Una mostra al Museo di Capodimonte: Gli Spagnoli a Napoli

2 Giugno 2023

“Per raccontare la storia di Napoli, non è sufficiente raccontare le guerre su terraferma ma bisogna contemplare il mare. […] La lezione che Napoli ci offre indica forse che questa grande città non è mai appartenuta a sé stessa. È sempre stata la terra di qualche altra potenza, una grande città portuale aperta sul Mediterraneo, quel mare quasi chiuso che è stato il centro del mondo dall’antica Grecia a Cristoforo Colombo. […] L’identità napoletana non è stata definita dalla chiusura ma dalla apertura.”

Così scrive Sylvain Bellenger, nella premessa del catalogo della mostra Gli Spagnoli a Napoli. Il Rinascimento meridionale che il prestigioso museo di Capodimonte, da lui diretto, ospita fino al 25 giugno. 

Perché Napoli non è soltanto una città di mare, è un crogiuolo di culture mittelmediterraneo, se soltanto questo neologismo esistesse, ma per questa città che sta al centro, nel cuore del Mare nostrum è necessario coniarlo.

Prima vi sono arrivati i Greci. Poi i Romani (beh, quelli non han solcato il mare per raggiungerla, e neppure han fatto molta strada, si può dire che essi fossero ‘di casa’, ma han fatto di Puteoli e di Miseno i loro porti per solcare il Mediterraneo diretti alla conquista del mondo, ben prima che nascesse quello di Ostia). Indi i Bizantini. I Longobardi no, loro non sono riusciti a conquistarla (non eran navigatori), ma i Normanni e gli Svevi sì (che sfortunato il povero Corradino, solo la statua di Bert Thorvaldsen ce lo ricorda, insieme agli scritti di Jean-Noël Schifano). Poi gli Angioini (che sontuosa è l’impronta che vi hanno lasciato! In assoluto la mia prediletta). Quindi gli Aragonesi Trastámara, poi i Valois Orléans, quindi gli Spagnoli (di cui si occupa la mostra), funestati dalle rivendicazioni ereditarie dei Francesi. Poi, gli Asburgo di Spagna e quindi i Borbone (che il popolo napoletano ama ancora, a volte incondizionatamente), intervallati per un ventennio dagli Asburgo d’Austria, fino ad arrivare all’Unità d’Italia, passando attraverso due tentativi di repubblica e un governo napoleonico.

Un porto di mare è, per antonomasia, il luogo in cui tutto transita, arriva, si mischia, si fonde insieme a ciò che trova o che è venuto a cercare, e riparte, dopo essere divenuto, per osmosi, qualcosa d’altro, che conserva sì le tracce di ciò che l’ha generato ma con l’aggiunta di un che di nuovo (anzi, d’antico).

Ed è esattamente ciò che accade anche all’arte, della quale la mostra napoletana indaga la stagione del Secondo Rinascimento, in particolare le opere nate fra il 1503 e il 1532, quando per tutta la penisola circolavano le lezioni di Leonardo, di Bramante, di Michelangelo e di Raffaello e gli artisti spagnoli, per parafrasare il Manzoni, venivano a Napoli a “sciacquare i loro panni nel Sebeto”.

Ci sono poi luoghi, nella città partenopea, che recano il segno dell’impronta artistica del succedersi di alcune dominazioni straniere e che, per quanto concerne quella spagnola possono essere reputate l’esempio esterno degli assunti della mostra. Mi riferisco, in modo particolare alla chiesa di san Giovanni a Carbonara, un tempo extraurbana, oggi centralissima, vero palinsesto dell’arte di quattro secoli consecutivi, scelta e amata dai loro storici protagonisti. E poi, ovviamente, insieme a moltissimi altri luoghi sacri, c’è il Duomo, fatto oggetto di tributi artistici da parte di re e di governatori, che son cartina di tornasole di tutte le maniere. E come escludere il Complesso monastico di San Domenico Maggiore, nato angioino, per la cui chiesa Raffaello dipinse la Madonna del pesce? O ancora le chiese di San Severino e Sossio e di San Giacomo degli Spagnoli, tutti ricchi di testimonianze di autori iberici?

Una mostra diffusa, insomma, come si suole dire oggi, che dalle sale della reggia di Capodimonte si dispiega nella città. 

