Una conversazione / Tomaso Montanari: arte e politica culturale

17 Settembre 2019

Daniela Brogi: Qualche mese fa sono usciti per Einaudi due tuoi libri: Velázquez e il ritratto barocco, e L’ora d’arte, un volume in cui sono raccolti cento testi preparati per la rubrica che curi sul “Venerdì”. Vorrei ragionare con te di arte, politica culturale e valori civili proprio risfogliando questo secondo lavoro. Che tanto per cominciare ha un titolo che si presta a varie letture, perché “l’ora d’arte” è l’ora di storia dell’arte che via via si tenta di eliminare dai programmi scolastici; ma è pure, come tu stesso hai spiegato, l’ora della settimana che scegli di dedicare a un dialogo con i lettori di un settimanale, parlando di arte, magari anche attraverso questioni politiche, e viceversa. In questo senso, l’ora d’arte diventa anche “l’ora d’aria”, lo spazio di libertà dentro un sistema politico sempre più ostile al confronto. La parola “aria”, dunque, e in quarta istanza, non precisa solo uno spazio temporale, ma, attraverso l’assonanza con “arte” compone uno scambio simbolico. L’arte, proprio come l’aria, entra nella vita di tutti, riguarda la collettività.  

 

 

Tomaso Montanari: Ora d’arte/ora d’aria è un gioco di parole che ho sempre avuto in mente e che avrebbe potuto essere anche un titolo della rubrica del Venerdì, ma rischiava di essere poco chiaro (o troppo…). 

È un titolo che effettivamente lega tre cose: la scuola (per cui ho appena scritto un manuale, con Salvatore Settis), la scuola come luogo di liberazione e non di conformismo, in cui si apprende il desiderio di cambiare il mondo e non il ruolo conformista e sottomesso di parte passiva. Poi c’è l’arte come liberazione politica. Una delle cose che più mi manda in bestia è il ritornello che talvolta mi sento dire: «torna a occuparti di storia dell’arte – perché parli di Zeffirelli, di Fallaci, o di politica o di … torna a occuparti di arte». Ma io non saprei trovare la differenza. E mi chiedo: cosa abbiamo combinato, nel senso comune, per pensare che si possa fare, insegnare, studiare, scrivere in maniera neutra, come se studiare non avesse a che fare con lo schierarsi o prenderne parte? L’ora d’arte, allora, vuole riaffermare l’idea, il bisogno, l’etica di uno spazio in cui la libertà non è “intrattenimento”, per usare una parola/esperienza chiave: quell’autoimbambolamento indotto che continuamente ci distoglie, sottrae attenzione. In più, e in terzo luogo, “l’ora d’arte”, come dicevi, unisce l’aria all’arte, per intendere un bisogno d’arte non a pagamento, non misurabile come biglietto all’ingresso, e anche come arte in cui ci si riprenda il desiderio di guardare le opere o i testi direttamente. Certo può esserci il rischio di un facile populismo (per usare una parola abusata) cognitivo, ma d’altra parte c’è una tensione irrisolta con la storia e la filologia, come discipline che riaprono alla comprensione, ma non bastano. C’è bisogno di un accesso ai saperi umanistici che si dica e dica perché leggiamo i testi. E d’altronde per mantenere vivi i rapporti con gli antichi maestri bisogna forzarli, come diceva Francis Haskell, mio maestro, studioso di storia dell’arte che per molti anni ha insegnato a Oxford e che ha scritto cose rigorose, appartenendo a una tradizione tipicamente anglosassone che si è sempre posta il problema del rapporto con il pubblico. 

 

 

Questo è un passaggio che mi pare molto importante fissare, perché il problema del rapporto con il pubblico pone, orienta e contiene anche il progetto dell’arte come esperienza di bellezza ma pure di civiltà, di identità civile. Tant’è vero che una delle prima schede di L’ora d’arte è dedicata al Pantheon. 

 

È in fondo l’oggetto del mio brano scelto per la prima prova dell’Esame di Stato 2019, dove parlavo del Pantheon proprio nella parte finale. Attraverso l’arte non si viene in contatto solo con la bellezza, categoria molto discutibile - quando si parla di bellezza, di amore, di bacioni, c’è quasi sempre una fregatura sotto. Una categoria importante da recuperare è proprio quella della storia come la intendeva Marc Bloch, vale a dire come «scienza degli uomini nel tempo», che non possa prescindere dallo svolgimento nel tempo e dalla successione dei fatti. Le cose più importanti da questo punto di vista – ci sto lavorando – sono quelle dette da Carlo Levi, per il quale l’Italia è un paese in cui sono compresenti più tempi. Questa continuità è qualcosa che si esperisce continuamente, e non riguarda solo il passato, ma anche il futuro; e questa presa di responsabilità di un mondo che guarda avanti smonta l’idea della storia come identità chiusa, per usare una parola (identità) diventata impresentabile, non solo in Italia. Il Pantheon è, per esempio, la porta materiale per un passato meticcio, mescolato, in senso tanto geografico quanto storico. Pensa solo ai corpi mescolati, alle lapidi, alle storie di corpi che vengono da tutte le epoche, le culture, le fedi. Da tutto il mondo: e si incontrano lì, per sempre. Il fuori è dentro: la conoscenza del passato vero ti dice questo. 

