Rosella Postorino: il futuro oltre la guerra
Molti sono i libri, non solo di narrativa, che traggono il titolo da una citazione poetica. A questa nutrita schiera si unisce Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli, 2023, p. 350), l’ultimo romanzo di Rosella Postorino, già vincitrice del Campiello cinque anni or sono con Le assaggiatrici. La fonte è un componimento del poeta bosniaco Izet Sarajlić (1930-2002), Cerco la strada per il mio nome, che inizia così: «Passeggio per la città della nostra gioventù /e cerco la strada per il mio nome. / Le strade grandi, rumorose –/ le lascio ai grandi della storia. /Cosa facevo io mentre durava la storia? /Mi limitavo ad amare te» (Chi ha fatto il turno di notte, a cura di Silvio Ferrari, Einaudi 2012). La «storia», in questo caso, è la guerra che ha insanguinato Bosnia e Erzegovina fra il 1992 e il 1995. Il romanzo narra le vicende di un gruppo di adolescenti che durante il conflitto vengono affidati a istituzioni e famiglie italiane: un intervento umanitario, che però produce conseguenze complicate e non univoche.
I personaggi principali sono quattro, di età compresa, all’inizio della guerra, fra i dieci anni e i quattordici: Omar, il fratello maggiore Senadin, una bambina di nome Nada (suo fratello Ivo, più grande di sei anni, verrà arruolato), e Danilo (che ha anche una sorellina, Jagoda). All’inizio della vicenda sono ospiti di un orfanotrofio a Sarajevo, che raccoglie, oltre a chi ha effettivamente perso i genitori, anche minori ai quali famiglie e parenti non sono più in grado di badare. Disagi e pericoli, nella città martoriata, non mancano; il futuro è più incerto che mai; l’Italia offre un rifugio sicuro. Non tutti però accolgono la prospettiva del trasferimento in un paese straniero con gioia, sollievo o speranza; c’è anche chi teme che il ricongiungimento con i familiari finisca così per allontanarsi. Omar, in particolare, solitario e introverso, e legato alla madre da un affetto quasi ossessivo, subisce lo spostamento come un arbitrio, al contrario di Senadin, convinto che la madre non abbia affatto l’intenzione di riprendere i figli con sé.
Il romanzo è diviso in 55 capitoli, distribuiti su quattro parti, datate rispettivamente 1992-1993, 1995-1996, 1999-2000, 2010-2011. In teoria per i ragazzi dell’orfanotrofio bosniaco il soggiorno in Italia avrebbe dovuto costituire una soluzione temporanea, una parentesi, ma così non è; e quando Omar e Senadin vengono affidati a una coppia italiana, le loro reazioni sono opposte. Senadin, docile e desideroso di integrarsi, inizia presto a chiamare Mari e Matte «mamma» e «papà»; Omar si ostina a considerarli come degli estranei, e non perde occasione per dimostrarglielo. È a lui, in realtà, che il titolo Mi limitavo ad amare te sembra attagliarsi con maggior precisione (ancor più che a Danilo, che ormai oltre la soglia dell’adolescenza cita i versi di Sarajlić riferendosi a Nada): quella di Omar è la storia di un attaccamento viscerale e disperato, ostile a adattamenti, insofferente di compromessi. Ma gli orizzonti del romanzo sono più generali. Come recita il finale della poesia, «la cosa più importante è questa /che nella strada col mio nome /mai a nessuno tocchi una disgrazia»: un auspicio che gli eventi sembrano smentire sostanzialmente per tutti, con spietata puntualità.
La Postorino non si limita a ritrarre i quattro personaggi principali, ciascuno dotato di una personalità ben definita, e cesellata con cura; approfondimenti psicologici riguardano anche alcuni genitori, specialmente la madre di Omar e Senadin, quella di Nada e Ivo, Daša, o la madre di Danilo e Jagoda, Azra: figure ciascuna a proprio modo complesse e tormentate. Nell’insieme, il romanzo mostra come gli affetti istintivi e primordiali, sottoposti alla pressione degli avvenimenti e delle circostanze, possano essere distorti, conculcati, fiaccati, ovvero acuiti, esacerbati; e anche come le migliori intenzioni possano produrre conseguenze negative.
