li ha letti poco. E proprio come fino al 1940 credeva ciecamente nell’invincibilità dell’esercito francese, allo stesso modo continua a pensare che la Francia, avendo avuto grandi scrittori in passato, li avrà per sempre. A questa mancanza di consapevolezza contribuiscono delle “operazioni magiche” perpetrate da potenze oscure (alcuni scrittori, alcuni editori, alcuni critici, alcuni professionisti della cultura) che hanno interesse a mantenere la letteratura in una zona brumosa, distante, perché la bruma serve a nascondere qualcosa di inesorabile e innominabile: l’assenza di grandezza.
Questa idea, espressa nel 1950 e ancora attuale settant’anni dopo, ha una doppia articolazione, temporale e semantica: il nostro rapporto con il passato è di ignoranza, il nostro rapporto con il presente è l’esito di quella stessa ignoranza. È così che voglio leggere l’arrivo in Italia di Il tempo sacro delle caverne di Gwenn Rigal (Adelphi 2022), un libro che può mettere ordine in molte cose. Perché diciamolo subito, il nostro rapporto immaginifico con la Preistoria si fonda nella migliore delle ipotesi su amenità paletnologiche come La guerra del fuoco di Jean-Jacques Annaud, o i romanzi polpettone di Jean Marie Auel, o qualche sbirciatina in rete da cui apprendiamo grosso modo cos’è Lascaux, ci facciamo un’idea sulla faccia dei Neanderthal dalle ricostruzioni glamour dei gemelli Kennis, orecchiamo e crediamo di afferrare le teorie sciamaniche di Jean Clottes e David Lewis-Williams. Ma no. Come nel caso del lettore francese del 1950, siamo forse disposti a pensare che la nostra Preistoria sia grandiosa, un grande calderone mitopoietico in grado di dialogare con il presente, ma la scuola non ci ha insegnato nulla più di questo, e no, non basta guardare Cave of Forgotten Dreams (2010) di Werner Herzog per gettare un ponte visionario tra Paleolitico e Antropocene.
Rigal arriva allora al momento giusto (in realtà scrive nel 2016, ma noi avevamo bisogno di pensarci con calma, no?), arriva e risponde in maniera seria e paziente alla domanda da cento milioni delle vecchie lire: che cosa significa l’arte delle caverne? Il libro fa qui quello che un bravo professionista dovrebbe sempre saper fare, cioè schierare sul tavolo teorie, strumenti, dati accessibili a tutti, per poi mostrare in 250 pagine molto ben scritte che la domanda è mal posta e che una risposta univoca non esisterà mai.
Certo, è difficile deludere tutti rivelando che la Preistoria dell’immaginario non è una lingua scomparsa da decifrare o un mistero alla Indiana Jones che sveleremo prima o poi tramite Atlantide o gli alieni. È difficile perché l’accesso a certi temi richiede un salto di complessità, in un backstage laborioso che è molto meno affascinante della prima suggestione visuale: oggi datazioni al radiocarbonio, microanalisi, neurofisiologia, neuroestetica, climatologia, tafologia, scansione 3D, sciamanesimo, zoocenosi; ieri strutturalismo, totemismo, animismo, arte per l’arte, pensiero magico. Tutte cose noiosissime se affrontate dalla corretta prospettiva scientifica, tutte cose che bisognerebbe conoscere per capirci veramente qualcosa.
Così Rigal, in agili capitoletti mai trascurati, riesce a riassumere e illustrare passato remoto, passato prossimo e presente (fino al 2016) della ricerca paletnologica, facendosi carico tanto dell’aspetto semantico-ermeneutico quanto di quello epistemologico. E così, trovando un abile equilibrio tra narrazione e informazione, consegna al pubblico dilettante uno strumento operativo, un succulento spaccato sulle origini cognitive di Homo sapiens, e un valido argomento per non scrollarsi di dosso la Preistoria con un’ingenerosa alzata di spalle. Anche i nuovi competenti, quelli che scrivono di tutto seguendo in superficie i flussi carsici della storia delle idee, ne trarranno, leggendolo, grande profitto. Ma il problema è un altro: in che modo, e perché, lo studio della Preistoria dovrebbe essere valorizzato a tal punto da diventare utile? Quali ragioni abbiamo per iniziare oggi una risoluta riconquista culturale del Paleolitico superiore?
