Schopenhauer a digiuno

31 Maggio 2013

Esattamente duecento anni fa Arthur Schopenhauer scrisse e pubblicò Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Un piccolo testo, ma anche le basi essenziali del pensiero che avrebbe definitivamente preso forma ne Il mondo come volontà di rappresentazione e che avrebbe modificato per sempre il modo con cui guardare alla filosofia.

 

Una filosofia in qualche modo rivoluzionaria quella di Schopenhauer, perché segnava l'irruzione di un nuovo "attore" nell'eterno confronto tra la realtà sensibile e la conoscenza: vale a dire la volontà. Volontà intesa come energia, come forza cieca che muove tutta la natura e noi stessi, impulso presente in ogni cosa e che attraversa l'esistenza, altro e ben diverso dal logos della tradizione greca e occidentale, con la realtà materiale o quella ideale pensata dall'uomo che si specchiano comunque in razionali possibilità di conoscenza.

 

Da Schopenhauer in poi, le apollinee costruzioni che da Platone e Aristotele attraversano tutto il pensiero occidentale e la sua ambizione di conoscenza, scontano l'irruzione della dimensione biologica e soggettiva, la dimensione irrazionale fatta di carne e sangue che muove la natura, la vita e la conoscenza.

 

L'irruzione della volontà di Schopenhauer nel pensiero filosofico è anche l'irruzione pochi anni prima del concetto di specie e della lotta evolutiva tra viventi (Lamarck), è la matura e generale consapevolezza delle conseguenze della rivoluzione newtoniana con le leggi del moto in grado di descrivere il comportamento degli oggetti come del cosmo, è soprattutto una rottura della e verso la modernità. La "filosofia dell'essere" che aveva contrassegnato la storia del pensiero occidentale subisce finalmente l'accento del mondo della materia e della vita, quello cioè che un tempo apparteneva al divenire, cioè la dimensione fragile e caduca dell'esistenza, da Platone in poi sempre trascurata, ospite imbarazzante e non gradita nelle costruzioni con cui l'Occidente ha cercato di raccontare la natura tutta come la conoscenza.

 

Tracce di quel divenire e del problema del vivente era nei filosofi Presocratici, era per gli antichi Greci nel concetto di metis...
Per Claudio Bartocci – in Paradossi per cambiare il mondo (in Il numero che non si calcola, Doppiozero 2012) – "La metis è una forma di intelligenza, una strategia del pensiero che unisce furbizia, destrezza, senso d'opportunità e trova espressione nella destrezza dell'auriga, nella sagacia del medico, nella malizia della volpe... in quanto tale essa è l'arte della conoscenza... atta a misurarsi con l'imprevedibile divenire del mondo e si oppone dunque al logos".
Sarebbe l'intelligenza plasmata con e dall'esistenza, l'intelligenza dentro il flusso delle cose, fatta di carne e sangue. Cos'altro se non espressione e strumento della volontà del vivere...?
Bartocci racconta che "senza mai aver avuto un ruolo da protagonista nella storia filosofica, la metis apparve definitivamente messa fuori gioco dall'affermarsi dei grandi sistemi. Eppure continuò a vivere come una tensione sotterranea traendo forza dalla molteplicità dei fenomeni dell'universo e turbando i sonni dei filosofi sotto forma di paradossi, aporie, contraddizioni, enigmi".
Chi non ricorda nella gara di velocità tra Achille e la tartaruga l'apparente impossibilità del primo di raggiungerla... o le verità nascoste nella frase del cretese Epimenide "Tutti i cretesi sono bugiardi" o ancora quello che forse è il primo paradosso che la letteratura ricordi, quando Omero fa pronunciare a Polifemo "Nessuno mi uccide con l'astuzia e non con la forza!". Oppure, confrontandosi con tempi più recenti, il paradosso del matematico Poincaré (1854-1912): "Supponiamo che la notte mentre tutti dormono l'universo abbia raddoppiato le dimensioni, esisterebbe poi un modo per accorgersi delle differenze..? "

