Reality Inequilibrio

4 Luglio 2012

Nessun commento. Nessuna emozione. Solo la realtà. I fatti. Nudi. Accumulati in una vita: le visite non annunciate e quelle previste, i regali ricevuti e quelli donati, le telefonate, le colazioni, i pranzi, le cene, le offerte elargite durante la messa, i film visti, i libri letti... Annotati per 57 anni, fino all’11 novembre del 2000, quando Janina Turek, una donna di Cracovia, muore d’infarto per la strada.

 

Ha raccontato la storia dei suoi meticolosi diari il giornalista Marius Szczygiel in un libro pubblicato da Gransasso Nottetempo intitolato Reality. Gli hanno dedicato uno spettacolo di rara temperatura emotiva, proprio perché giocato sul baratro di una fredda oggettività che nasconde il precipizio del vuoto dei giorni, degli anni, della vita, Daria Deflorian, intensa indimenticabile protagonista del caso teatrale della stagione, L’origine del mondo di Lucia Calamaro, e Antonio Tagliarini, performer dall’ironia affilata. Lo spettacolo è cresciuto a tappe: dopo una prima presentazione al festival romano Short Theatre nel settembre scorso, ha viaggiato tra un centro anziani dalle parti di Porretta Terme e varie residenze a Castiglioncello, presso Armunia. E proprio qui ha debuttato, nel festival Inequilibrio, tutto dedicato quest’anno ai molti modi di declinare e leggere (e inventare) la realtà, con bambini, diversamente abili, storie del territorio e viaggi nel fantastico.

 

 

All’inizio, lo spettacolo parte dalla fine. Dalla morte, dalla difficoltà di metterla in scena in modo credibile. I due performer, in una scena spoglia, con fari a vista come in un set cinematografico, provano a cadere, come colti da infarto. Ma non sono convinti dei rispettivi modi di morire: “La scena è troppo vuota. Ci vorrebbe una striscia d’asfalto. Il latte versato. Le arance rotolate fuori dalla borsa della spesa…”. Quanto è rappresentabile la realtà? Quanto si può riprodurre e fermare? Racchiudere tutta la vita in 748 quaderni vergati in quei 57 anni è un tentativo forse folle, sicuramente disperato di rispondere a quella domanda, inutilmente.

 

Ma sono i due attori-performer, sempre in bilico tra la rappresentazione e la distanza che introduce la loro personalità, continuamente trattenuta da un formicolante subbuglio interiore, a formulare ipotesi, a provare a dare sostanza di esplorazione di vita ai numeri dei quaderni. Sono magnifici: lei, Daria Deflorian, avanza in un silenzio pesante che potrebbe preludere a una grande tirata tragica di un’eroina ferita di Racine, e snocciola, con una voce placida, un po’ cantante, lievemente stupita e incrinata, numeri, atti quotidiani, 38221 telefonate ricevute, 6602 fatte, la decisione di scrivere il diario una mattina del 1943, forse sullo zerbino di casa, il vuoto di una domenica di cinquant’anni dopo a guardare dalla finestra quelli che vanno a trovare qualcuno con un pacchetto con i dolci, in una giornata nella quale il tempo sembra non passare mai… Lui, con l’aria da folletto impertinente, dopo aver ricordato altri numeri, altre ossessioni, ci mostra la donna invecchiata, piegata, rimpicciolita, con le vene gonfie, ancora in cerca di riempire un tempo che scivola verso la morte, incerta se sollevarsi ancora una volta dalla poltrona.