Torniamo al titolo del libro: Il tempo sacro delle caverne. Catalizzatore inconsapevole di un’urgenza contemporanea, Rigal intercetta due parole chiave che stanno giocando un ruolo decisivo nel pensare e metabolizzare l’Antropocene. La crisi del tempo e il ritorno del sacro, iniziati certamente qualche secolo fa ma investiti da tempeste esponenziali in quest’ultimo decennio, sono l’epicentro del nostro più grande disorientamento. Tempo lineare (progresso, teleologia) e tempo ciclico (mito, eterno ritorno) sono favole della nonna che non convincono più il pensatore scaltrito, eppure resistono, maggioritarie, con strascichi che sanno di ottimistica diffidenza, di negazione dell’innegabile, di accanimento suicidiario.
Il sacro, invece, vivissimo, acceso come non mai, preme con forza un po’ ovunque, anche se per il momento sotto l’insopportabile cricca dell’irrazionalismo superstizioso e del qualunquismo mistico. È chiaro ad alcuni, invece, che proprio nella banchisa frantumata del tempo, in questo drammatico non-oltre che ci rende inintelligibile e inimmaginabile il futuro, il nostro sapere di non sapere apre la faglia del sacro e, anziché dare risposte abboccate, moltiplica lo spettro delle domande.
La “nuova” Preistoria, l’appetito che cominciamo a sentire per il nostro passato più remoto, i viaggi fantastici attraverso la fiction e le arti verso le lande gelate del Pleistocene, la saggistica divulgativa di cui il libro di Rigal è un esempio brillante, non sono solo l’indizio di un itinerario a ritroso nel tempo per trovare utensili ermeneutici più affilati e più penetranti, ma sono anche un vertiginoso cortocircuito tra necessità intellettuale di comprendere le origini del nostro immaginario (come è nato, come funziona, a cosa serviva) e urgenza esistenziale di vedere in queste origini un’epifania del sacro nella sua forma primaria e forse più autentica.
Il luogo di incontro di queste emersioni e pulsioni, l’apparecchio di cattura dell’immaginario, è allora la grotta ornata: Lascaux, prima di tutte le altre e per sempre in quanto metafora-metonimia del nostro apparire per la prima volta a noi stessi, ma anche Chauvet, una specie di dreamscape in cui andare a incubare sogni ad occhi aperti, o Cosquer, la grotta inghiottita dal mare che resterà per sempre invisibile e solo immaginabile, Altamira, con i suoi bisonti preistorici che, in quel presente remoto / passato anteriore, raccontavano già il Grande Prima agli spettatori di 16.000 anni fa.
Il tempo sacro delle caverne non è certo la bignamizzazione della storia della preistoria ma è senz’altro una generosa e meritoria epitome, come sempre ce n’è bisogno in quei cambi d’epoca in cui si confonde la fretta con l’urgenza e l’informazione con la cultura. Gwen Rigal si concede invece il dono del tempo e dell’approfondimento, sa fare sintesi ma senza rinunciare all’acribia documentaria, aiuta il lettore a immaginare ma senza scivolare in una fiction che qui aumenterebbe le zone brumose invece di dissiparle.
Come dicevo all’inizio, la doppia articolazione passato / presente e ignoranza del passato / ignoranza del presente trova in questo libro dei raggi rischiaranti e degli antidoti riparatori. Siamo cioè in presenza di un manuale di preistoria che andrebbe inserito come opera trasversale a vari livelli della programmazione didattica e anche, più inconsapevolmente, siamo in presenza di un atlante da disleggere, da fraintendere creativamente, per riconoscere da vicino e da lontano le mutazioni dell’Antropocene. Il capitolo su simbolizzazione e sacro e le conclusioni, ad esempio, sono ricche di paradigmi ermeneutici al limite della visione, proprio quello di cui abbiamo bisogno oggi per far parlare i reperti muti che l’immediato futuro ci sta mostrando in squarci temporali anomali, in apparizioni fugaci.
Ecologia sacra, sciamanesimo e animismo, prospettivismo dello spazio-tempo possono essere grandi temi declinati malissimo, dalla ciarlataneria poeticizzante alla saggistica simulata. Ma a volte c’è bisogno di rallentare e fare il punto, di rimettersi a studiare con umiltà e di uscire dalla cronaca scrittoria per lasciare alle idee lo spazio e il tempo di formarsi. Il libro di Rigal è in questo senso un’occasione, io direi quasi l’ultima (parlando dal ground zero del collasso cognitivo che ci ha investito), offerta al lettore medio per non lasciarsi riassorbire dalle brume di una Preistoria vaga, dunque inutile. Piano, allora, con la foga del riuso, con le interpolazioni da maker creativi e con l’etnofurto compulsivo. Esiste un tempo sacro, dentro e fuori dalle caverne, che è come un animale selvaggio nelle steppe del Pleistocene. Invece di mangiarlo perché è buono, proviamo a pensarlo perché c’è.