Già paradossi come segnali per comprendere i limiti di una conoscenza solo razionale... perché un paradosso mette sempre in evidenza contraddizioni, rivela un lato oscuro di verità date per sicure, pezzi di realtà (il divenire) di cui non abbiamo l'accesso, solleva domande impreviste a cui dare risposte.
Imprevisti a cui dare risposta... da questo punto di vista quelle domande non hanno solo turbato i sonni dei filosofi ma sono stati anche la necessità per nuovi spunti di ricerca, sfide di cui venire a capo.
Lo stesso Schopenhauer affermava "La verità nasce come paradosso e muore come ovvietà", ovvero nasce come sfida imprevista e muore quando l'orizzonte di un’accettazione generale la rende banale, invisibile... o, peggio, falsa...
Da questo punto di vista ogni paradosso è sempre benefico perché può allontanare dai luoghi comuni e dalle troppe scontate sicurezze, comprese quelle della modernità: l'infallibilità delle scienze, il potere della medicina, le certezze della dietetica... solo per rimanere a discipline legate al nostro divenire.
Banalità le cui apparenti certezze i paradossi sono in grado di forzare, sicurezze mutevoli e cangianti come sono mutevoli per definizione il "divenire" e... i nostri giorni.

 



Soleva mangiare all’Englischer Hof Schopenhauer, a Francoforte, la città in cui visse per gran parte dell’esistenza. La memoria che si fa leggenda – l’aneddotica – vuole che nel locale comunemente frequentato da ufficiali Inglesi, ogni sera cenasse mettendo un fiorino d’oro sul tavolino. Interrogato dal cameriere su questa strana consuetudine, rispose che lo avrebbe donato ai poveri il giorno che avesse udito degli inglesi non parlare di cavalli, di donne o di cani.
Cavalli, donne, cani, rappresentazione minima essenziale della vita che diverte e del mondo in forma di hobby…
Quanto di più lontano potesse immaginare da quando aveva affermato che "il mondo è rappresentazione": vale a dire che qualunque conoscenza, qualunque idea ci facciamo sul mondo rimane una rappresentazione dovuta ai nostri sensi e alle "qualità a priori" di tempo, spazio e causalità con cui leggiamo ed interpretiamo il reale. Oltre l’apparenza dei fenomeni la natura sarebbe fatta di volontà, volontà di esistere, forza caotica fine a se stessa, che tutto abbraccia e che è dentro ogni individuo, animale o cosa; ogni essere presente nel creato e ogni sua azione è attraversata da questa volontà, forza motrice ed egoista, vera essenza di tutta la natura… E allora si desidera, si lotta, si uccide, si ama, si studia non tanto per se stessi o perché si comprende qualcosa del mondo e del reale ma perché si ubbidisce ad una cieca volontà di vita.
Mangiava solo all’Englischer Hof, una moneta d’oro sul tavolo la sfida silenziosa a quello che ufficiali inglesi mai avrebbero smentito: rappresentazione minima fatta di cavalli, donne, cani….

Colpito da un accidente improvviso, Schopenhauer morì a colazione: mangiava distrattamente, cosciente di ubbidire solo alla volontà del corpo, consapevole che il digiuno come il rifiuto del piacere alimentare erano azioni che portavano all’ascesi, ribellione a una volontà della natura e della vita sovrana dell’esistenza di ognuno.

 

Ma forse la volontà che aveva genialmente intuito nascosta nelle apparenze del creato è solo una delle forme con cui si può descrivere il reale. Come la storia del pensiero insegna, quella volontà è stata solo una "comparsa" , uno degli elementi nella comprensione del mondo e della vita che può accompagnare taluni di noi ad affrontare i giorni.

 

Certamente di quel digiuno che Schopenhauer soleva praticare e predicare ci resta una beffa e un paradosso: l’astinenza con cui Schopenhauer si ribellava alla volontà della natura, con cui negava il destino di esserne "schiavo" – oggi la scienza dietetica ci insegna essere abitudine benefica, comportamento virtuoso, restrizione calorica in grado di allungare la vita... di dare forza a quella volontà che attraversa i nostri giorni.

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