 

 

A parte poche eccezioni, i cento testi raccolti in L’ora d’arte compongono anche una specie di “Viaggio in Italia”, fatto di occasioni per andare a vedere le opere nei luoghi per i quali sono nate. Questa è un’altra speciale risorsa – non abbastanza valorizzata – della cultura artistica italiana. 

 

La prima volta che ho pensato meglio a questo aspetto è stata quando venne in Normale Carlo Dionisotti, che aveva uno straordinario potere di conquistare l’attenzione dei ragazzi (quale ero allora) interpellandoli direttamente, e così ci ricordava la differenza tra Tiraboschi e Lanzi, tra la storia della letteratura e quella dell’arte e sfotteva noi aspiranti storici dell’arte dicendo: non penserete mica di fare tutto qua, tra quattro mura e alcune migliaia di libri. La storia dell’arte è andare in giro. Tra l’altro, quando ho provato a parlare di questo spesso ho parlato di Luigi Veronelli e Carlo Petrini, perché Slow Food, per esempio, è stata un’esperienza importante proprio per dire: non basta mangiare, bisogna andare per le vigne, cogliere il rapporto con il paesaggio. «Camminare le campagne».

 

 

Nella passione per l’arte anche come occasione di “andare in giro” riconosco anche il modello metodologico e narrativo di Roberto Longhi. 

 

Io ancora oggi credo che Longhi, morto nel 1970, sia importantissimo. Quando mi sono formato, Longhi non era molto studiato – almeno da certe parti. Studiare alla Sapienza, per esempio, significava non sapere chi fosse Longhi. Ma a Pisa sia Paola Barocchi che Enrico Castelnuovo erano allievi di Longhi, e tra l’altro in maniera diversa dall’ortodossia fiorentina. Sì, capisco anche il tuo riconoscere Longhi, che sceglie come modello narrativo il romanzo storico di Manzoni, cercando di ritessere il tempo perduto delle opere d’arte con una pluralità di fonti che non sono solo figurative, ma arrivano da tutto. Purché non si divaghi, e il testo pittorico rimanga al centro. Questa è l’idea per me della storia dell’arte come disciplina moderna, anche se poco praticata sia in Italia che all’estero – dove Longhi è pressoché sconosciuto, perché (quasi) intraducibile.

 

 

Mi colpisce molto, perché mi pare una circostanza significativa, il fatto che il Barocco sia stato e continui a essere, non solo negli ultimi cento anni, un’esperienza significativa di cui tornare a parlare e che si torna a guardare ogni volta che si sente la necessità “contemporanea” di interrogarsi sul dissenso. Apparentemente potrebbe sembrare una contraddizione, visto che, a livello di senso comune, il Barocco è stato spesso ingabbiato nell’etichetta del conformismo cortigiano. D’altra parte l’arte barocca è quella che smentisce l’idea della verità delle cose e del linguaggio come condizione assoluta. Sei d’accordo? E tu perché hai lavorato così tanto sul Barocco?

 

Non so se riesco, qui, a spiegare tutta la complessità della risposta che potrei/ dovrei dare. Lo studio del Barocco per me è stato istintivo. Appena entrato in Normale chiesi di studiare Caravaggio e Paola Barocchi con la sua saggezza mi rispose di sì, ma incoraggiandomi a studiare la fortuna delle fonti caravaggesche nel Novecento. Io credo che conti molto nella mia scelta la mia radice cristiana e cattolica. Nel discorso pubblico passo per comunista, ma nella mia famiglia, nelle mie convinzioni, sono cristiano, cattolico praticante, e sento di ispirarmi ai modelli di Milani, Turoldo, Balducci, eccetera. Sto parlando di autori che hanno maturato un’idea di dissenso cattolico dentro la Chiesa. E questa è un’idea che ti riporta all’idea di accettare le regole di un gioco giocandolo in un altro modo. Non è l’uscita, l’apostasia, ma resistere dentro la chiesa in maniera alternativo. Come Galileo, che rimane cristiano fino in fondo. E anche come Caravaggio, a modo suo, trovandosi a lottare contro il potere. Perché il punto non è la Chiesa, ma il potere. Tutta la figura di Caravaggio è una sorta di discorso critico sul potere. Adesso che ti rispondo mi rendo conto che se dovessi spiegare Caravaggio a un marziano usando una sola frase direi proprio questo: è l’autore che ha sviluppato il più radicale discorso tra corpo e potere. Bisogna aspettare Foucault per trovare un autore altrettanto radicale. Il Seicento è stato questo. Ma è anche discorso su un paradigma culturale che si rigetta dall’interno. 