Molti e non piccoli sono i meriti dell’autrice, che con ogni evidenza – alla luce dei ringraziamenti conclusivi – ha basato il suo lavoro sulla raccolta di testimonianze dirette. Mi limitavo ad amare te è un romanzo che tratta un argomento tanto importante quanto poco appariscente. Se ogni guerra provoca disastri immediati e facilmente intuibili (uccisioni, distruzioni, violenze d’ogni genere), qui la narrazione è volta invece a indagare le sofferenze di coloro ai quali, tutto sommato, le cose non sono andate così male: coloro ai quali sono state risparmiate le ferite più atroci, e che tuttavia la guerra ha segnato profondamente. I travagli dei sopravvissuti e dei profughi, insomma, che hanno pagato cara la loro sopravvivenza in termini di sradicamenti, straniamenti, distacchi, lacerazioni interiori. Il risultato è senza dubbio notevole: dimostra sensibilità, finezza psicologica, capacità di immedesimazione. E senza dubbio opportuna è l’occasione offerta ai lettori italiani di tornare con la mente a una pagina drammatica della recente storia d’Europa – la dissoluzione della Jugoslavia e i conflitti che hanno opposto la Serbia prima alla Croazia, poi alla Bosnia e al Kosovo – che ha lasciato in eredità una quantità di tensioni e di squilibri sempre prossimi a degenerare in nuovi conflitti.
Non ci spingeremo però ad affermare che Mi limitavo ad amare te sia un capolavoro. Non sempre, mi pare, l’enfasi patetica è tenuta sotto controllo; in particolare, negli inserti in corsivo che scandiscono la narrazione, interludi di carattere lirico-drammatico dei quali verso la conclusione del libro viene resa nota l’origine, ma che non di meno, strada facendo, l’appesantiscono, riducendo l’efficacia del racconto. Sarà perché è primavera, tempo di potature: ma mi sembra sempre attuale l’abusata formula dell’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe, less is more. Anche in letteratura, la lezione dei maestri è che la qualità di un’opera non dipende solo da ciò che viene detto, ma anche da ciò che viene taciuto; il lettore, se ben avviato, capirà benissimo, interpretando i silenzi. Tant’è che anche qui, quanto a carica drammatica, molto più delle digressioni in corsivo vale la semplice constatazione di Omar, ormai grande, che ritrovando infine l’adorata madre, si rende conto di non capire più bene la propria lingua materna.
Fatta salva questa riserva, Mi limitavo ad amare te è un romanzo pregevole, probabilmente tra i più convincenti della stagione, e Rosella Postorino conferma di essere una narratrice di vaglia, capace soprattutto di costruire personaggi e orchestrare dialoghi. La figura che rimane più impressa nella memoria, forse, è Nada (nome che significa «niente» in spagnolo, «speranza» in bosniaco), che è priva dell’anulare di una mano: quasi un’allegoria dell’impossibilità (o del rifiuto) di accedere a quella forma istituzionale di socializzazione che è il matrimonio. Nada ha un carattere fermo, resiliente, non privo di asperità, e soprattutto autonomo. «Non bisogna mai implorare nessuno, me l’ha insegnato Ivo», dice a Omar, quando ancora si trovano a Sarajevo. Della difficoltà della sua, della loro condizione non si nasconde mai nulla («Rappresentavano un peso, loro, per chiunque. Per chi li aveva concepiti e per chi li aveva accolti quando erano diventati dei profughi»); rifiuta le prospettive di affido, preferisce rimanere insieme alle educatrici e alle suore, con cui pure non lega più di tanto; poi diventa grande, diventa madre. Il passato pesa, gli ostacoli sono numerosi, ma è attorno a lei che le altre figure maschili sembrano infine ancorarsi, come a un solido punto di riferimento: Omar, che la desidera da sempre, e che lei nel finale sostanzialmente salva, e Danilo, con il quale ha avuto un legame intenso, intermittente ma non fugace. E quanto alla maternità, il rapporto di Nada con il piccolo Nino vale come un’autentica promessa di futuro.