Spie in Tibet

11 Novembre 2023

Un tempo il “giallo” era appannaggio della letteratura anglo-sassone. Anche se il primo racconto di quel genere, I delitti della rue Morgue di Edgar Allan Poe, era ambientato a Parigi, era difficile immaginarne altri al di fuori di Inghilterra o Stati Uniti. Poi quella letteratura ha travolto ogni frontiera e sono apparsi        il polar francese, i noir e thriller italiani, sudamericani, nordeuropei, tutti accomunati da un paradigma: morti, detective o ispettori, indagini, enigma risolto, nello sfondo di un ambiente nazionale.

Analogo sviluppo ha avuto la “spy story”. Nata in Gran Bretagna tra Stati in tensione tra loro, essa si cala nel contesto politico internazionale, spesso praticata da autori che talora ne furono anche protagonisti, da Ambler (autore di una preziosa storia nella prefazione di Caccia alla spia, Lerici 1965), a Greene, a Fleming, a Le Carré, al meno noto ma altrettanto efficace Slater (Cospiratore, BUR 2018 con prefazione di Fofi). Oppure frequentato occasionalmente da autori insospettabili come Conrad (Agente segreto trasferito sullo schermo da Hitchcock con Sabotaggio nel 1936) o Maugham (Ashenden o l'agente inglese, Adelphi, 2008). Di recente però la “spy story” si è aggiornata assumendo una dimensione transnazionale e dilatando lo spazio all’avventura. Gli argini dell’intrigo si sono rotti, il genere è divenuto vischioso con protagonisti di forte resa commerciale con storie che si sviluppano tra codici incomprensibili, luoghi oscuri e simboli segreti. 

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Il discorso sul genere letterario, sul suo significato e i suoi criteri è arduo, ancor più in salita quando si tenta di catalogare Il Codice Da Vinci di Dan Brown o American Tabloid di Ellroy come poliziesco o letteratura, Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry come fiaba o libro universale. Senza dimenticare la fantascienza dove autori come Asimov, Lem o Dick sono divenuti classici a prescindere da paradigmi astratti. In realtà non esiste una regola rigida, ma fluttuano alcuni elementi per l’avventura, come il rischio, il pericolo, le emozioni, le sfide sorrette da colpi di scena e ritmo veloce che aiutano a formare un’empirica bussola di orientamento.

Di fatto l’avventura, dal passato fulgido, si presenta in una cornice in cui si inseriscono altre suggestioni. Eloquente è la prima sequenza del film di Spielberg con Indiana Jones, l’archeologo più celebre, ambientata vedi caso nel 1936 in cui si delinea il filone storico/politico tra Germania nazista e Arca Perduta. Un’ambientazione esotica, una mappa del tesoro, una reliquia preziosa da trovare e un climax di tensione sempre crescente. E le puntate successive sono annodate da un filo che passa dallo scontro tra stati per arrivare alla guerra fredda. 

Assume così un ruolo rilevante la dimensione dell’intrigo internazionale, come intuì Hitchcock nell’assegnare questo titolo al suo film del 1959. L’avventura spazia senza limiti geografici, ed è innegabile la sua forte seduzione quando si immerge nel mondo indiano, come fu con passate letture giovanili che non si dimenticano. 

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Autori scaltri hanno trasferito colà Sherlock Holmes L’avventura della casa vuota in cui l’eroe da morto resuscita anche per affrontare un rivale nuovo dopo la morte di Moriarty (Norbum, Il mandala di Sherlock Holmes, Mondadori 2021). Altri si sono spostati nella esotica Thailandia (Burdet, Il picco dell’avvoltoio, Bollati Boringhieri 2013) o a Bali (Abate, “Mata Malam, Gialli balinesi, Castelvecchi 2014) dove una romana «spiaggiatasi alla fine dei favolosi anni ‘70» si improvvisa detective volteggiando tra un’epidemia di rabbia, lo sforzo di far uscire di prigione un amico «incastrato» e la decifrazione di alcuni omicidi dopo una rapina andata male. O ancora si indugia su casi intriganti affrontati da un detective indiano (Tarquin Hall, Detective Vish Puri in India, Mondadori 2010), o sulla corruzione nell’India tradizionale (Keepti Kapoor, L’età del male, Einaudi 2023). 

