Spielberg, l'infanzia dell'arte

7 Gennaio 2023

Eccoci al cinema, per vedere The Fabelmans, di Steven Spielberg. Appena si fa buio e la proiezione comincia, sprofondiamo in un’esperienza di mise en abyme, un mondo di immagini che duplicano e sdoppiano l’opera, creando un sistema di riflessi reciproci. Lo schermo, infatti, sta raccontando la stessa cosa che accade a chi è in sala, e viceversa. La visione di The Fabelmans inizia, letteralmente, facendoci entrare in un cinema: quello dove, il 10 gennaio 1952, sta per essere proiettato Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille. 

Nello sciame di voci e immagini delle persone in fila all’ingresso, mentre ci si avvia al film, stiamo già assistendo anche a un romanzo famigliare, secondo una sovrapposizione simbolica (tra cinema e famiglia) che agirà per tutto il tempo; perché la scena è raccontata attraverso lo sguardo di un bambino, Sammy (Mateo Zoryan), in compagnia dei suoi genitori, Mitzi e Burt (Michelle Williams e Paul Dano), che gli fanno coraggio. Sta per vedere il primo film della sua vita, ma lui è molto spaventato (perché sarà buio, le facce saranno giganti, non sa cosa lo aspetta). E non ha torto, perché i suoi occhi, che a quell’età prendono tutto sul serio e alla lettera, vivranno in effetti quella che anche in altre circostanze, ormai da adulto, Spielberg ha ricordato come l’esperienza più spaventosa della sua vita, ovvero il famoso scontro spettacolare tra una macchina e due treni provenienti da direzioni opposte che avanzano però sul medesimo binario. 

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Quell’incidente, dunque, è la scena madre del film, ma anche del destino di Sammy, che sarà raccontato da lì ai dodici-tredici anni successivi, secondo un percorso che, sia in senso cinematografico, sia in senso drammaturgico e simbolico, funziona come sentimento e ricerca della luce: quella delle luci di natale che la sua famiglia non mette in casa perché i Fabelman sono ebrei, o quella di Hănukkāh, la rituale “Festa dei Lumi” in cui si accendono le candele e in cui Sammy, come ha chiesto, riceve un trenino elettrico. Di notte, sognando il film, il piccolo si sveglia di soprassalto e cerca di riprodurre con i nuovi giocattoli la scena dello scontro; ma proprio la madre (una pianista eccellente che, come era normale, ha abbandonato la professione per la famiglia), che ha capito l’inquietudine emotiva del figlio, lo avvia verso una soluzione creativa dello shock, suggerendo di usare la cinepresa del padre per girare la scena dell’incidente e poterla così guardare tutte le volte che vuole, senza rompere i giocattoli. “Sarà il nostro film segreto (secret movie)”, gli dice. 

Da qui cammina, sdoppiandosi e incrociandosi continuamente, la doppia linea narrativa di The Fabelmans, che racconta sia la vicenda di un ragazzino che vuole diventare regista; sia, nel medesimo tempo, la storia di un figlio, dentro una famiglia in cui piano piano emerge il film segreto dell’amore tra la madre e l’amico più caro del padre, Bennie (Seth Rogen). Fino a quando, nel momento in cui, dopo essersi trasferiti tutti in Arizona, il padre, ingegnere, fa trasferire la famiglia, senza Bennie, a Los Angeles, e arriverà la scelta irreversibile del divorzio; mentre Sammy, ormai adolescente (Gabriel LaBelle), prende sempre più consapevolezza e sguardo sul cinema come orizzonte della propria vita. 

Ecco il plot di The Fabelmans, dunque, che non è facile da fissare, anche perché le storie non sono mai aspetti estrinseci rispetto alla qualità e al valore delle opere. Anzi: ripercorrerle, aiuta a capire i procedimenti di messa in trama, composizione e montaggio. E così adesso potrà per esempio essere più chiaro perché The Fabelmans non sia, banalmente, il ritratto di un artista da giovane, né un’autobiografia, pur rielaborando molti motivi dell’infanzia e adolescenza del suo autore. Non è nemmeno, e questo ci aiuta a entrare più nel merito, il racconto favoloso del cinema come macchina meravigliosa: non è Hugo Cabret (2011), di Scorsese, insomma. Potrebbe indurci a pensarlo quella parola “Fabel”, che in tedesco significa favola, riecheggiata dal titolo; del resto il film recupera, in modo interessante, molte funzioni fiabesche: per esempio quella dell’oggetto magico (la cinepresa), e del donatore (prima il padre, che gli presta la sua cinepresa e gli compra una moviola, poi Bennie, che gliene compra una migliore, poi persino Monica, la fidanzata del liceo, che gli presta la macchina da presa del padre). 