 

Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, Museo Regionale di Messina.


Mi viene in mente, tra le “voci” dell’Ora d’arte, quella dedicata a La Resurrezione di Lazzaro, conservata al Museo Regionale di Messina, in cui parli, per l’appunto, di un Caravaggio “ostinatamente umano”. 

 

Forse nessuno come Caravaggio ha rappresentato la dignità e le ragioni degli sconfitti, degli ultimi, di quelli che hanno lottato e perduto, in una loro piena e totale umanità. E qui si intreccia anche la grande questione di Caravaggio religioso o no. Io direi che mai come nei quadri di Caravaggio si avverte la necessità disperata di una speranza: proprio perché lui non ce l’ha. Come in Alessandro Manzoni, effettivamente: che però forse ne aveva.

 

 

I testi raccolti nel tuo libro sono cento pezzi “coraggiosamente” facili – uso il termine “coraggio” per riferirmi a un progetto, che condivido pienamente, di impegnarsi completamente, e anche con il cuore, per portare contenuti di qualità a un destinatario anche non specialistico. D’altra parte, il rischio con cui fare i conti è quello dell’approssimazione. Quale può essere allora l’equilibrio tra divulgazione seria e “intrattenimento” (perdonami: uso il termine per provocazione) quando ci si rivolge a un uditorio così allargato come quello che hai saputo raggiungere coi tuoi libri come con le tue belle trasmissioni televisive?

 

La parola chiave è responsabilità, intesa anche in senso letterale. Rispondere dei talenti che uno ha ricevuto e metterli a disposizione della comunità è, in questo caso, la funzione dell’insegnante e pure del genitore. È difficile, ma vale la pena. Quando mi trovo a parlare nelle scuole medie incontro il pubblico più implacabile. Se fai funambolismo sei beccato subito. Quello che si prova a fare in aula, come in famiglia, è un discorso responsabile, onesto, dando ogni volta testi fondamentali di conoscenza – è quello che faccio nei pezzi raccolti in L’ora d’arte, dove scrivo poco più di una cartella, partendo dalla proposta dei dati di fatto: la data dell’opera, la sua collocazione, eccetera. E la voce delle fonti: si tratta della vecchia verità del passato, come la chiamava Previtali, che serve a dare al discorso una profondità storica, per cui non guadiamo solo attraverso i nostri occhi, ma attraverso quelli delle generazioni che ci hanno preceduto. E poi si tratta di favorire anche una lettura che possa aderire ai tempi umani, dando tutti gli strumenti di cui si ha bisogno, ma anche un esempio personale di come io ho usato quegli strumenti. Con l’invito a non dimenticare mai che senza un movente personale, senza un vero amore per gli uomini, tutta la filologia del mondo non giova a nulla. 

 

 

Stiamo preparando questa conversazione per una rivista on line. Anche questa forma di discorso e di comunicazione, mi pare, è coerente con il progetto di fare assieme cultura e politica culturale. Tu scrivi moltissimo anche “in rete”. 

 

Le radici culturali sono quelle. Senza montarsi la testa, il modello è San Paolo: tutto a tutti. Chi fa il nostro mestiere ha dentro qualche particella di attitudine socratica. Parlare nella piazza, nelle botteghe, come faceva Socrate, o parlare nella rete sono la stessa cosa. Non è una scelta e nemmeno un merito: è un modo di essere. Ovviamente i generi sono diversi, ma non è diversa l’attitudine, che è quella di provare a parlare a tutti, anche con l’onestà di non cambiare i contenuti. Mi torna in mente una celebre risposta di Michelangelo, che va a venticinque anni a Carrara a scegliere i marmi per Giulio II; gli chiedono di scrivere in latino e lui dice che non poteva soffrire che in Italia si scrivesse non come si parla per trattare di cose pubbliche. Quell’idea per cui la lingua della politica non deve essere diversa dalla lingua quotidiana è il nostro primo dovere.

 

 

Dopo Caravaggio, Velázquez, Vermeer, vorrei presto vedere un tuo lavoro su Manet. Cosa stai preparando?

 

Sì, c’è un filo rosso che unisce questi autori a Manet, a cui vorrei arrivare. Intanto sto preparando però un progetto su Tiepolo, che è un’altra cosa, perché è il tentativo di interrogare una vita e un’opera apparentemente senza desideri, di sperimentarsi su un autore apparentemente più refrattario. 

 

 

La costellazione formata da questi autori – non abbiamo ancora nominato Bernini – sembra tracciare anche la ricerca di un dialogo con dei miti della pittura. 