E non poteva mancare il Tibet con la sua affascinante cultura millenaria, approfondita ancora di recente (Bellini, Nel paese delle nevi, Einaudi 2015) tra intrighi e delitti (Bultrini, Il Demone e il Dalai lama, Baldini Castoldi 2008), le sue tradizioni (Allgover, La tigre e il monaco tibetano, e/o 1999), la lotta spietata contro l’invasore cinese (P. Fleming, Baionette a Lhasa, Settecolori 2023). Su questa linea si pone il più noto Pattison (Mantra del reato, Hobby and work 2001) nel presentare il mistero di un cadavere decapitato fra i ghiacci dell'Himalaya, con l’ispettore Shan che si attiva, indaga, aiutato da un monaco buddista dopo essere stato liberato dai lavori forzati per essersi occupato dei traffici oscuri del Partito Comunista.

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In questo filone si inserisce il francese Bernard Grandjean, autore di romanzi ambientati nell’India himalayana, densi di avventure e personaggi locali, paesi misteriosi. Ricorrono luoghi e ambienti come la Calcutta indiana, la città di Gangpong del minuscolo Sikkim, alcuni monasteri sperduti come quello di Tashi Choling. I due volumi usciti finora (Obarrao edizioni, Pavia, entrambi del 2023) calcano questa strada con sicurezza. 

In La scomparsa del manoscritto una società immobiliare vuole costruire strade “in alto verso villaggi che non chiedevano niente”, tra cui una che si imbatte in un monastero tibetano, Taschi Coaling. È pertanto indispensabile espropriare ed abbattere questa vecchia struttura ripresa dai tibetani in fuga nel 1960, luogo ordinato sacro dal Dalai Lama che lo ebbe in dono dal re del Sikkim. Nasce lo sgomento nel mondo religioso ove però si diffonde la voce che esista un rituale, in un manoscritto, “che abbatte le montagne” evocando la magia nera e così evitando il disastro. Non si sa però dove sia e si crede sia stato trafugato. Compare una giovane europea studiosa di tibetano, Betty, che si informa, si sbatte, incontra il monaco di quel monastero, si scontra con personaggi loschi della società immobiliare, fa amicizia con un mite professore, Das, che scrivendo su quel monastero aveva scovato l’esistenza del rituale. Del resto lo stesso Lama Rinpoche aveva raccontato che quando si verificò una situazione analoga nel passato di un monastero condannato da una strada, un vecchio eremita aveva invocato il rituale, cadde parte della montagna e la strada non si realizzò. Il manoscritto poi scomparve, forse rubato. Il romanzo si snoda nelle peripezie per ritrovarlo, tra insidie, persone equivoche ed anche violente, sette giapponesi, luoghi da cui si parte e si arriva tra Europa, Nepal, India, alberghi locali ributtanti con acqua sporca all’interno. E poi lunghi tragitti in pullman ma quelle ore, noiose e sobbalzanti consentono di ammirare il paesaggio che cambia di continuo, piantagioni di tè, folte foreste, nuvole che consentono di intravedere i denti dell’Himalaya. I fogli del manoscritto vengono trovati e raccolti per cui si compie il rituale. Nasce un terremoto di modeste proporzioni che non tocca la costruzione, ma mette in evidenza una spalla rocciosa finora ignorata ma che consente di costruire una strada attorno al monastero che rimane così integro.

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Al di là del tessuto narrativo emergono due segnalatori. Il primo è la dedizione ai luoghi:colline chiamate montagne ‘verdeggianti ma scoscese, contorte, misteriose, inquietanti’, … “modesta bellezza, una dozzina di baracche ammuffite e coperte di lamiera raggruppate attorno ad una costruzione in muratura, sala preghiere ed assemblee, cubo dipinto di ocra sormontato da un lucernario che si apriva su un piccolo piazzale. Le bandierine da preghiera svolazzanti davano un’aria gioiosa

Il secondo è la segnalazione di un tema cruciale soprattutto per quei paesi, e cioè il conflitto insuperato tra progresso e tradizione (“le tradizioni non resistono agli imperativi del budget” … “il monaco elogia anche il turismo quando spinge a cercare di vivere meglio” ...” quando l’annata è cattiva, le scodelle si svuotano della carne, le famiglie si disgregano, la tubercolosi avanza,” … “con la stagione turistica la città potrebbe raddoppiare le presenze”).