Curata da Riccardo Naldi e Andrea Zezza, essa è stata organizzata dal Museo e Real Bosco di Capodimonte, in partenariato con il Museo Nacional del Prado, grazie al quale è tornata a Napoli, dopo 400 anni, proprio la Madonna del pesce di Raffaello di cui si è detto. (Catalogo Artem, pp. 382, € 39,00) Una prima versione della rassegna espositiva, dal titolo Otro Renacimiento. Artistas españoles en Nápoles al comienzos del Cinquecento, era già stata ospitata a Madrid nel 2022, vi mancava, ovviamente, il ricco apporto delle intrasportabili testimonianze urbane che conferiscono unicità a questa napoletana.

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Napoli. San Giovanni a Carbonara: a sinistra in alto, Bartolomé Ordónez. Diego de Siloe, Girolamo Santacroce e aiuti, Altare dell’Adorazione dei Magi, cappella Caracciolo di Vico, dettaglio. A sinistra in basso: Duomo, cappella Teodori, Alonso Berruguete (attribuito), Deposizione, particolare del paliotto d’ altare, 1517 ca. A destra: Santi Severino e Sossio, vestibolo della sagrestia, Andrea Ferrucci, Sepolcro di Giovan Battista Cicaro.

La Madonna del pesce, dipinta su tavola da Raffaello Sanzio per la Chiesa di San Domenico Maggiore, se ne stava, lì, a quel tempo in ottima compagnia, insieme alla Flagellazione di Cristo del Caravaggio (attualmente ospitata a Palazzo Reale), e all’Annunciazione di Tiziano (ora al Museo di Capodimonte), senza contare la compagnia che le facevano i superlativi affreschi di Pietro Cavallini, molto ammirati da Giotto e dipinti ben da prima, e, per fortuna, per sempre lì, nella cappella della famiglia Brancaccio, e quella del candelabro pasquale, scolpito da Tino da Camaino per l’altare maggiore, tanto per citare solo alcune delle opere d’arte create per San Domenico. 

A commissionarla a Raffaello fu Giambattista del Doce, dell’illustre casato ducale dei del Doce, appartenente al Seggio del Nilo. L’Urbinate la dipinse nel 1514, mentre era intento ad affrescare le Stanze degli appartamenti Vaticani, nello stesso anno in cui, appena morto Bramante, gli succedette nella direzione della Fabbrica di San Pietro. Rappresenta una Sacra Conversazione, con la Vergine e il Bambino seduti in trono (simbolo della Chiesa) che hanno accanto, a sinistra, l’arcangelo Raffaele e Tobiolo che tiene in mano il pesce da cui trae il nome il quadro e a destra san Girolamo che imbraccia la Bibbia da lui tradotta e ha ai suoi piedi il leone addomesticato.

Quest’opera determinò una profonda influenza sulla pittura dell’Italia meridionale nel suo sviluppo in chiave rinascimentale, almeno fino a quando restò a Napoli. Nel 1638, infatti, fu purtroppo portata in Spagna dal viceré Ramiro Núñez de Guzmán, duca di Medina, e dal 1644 entrò a far parte delle collezioni reali di Filippo IV, che la destinò al monastero di San Lorenzo all’Escorial. Trafugata dalle truppe napoleoniche, fu tradotta a Parigi nel 1813 per far parte del Musée Napoléon, e lì venne trasposta da tavola su tela. Restituita alla Spagna, nel 1822, dopo le decisioni del Congresso di Vienna, oggi è nelle collezioni del Museo del Prado.

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Raffaello Sanzio, Madonna del pesce, 1514; olio su tavola trasportato su tela; Madrid, Prado.

Come in una sorta di ‘Viaggio in Italia’ ante litteram, in anticipo di due secoli sul Grand Tour settecentesco, furono molti gli artisti spagnoli che vennero a Napoli a studiare arte, per apprendervi la maniera classica, non già quella romana antica, bensì la rinascimentale, per poi tornare in patria, finalmente famosi, a diffonderla, conferendole respiro europeo grazie al prestigio imperiale di Carlo V. Tra di essi Pedro Fernández, Bartolomé Ordóñez, Diego de Siloe, Pedro Machuca e Alonso Berruguete (figlio del grande Pedro, già attivo a Urbino mezzo secolo prima). Ma fu nutrito anche il numero degli artisti autoctoni che parteciparono a questa felice stagione dell’arte, quali i pittori Andrea Sabatini da Salerno e Marco Cardisco e gli scultori Giovanni da Nola e Girolamo Santacroce.

Così, ancora, Bellenger: “L’importante mostra Gli Spagnoli a Napoli. Il Rinascimento meridionale presenta per la prima volta nella sua interezza quegli artisti che collegarono Napoli, Firenze, Roma, Burgos, Madrid e i grandi centri del Rinascimento a lungo trascurati dalla storia dell’arte. [...] L’orografia del territorio trasformò [infatti] Napoli in un’area di comunicazione capace di collegare, sia attraverso le vie marittime che terrestri, Barcellona, Siviglia, Marsiglia, Genova, Civitavecchia, ma anche Algeri, Costantinopoli, Tunisi, rendendo l’Impero Ottomano il vicino più incombente e minaccioso. 