 

Scorrono, si incrociano gli anni. Il ritorno del marito – da cui si sarebbe poi separata – da Auschwitz nel 1945. L’attesa in un’aiuola del passaggio del corteo con Fidel, distratta da un’inezia. Un pranzo consumato un 13 dicembre di un qualsiasi 1981, il giorno dello stato d’assedio decretato dal generale Jaruzelski con l’arresto dei militanti di Solidarnosc (ma questo ce lo ricordano gli attori). La storia sembra non scalfire quell’appartamento, quella vita regolare, un po’ rassegnata, trasformata in numeri per non piangere, per non morire, o forse solo perché la vita è quella. I due interpreti immaginano un incontro inconsapevole di Janina con Kantor in un autobus, nel 1976. Come il giornalista che l’ha dissepolta dall’oblio, tengono per la fine l’unico sprazzo personale della donna: cartoline che si scriveva, finalmente in prima persona, con quella verità ammessa a se stessa, sempre per iscritto, come a nascondersi dietro una sottile maschera: ho sofferto molto nella mia vita. E ora il telecomando del televisore è rotto. Struggente lavoro, delicatissimo, intelligente e commovente senza sentimentalismi, come una dimostrazione scientifica, un esperimento che alla fine scortica, con misurata distanza. E forse rivela che la realtà è uno spazio insieme troppo pieno e troppo vuoto.

 

Michele Abbondanza, Antonella Bertoni, Il ballo del qua. Fotografia di Stefano Manica

 

Questo spettacolo unico, da non perdere nella rassegna Da vicino nessuno è normale al Paolo Pini di Milano il 26 luglio, è inserito in un festival attento a teatri che, ricorrendo a volte a attori non professionisti, esplorano altre categorie e possibilità dell’umano. Nei primi giorni Inequilibrio ha presentato un lavoro di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni sospeso nella nebbia e nella fiaba, danzato da un gruppo di bambini della “scuola” che hanno fondato a Rovereto, Il ballo del qua, un atto sulla presenza, percorso da una voglia urgente di scoprire un lato meraviglioso e abbandonato, dimenticato, del nostro essere, un’infanzia simbolica trasformata in movimento astratto, implacabile, naturalmente giocoso. E ancora bambine, travestite da fatine, rivela nel parco di castello Pasquini il coreografo Virgilio Sieni, affidando il compito di aprire sipari di fronde alle cesoie di giardinieri maghi, dalle grandi mani che hanno lavorato una vita, capaci di spostare tronchi di alberi o di abbracciarli e sostener visi prima di mostrare quegli spiriti bambini che danzano, con una bacchetta magica, un tutù, un pupazzo da rianimare, una canzone, nel bosco della nostra vita disincantata. I giardinieri e le fatine è un atto dionisiaco (alla fine appare una grande testa di capro sul corpicino di una bimba), una dichiarazione di fiducia nei corpi segnati dagli anni e dalla fatica e in quelli puri, infantili; un inno alla metamorfosi e alla capacità di vedere sotto, dentro, oltre.

 

Con le ombre e le musiche gioca Claudio Morganti, in un Ombre Wozzeck in cui la terribile storia e cronaca narrata da Büchner diventa immagine, gioco del teatro nel teatro, trash magico, mistero, esplosione con Mahler, Berg, Schönberg, Webern, in cerca di un personaggio (di una concretezza? di una verità?) che sta sempre altrove, vicino, affianco all’interprete, nel delirio, nel margine, in ombra, appunto.

 

 

Claudio Morganti, Ombre Wozzeck. Fotografie di Patrizio Esposito

 

Ci sono, nel festival, parole e corpi che escono dal mare, in una performance da Orlando della Wolf, parte di un più ampio progetto del gruppo Fosca, e corpi spezzettati o esplosi come in un quadro di Bacon o in un convenzionale noir d’atmosfera (Zaches Teatro). Si incontra il dolore per la morte di un bambino che chiede in prestito a Dostoevskij e all’alcol parole e fumi per non impazzire, per maledire l’assurdo della sofferenza inflitta agli innocenti, nel sanguinante La sofferenza inutiledi Leonardo Capuano, che torna come un ciclone sul palcoscenico come per curarsi, dopo un lutto indicibile. La realtà, qui a Castiglioncello, nel festival diretto da Andrea Nanni, è tutto questo, un polittico, un labirinto, un ricercare e uno smarrirsi, e altro ancora nei prossimi giorni. È un’ipotesi da esplorare, con la poesia, con ghigno, con dubbio, con il dolore o lo stupore che si fanno pensiero. Reality verso l’interiorità, via dal folle show.

 

 

 

 

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