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Ma, tornando al titolo, forse la chiave più significativa è la scelta di chiamare un film sul cinema non con il nome di un singolo eroe, ma con il cognome di una famiglia: una trovata che ci fa capire anche meglio come dentro questo racconto la famiglia non sia il posto da cui fuggire e contro cui affermarsi, ma agisca continuamente da nutrimento creativo e emotivo. La scena più eloquente, in questo senso, è quella in cui Sammy, scontento di come sta venendo il suo film western girato coi compagni boyscout («Fake!»: finto!, si dice sconsolato mentre lo monta), finalmente ha il colpo di genio di creare l’effetto degli spari delle pistole facendo entrare la luce da un buco fatto sulla pellicola: un buco, sì, come quello fatto dal tacco della scarpa della madre su un foglio dei suoi spartiti musicali. 

La cosa più personale, più intensamente personale che racconta il film allora, non sono i singoli dettagli ritrovabili anche nella biografia reale di Spielberg, ma il fatto che la famiglia e il cinema, così come agiscono in The Fabelmans, sono livelli di vita e di immaginazione che si implicano reciprocamente. Questa, mi pare, è l’esperienza di verità più importante attorno a cui agisce il film. Insieme, intorno ad esso, insieme al tema forte (ma non così originale) continuamente ripreso del cinema come arte di far vedere l’invisibile, ci sono poi almeno altri tre motivi.

Il primo è il racconto del cinema come civiltà, fatta e agita anche dagli spettatori. The Fabelmans ci dice continuamente che il cinema non è stato e non è solo una macchina dei sogni, ma una situazione rituale in cui, passando del tempo in tanti dentro un teatro, una sala, viviamo e attraversiamo delle situazioni spettacolarmente spaventose tutte e tutti assieme – quante volte è accaduto coi film di Spielberg: «Don’t miss all the thrills and excitement!» raccomanda lo spot originale del 1952 de Il più grande spettacolo del mondo. Ma per “spettacolo” si intende anche, proprio come al circo, il sentimento del cinema come tecnica, lavoro artigianale, avventura epica della produzione: e anche questo secondo motivo, a pensarci, è un filo rosso che attraversa tutto il cinema di Spielberg. 

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Il terzo aspetto poi, è quello più inafferrabile eppure così importante, vale a dire il racconto del cinema come apprendistato “sentimentale”, nel senso più alto della parola, vale a dire come mezzo e esperienza attraverso cui capire la distanza giusta e la qualità di sguardo migliore. È l’aspetto che viene detto, in un modo che forse può apparire didascalico eppure così emblematico, nella scena in cui Sammy incontra John Ford: in un film saper fare arte, gli spiega, è tutta una questione di come sai costruire l’orizzonte, facendo attenzione a non metterlo in mezzo. Anche in quella scena, del resto, si ha un’operazione vertiginosa di messa in abisso: il film ci fa credere che sia Ford, ma l’attore che lo interpreta è un altro regista, David Lynch. Il punto è che, come ha spiegato lo zio del protagonista (Judd Hirsch), ex ammaestratore di leoni e attore del cinema muto, non è arte quando metti la testa nella bocca di un leone; è arte se riesci a credere e far credere di non aver paura. 

Ecco quello che, paradossalmente, fa il cinema: come certe madri, ti mette al riparo dalle tempeste non chiudendoti in casa, ma portandotici più accanto che si può, e facendotele vivere (come durante la scena dei carrelli del supermercato che attraversano la strada trascinati dal vento, mentre Sammy li guarda impaurito attraverso i vetri della macchina), come emozioni spaventosamente “favolose” e già cinematografiche: proprio come alcune storie di famiglia, o come i film di Steven Spielberg. 

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