[…] La storia visiva che questa mostra racconta è tra le più complesse vicende che la città di Napoli ha attraversato, funestata da continue lotte tra francesi e spagnoli per il predominio.”

Tuttavia, nessuno degli artisti venuti a Napoli per ‘imparare’ e nessuno di quelli autoctoni avrebbe potuto operare senza il mecenatismo e la filantropia delle famiglie nobili partenopee e degli ordini religiosi cittadini, tutti protesi a trasmettere ai posteri il proprio nome o il segno della loro magnanimità.

Purtroppo questa stagione felice per l’arte dovette subire una brusca interruzione nel 1538, a causa del durissimo assedio a cui i Francesi sottoposero la città di Napoli, calati a rivendicare il loro diritto al trono che era già stato degli Angioini.

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Pedro Fernández Murcia, documentato a Napoli e Gerona dal 1510 al 1519, Polittico della Visitazione, 1508-1510 circa, olio su tavola, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, inv. Q 801, 796, 96, 795. Marco Cardisco, documentato a Napoli dal 1519 al 1542, Madonna con il Bambino, 1517-1520 circa, olio su carta trasportata su tela, Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda, inv. 515.
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Marco Cardisco (attribuita), Adorazione dei Magi, 1519 ca., Napoli, Museo Civico di Castel Nuovo. Andrea Sabatini, detto Andrea da Salerno, Adorazione dei Magi, 1512 ca. Napoli, Biblioteca e complesso monumentale dei Girolamini, Quadreria

Apre la rassegna una pala d’altare “politica”, l’Adorazione dei Magi, opera forse di Marco Cardisco, databile circa al 1519 e destinata alla cappella dell’Assunta (oggi di santa Barbara) in Castel Nuovo, edificio simbolo del potere regale fin da quando fu costruito nella stagione angioina. Come già un’altra pala d’altare napoletana, il San Ludovico da Tolosa (commissionata a Simone Martini nel 1317, da Roberto d’Angiò quale documento della propria consacrazione a sovrano, in luogo del fratello primogenito Ludovico, che, fattosi monaco e prematuramente morto – c’era chi diceva per fratricidio – era stato repentinamente santificato. Ludovico vi è ritratto nell’atto di incoronare sua manu il fratello Roberto re di Napoli, mentre lui stesso viene a propria volta incoronato santo da una schiera angelica), anche questa dell’Adorazione dei Magi, realizzata duecento anni dopo, è portatrice di un messaggio dinastico.

Certo, per dirla con Picasso “La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico.” A volte, anzi spesso, essa è stata anche strumento di diplomazia, come nei due casi sopra citati, quando tra le pieghe del soggetto religioso è contenuto in nuce un tema politico di grande attualità, immediatamente compreso dai contemporanei.

Nella pala dell’Adorazione dei Magi di Castel Nuovo il messaggio dinastico “era verosimilmente destinato ai diplomatici e alla corte, visitatori che non avrebbero avuto difficoltà a riconoscere nei Magi i ritratti dei sovrani della nuova dinastia regnante: Ferdinando I, il magio più anziano che si inginocchia davanti al Bambino, accanto a lui Ferdinando il Cattolico, che offre l'incenso e, al lato opposto, Carlo V d'Asburgo, raffigurato in primo piano, in piedi, con il vaso della mirra. Espressione politica di un’unica linea dinastica e della legittima continuità tra le tre diverse dinastie: aragonese, spagnola e asburgica, che si succedettero nel Regno di Napoli.” (Bellenger)

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 Alcune vedute dell'allestimento della mostra.

In questa tavola, come in altri quadri di mano spagnola esposti in mostra, i modi pittorici fiamminghi si fondono armonicamente alla lezione rinascimentale italiana, generando un linguaggio tutto nuovo ed estremamente suggestivo che forse si indaga qui per la prima volta. Non bisogna infatti dimenticare che le Fiandre, la regione in cui fiorì la pittura che porta il suo nome, a quel tempo (fine XV, XVI e parte del XVII sec.), facevano parte dei domini spagnoli e la loro arte e la loro cultura si influenzarono scambievolmente.

Una mostra, dunque, questa di respiro europeo, perché l’Europa è, nel suo afflato culturale, una innegabile realtà il cui passato andrebbe meglio indagato e conosciuto per vivere più serenamente nel presente e progettare un sempre più comune futuro. 

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