Rovistando nella cassetta degli attrezzi

10 Agosto 2012

Cosa si portano a casa, dunque, i giovani attori e performer, drammaturghi e registi, dai laboratori di queste Biennali Teatro? Quali strumenti utili possono aggiungere alla propria “cassetta degli attrezzi”? Quali metodi giocarsi nei loro prossimi spettacoli?

E se un’attenzione doverosa va alla concentrazione sulle singole individualità degli allievi – visibili, come racconta Elena Conti, nelle diverse modalità di riscaldamento e training, un panorama curioso e variopinto che inaugura ogni mattina i laboratori veneziani e che può raccontare delle storie e culture, idee di teatro e di vita completamente diverse che si incontrano in questi giorni in laguna – è interessante anche andare a rovistare fra gli strumenti e i metodi che i cinque maestri della Biennale 2012 stanno offrendo a questi giovani aspiranti artisti.

Nelle edizioni passate, si può dire, i laboratori, pur nelle specificità dei singoli maestri, conversero – oltre che per il dato generazionale, capace di riunire a Venezia le nuove spinte della regia europea – in una dimensione della ricerca dal carattere autoriale, in cui gli allievi attori e performer erano in gran parte stimolati a individuare, autonomamente, un proprio metodo per raggiungere un risultato determinato. La grande regia contemporanea dei “fiftysomething”, balzati in un lampo da enfant terrible della ricerca a nuovi canoni, ha portato qui spettacoli che molto devono all’estetica postmoderna e sembra dimostrare un consistente legame con la tradizione novecentesca anche per l’approccio alla pedagogia, che si inserisce nella linea dell’attore creativo e, di rimando, in quella dei “non-padri” e “non-maestri”. «Lupi solitari», per dirla con Ferdinando Taviani. Tale insistenza sull’autonomia e la creatività, forse, è alla base delle spinte che ha condotto alcuni di quegli allievi a riunirsi in formazioni indipendenti che, proprio in questi giorni, presentano alla Biennale l’esito di una settimana di residenza.

 

Laboratorio di Gabriela Carrizo presso la Fondazione Cini dell'Isola di San Giorgio 

 

Tutt’altro vento sembra spirare su questo nuovo Laboratorio Internazionale del Teatro, che si svolge in tempi di non più velata crisi economica, sociale, culturale. E forse non è un caso che i workshop 2012, più che stimolare linee autoriali e percorsi personali, sembrino mirare a fornire una serie di tool e competenze, metodi concreti, strumenti tecnici e kit di salvataggio. Il punto di vista, si potrebbe dire, è quello della tecnica, della materialità del processo, della concretezza del palcoscenico. Si pensi al minuzioso lavoro che Gabriela Carrizo di Peeping Tom sta svolgendo sull’approfondimento e sullo sviluppo del movimento. La concentrazione, “semplicemente”, è su come svolgere, in diversi modi e secondo funzioni differenti, un’azione. Niente situazioni, niente rappresentazione, né immedesimazione, coreografia o straniamento: si sceglie un’azione piccolissima; la si analizza, la si disseziona. Ci si concentra su un singolo aspetto (come un gesto, il movimento di un arto, anche solo un cenno) e si prova a modificarlo: rallenti e accelerazioni, dilatazioni e repentini mutamenti di direzione per capire come una semplice mano che si alza, un piede che avanza può trasformarsi di significato e di segno.

Penso al laboratorio di Claudio Tolcachir, sempre all’Isola di San Giorgio. Tutt’altra storia e tutt’altro teatro, è vero: i mondi immaginifici e inquietanti dell’ensemble fiammingo sono lontani anni luce dal realismo barcollante dell’attore-autore-regista argentino. Qui giorno per giorno si esplorano gli accorgimenti e i passaggi per la costruzione del personaggio; uno stimolo concreto, che forse può sembrare un po’ tradizionale… Ma in tutti questi anni di autorialità ombelicale, autoreferenzialismo d’ordinanza e voracità di nuovo sempre più nuovo; dopo tutte queste stagioni di ricerca alle prese con la costruzioni di mondi in cui più nessuno può (e forse vuole, ormai) entrare – complice una crisi le cui parole d’ordine si muovono fra tagli e austerity – il ritorno all’ossatura della scena, a una sorta di abc della rappresentazione non sarà originale e audace, ma magari potrà portarci a riflettere su cos’è e a cosa serve il teatro. O quantomeno a donare qualche trucco o stratagemma, metodo o meccanismo per farcela al prossimo provino, per brillare un po’ di più sul palcoscenico della produzione che verrà. O per riscoprire qualità e essenza anche della cosiddetta ricerca, termine che ormai è diventato un canone più che una fucina di rinnovamento o un’occasione di auto-riflessione (sul teatro, sul mondo, sulla società); parola che è quasi una coperta di Linus sotto la quale a volte si nascondono e si giustificano opere, operine e operette che poco sembrano avere da ricercare e ancora meno da trovare oltre i confini dei piccoli territori autarchici che si costruiscono intorno.

 

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