Nel secondo romanzo Il mistero dei cinque stupa è protagonista sempre Betty che riceve nuovamente l’aiuto dal professor Das. Gli stupa, come noto, sono monumenti spirituali buddisti la cui funzione è conservare le reliquie e anche rappresentare il corpo di Budda e la sua parola nell’impresa di percorrere la strada dell’illuminazione. Uno di questi stupa risulta raso al suolo sul colle dello Zongla, ed un altro rubato. Questi atti appaiono da subito strani ed incomprensibili per la difficoltà di accesso alla sommità del colle e anche perché gli stupa sembrano scomparsi nelle figure pittoriche che invece li rappresentavano. Parallelamente molti bambini profughi tibetani sono trasferiti in India in modo rocambolesco con le forze cinesi impegnate a fermare quei transiti e meglio comprendere quanto sta accadendo. In queste operazioni è anche arrestata Betty che, come nell’altra vicenda, si agita e si impegna contro di loro. Dopo indagini e movimenti rocamboleschi si capisce che i cinesi non c’entrano, ma sono stati gli stessi indiani-tibetani che, facendo transitare da quei colli i bambini in fuga, temono che i cinesi scoprano quel passaggio. Nel romanzo domina molto forte l’aspetto politico dell’oppressione cinese, dipinto con violenza e cinismo in uno sfondo di misteri anche religiosi.

Entrambi i romanzi con le loro avventure sono agili, godibili nel dinamismo spontaneo dei personaggi. Nel contempo però, sono soprattutto un’occasione per descrivere quei luoghi e le loro culture, veri protagonisti della scena. Né poteva essere diversamente. L’India ha da sempre rivelato una doppia natura, quella geografica come luogo reale esistente tra confini, e quella di un territorio dell’irrealtà e dell’immaginazione, favoloso, esuberante per costumi e per tensione spirituale. Le pagine di questi romanzi sono un amo lanciato al lettore perché non si fermi all’avventura, non si esaurisca negli intrighi, ma si spinga a cogliere il respiro e il tessuto nervoso di un mondo inafferrabile, ma che, se conosciuto o percorso, lascia una traccia indelebile e niente è più uguale a prima. 

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È questa la spinta che ha indotto ad intraprendere per quelle mete viaggi letterari, a commentare quanto osservato, a riflettere su civiltà e culture diverse, a stabilire connessioni e confronti con le nostre realtà, a considerare il significato del progresso in una civiltà immersa nei miti e nella spiritualità. Nel 1961 alcune personalità del mondo culturale si sono confrontate con veri e propri manifesti di pensiero. Da un lato Pasolini, inviato da “Il Giorno” (poi Odore dell’India, Longanesi 1992), è abbacinato da un paese integro, non scalfitto dalla modernità, sorretto dalle atmosfere spirituali da cui viene coinvolto passionalmente ed empaticamente. Dall’altro Moravia, inviato del “Corriere della sera” (Un’idea dell’India, Bompiani 2001) si serve di un occhio investigativo, ragiona senza farsi coinvolgere su quanto osserva, pacatamente esalta una terra “gigantesca, ossessionante, onnipresente”. Per non parlare di Manganelli (Esperimento con l’India, Adelphi 1992), viaggiatore riluttante che, con disincanto e irriverenza, tra le molte notazioni paragona l’India all’acqua che “taciturna corrompe, macera, impaluda e nutre… in una palude d’aria, tra aromi e fetori” (su di loro Benvenuti, Il viaggiatore come autore, Il Mulino 2008)).

Esistono d’altro lato i viaggi esplorativi, come quello del 1914 compiuto da una donna Alexandra David-Neel che si travestì da uomo per evitare di essere cacciata da quei territori gelosi della propria millenaria riservatezza e cultura (tra tutti il suo Viaggio di una parigina a Lhasa, Voland 1997). O quello di uno studioso non sedentario ma esploratore, padrone nel leggere e nel parlare correntemente le lingue e i dialetti di quelle montagne come Giuseppe Tucci. Questi si addentrò negli anni 20-30 del secolo scorso in luoghi sperduti, dal Sikkim al Nepal al Bhutan, lasciando memorabili resoconti (tra i molti Dei demoni. La leggendaria spedizione in Tibet del 1933, Beat, 2019). Aveva peraltro acconsentito, con sufficienza professorale, di essere accompagnato da un giovane brillante, appassionato di quelle terre e delle loro lingue, eclettico, fotografo ed alpinista, il padre di Dacia Maraini, Fosco. Questi ha lasciato un libro che tra foto e racconti merita di essere inserito tra quelli obbligatori. Si tratta di Segreto Tibet (Editore Leonardo1951), disperso per molti anni tra le bancarelle dell’usato ed ora ristampato (Corbaccio 1998). Per la fortuna di tutti. 

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