 

È vero. Dentro questa costellazione vive l’esigenza di ribadire l’importanza del giudizio di qualità, che è una necessità costante. Esattamente come noi leggiamo tutti i giorni il giornale, leggiamo le scritte sui muri, qualunque cosa, e questo atto è legato alla nostra capacità di leggere Dante, Ariosto. Ecco: questo atto vale anche per la storia dell’arte, nel senso che siamo in un colloquio continuo con un canone che non è solo un corpus di testi, ma un insieme di storie di esseri umani. Questa è l’essenza del lavoro umanistico.

 

 

Voglio farti un’altra domanda, a struttura aperta, stavolta anche da tua collega all’Università per Stranieri di Siena. Nel passo usato per le tracce della prima prova dell’Esame di Stato e tratto dal tuo libro Istruzioni per l'uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà (minimum fax, 2014) si legge: «Nel patrimonio artistico italiano è condensata e concretamente tangibile la biografia spirituale di una nazione: è come se le vite, le aspirazioni e le storie collettive e individuali di chi ci ha preceduto su queste terre fossero almeno in parte racchiuse negli oggetti che conserviamo gelosamente. il patrimonio artistico e il paesaggio sono il luogo dell’incontro più concreto e vitale con le generazioni dei nostri avi». Ora, l’esperienza di didattica della lingua e cultura italiana che noi esperiamo nella nostra sede universitaria, come in qualsiasi altra sede universitaria internazionale, o come già nella gran parte delle classi elementari italiane, è un’esperienza dentro una classe multietnica, vale a dire composta da soggetti che non appartengono, in realtà, alla generazione dei nostri avi. Come ti pare importante ripensare allora il nostro patrimonio culturale in questa situazione?  

 

Questo è un punto fondamentale. Sul web si trova una mia conferenza su identità/cultura/nazione fatta al Macro (Museo d’Arte Contemporanea di Roma): ho scelto apposta il tema oggi più scabroso. In realtà, infatti, l’Italia ha una posizione speciale, che ci mette in una condizione di vantaggio. Il documento più antico d’Europa su carta si conserva a Palermo: è una lettera in arabo, scritta da una regina normanna. La nostra storia, da sempre, è una storia meticcia, fatta di incontri, di mescolanza. Pensa al (brutto, ma così caro) stemma della repubblica italiana, con la ruota dentata, le foglie d’ulivo, e poi la stella, perché i greci chiamavano l’Italia la terra della stella. È importante ripensarci: il nostro stemma repubblicano ha un’idea di Italia come paese visto da fuori. Visto da chi venne ad abitarla: i greci d’Occidente, la Magna Grecia. L’unico articolo dei principi fondamentali della Costituzione, il 9, che usi la parola ‘nazione’ è quello che parla di cultura di paesaggio e patrimonio artistico. Il concetto di nazione ha a che fare con il territorio, con la cultura: e dunque con l’apertura, per definizione. In tutte le nostre chiese troviamo storie che parlano di persone che vengono da tutto il mondo. Noi apparteniamo, non da oggi ma da sempre, a una storia multiculturale. 

 

Chiesa di San Tommaso in Formis, Roma.

 

Come mostra bene anche il mosaico sulla facciata di San Tommaso in Formis, a Roma, di cui parli ne L’ora d’arte: un mosaico in cui Gesù tiene per mano, con lo stesso amore e con la stessa cura, un bianco e un nero.

 

È un classico esempio in cui si tratta di ricostruire la cultura storica. Uno spazio pubblico su una facciata di una chiesa, in un luogo trafficatissimo dove ora passa la metro C. Un’opera realizzata da maestranze siciliane o bizantine, con un’arte che comunque viene da lontano; quella del mosaico, e un’iconografia che ha a fare con il sogno di un religioso francese che arriva in Italia e si occupa della liberazione degli schiavi, scambiandoli uno contro uno. È un modo implicito di riconoscere lo stesso valore a bianchi e neri. Tutto questo, oggi, è negato, ma noi sappiamo che questa dimensione esiste. La storia è sempre una storia di conflitto. L’interpretazione del mosaico è legittimata proprio dall’unico articolo della costituzione che parla di patrimonio culturale. La nostra repubblica, il nostro stare insieme non è neutrale: per esempio perché è, per sempre, antifascista. La cultura, il patrimonio culturale e materiale non è mai neutrale: ha un segno, ed è questo segno che deve trasparire dal discorso pubblico di chi è pubblico ufficiale insegnando in una scuola o in un’università della repubblica. Il progetto della costituzione non è contendibile: ed è riassumibile in questo programma, «dare ad ogni uomo la dignità di uomo». Sono parole di Piero Calamandrei: è quello che dobbiamo fare ogni minuto della nostra vita.

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