Viaggio al termine della notte

26 Luglio 2023

Calvino scrive in Perché leggere i classici che i classici sono quei libri di cui di solito si sente dire "sto rileggendo..." e mai "sto leggendo...."

“Chiamatemi Ismaele.” Per molto tempo (non necessariamente coricandomi), ho pensato che il perentorio incipit di Moby Dick fosse ineguagliabile, una convocazione del lettore categorica: aperta la prima pagina l’unica possibilità è quella di chiudere il libro sull’ultima frase, “Era la bordeggiante “Rachele” che, nella sua ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano”. Poi ho letto “È cominciata così. Io, avevo mai detto niente. Niente. È Arthur Ganate che mi ha fatto parlare…” e Céline mi ha scaraventato dentro il suo Viaggio al termine della notte, portandosi via anche me… anche la Senna, tutto, che non se ne parli più. Temerario riprendere la parola.

Ci sono libri che ti sconquassano, sempre, anche se li hai già letti, e siccome lo sai bene, li tieni anche a distanza, ché rileggerli non è mai come la prima volta, ma sai pure che non sarà mai per svago, per occupare il tempo: Viaggio al termine della notte occupa il tuo, ti sequestra. Curioso che, di questi tempi, in molti si preoccupino della bolla di virtuale irrealtà nella quale ci trastulleremmo; singolare la condanna di ogni dispositivo che, estraendoci dalla scansione del tempo amministrativo, ci condannerebbe a una vita sospesa, mentre rincorriamo avatar proiettati in un ambiente artificiale, indifferenti e (o) forse consapevoli di tutto quello dal quale preferiamo fuggire, o almeno prenderci una pausa. Segue condanna. Ma in cosa consisterebbe invece l’esperienza della letteratura, dell’arte, quella con la musica? Cosa succede quando, rapiti da un gedankenexperiment, o da uno reale, si prova a immaginare la risposta all’ultimo indovinello scientifico, insensibili al tempo che passa, a tutta la vita che scorre fuori dallo studio o dal laboratorio? Tra gli altri, è stato anche Lévi-Strauss, nell’Overture a Il crudo e il cotto, a farci riflettere su quella sensazionale esperienza che il mito e l’opera musicale producono nell’ascoltatore: la sospensione del tempo fisico, una magia benevola – o sortilegio malefico o malia stregonesca – che ci sottrae alla scansione naturale, alla percezione del reale, come se mito e musica non avessero bisogno del tempo se non per infliggergli una smentita. Viaggio al termine della notte ha questo potere, e lo esercita indifferente o addirittura infastidito dallo sguardo del lettore: che poi sia solo uno, venticinque o nessuno, tanto a Céline non importa nulla. O almeno, a ri-leggerlo, così sembra.

A rileggerlo, sembra anche non finire. Finisce, ovviamente, e anche in maniera più decisa di altri monumenti letterari del primo ‘900, tutti quelli che potevano continuare indefinitamente, avendo perso qualsiasi centro, l’idea stessa di uno sviluppo narrativo canonico. Così è, anche per il Voyage. In più, comincia che sembra già cominciato, come se l’inizio precedesse il tuo arrivo di lettore, scaraventato in un tumulto di parole che già scorreva in tutte le immaginarie pagine precedenti. Comincia che già ti trascina, ti ballonzola, ti strattona, facendoti immediatamente partecipe di quel delirante caravanserraglio di luoghi, personaggi, vicende, dialoghi, riflessioni, bestemmie. E infine si chiude, sì, è vero! e ti congeda pure, ma quasi per convenzione, un po’ forse anche per stanchezza, per quanto momentanea.

Da ri-lettore colpisce – di nuovo, anche la prima volta era stata così – la poca sintonia con le letture più ovvie, con le sinossi più pigre, qualcuna frutto delle controversie sull’autore. Certo, è la notte che Céline racconta, gli orrori e le desolazioni morali, il cinismo e le durezze; certo è corrotto e marcio e putrido il mondo cui volge lo sguardo. Ma poi lo traduce in parole, in ritmo, in suoni vocali, e la sostanza del contenuto che ne riemerge è tutta colore, invenzione, bellezza, tanto più sorprendente e improbabile a misura della miseria dei materiali d’appoggio. È, con un po’ di enfasi, il miracolo dell’arte quello che si offre al lettore. Sicuramente al ri-lettore. 

Ma non è tutto. Ti aspetti e ti ricordi la notte, appunto, il buio e in definitiva la morte. Sicché non è solo l’invenzione linguistica a ridare, o ritrovare vita dove già si intravedeva il rigor mortis: non è il miracolo della parola a resuscitare un corpo di osservazioni sul quale era già pronto ad esercitarsi lo sguardo professionale dell’anatomo-patologo. Céline non disseziona cadaveri. Céline guarda ai vivi. Pur esercitando, come medico dell’umanità che racconta, nelle “periferie più desolate”, tra quegli ultimi tutto meno che idealizzati, circondato da “brutti, sporchi e cattivi”, è con l’occhio clinico che li osserva. Ed è infallibile. Da ri-lettore, questa volta per la prima volta, ciò che più mi colpisce è l’acume professionale, l’esattezza chirurgica della diagnosi. L’anamnesi è da premio Nobel, su questo non ci piove, della prognosi e delle eventuali terapie sembra interessarsi nulla, forse cinicamente disilluso sulla effettiva curabilità del mondo, ma a meravigliare è l’implacabilità dell’occhio, la capacità di osservazione, la “definita” luminosità con la quale fa emergere tutto ciò che incontra prima del termine del viaggio: raccontando quella “scheggia di luce” che è la vita. Mi verrebbe da dire, “altro che notte”: probabilmente esagerando.

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Sono queste schegge che la ri-lettura mi regala. Alcune già annotate a margine del primo incontro, altre scoperte per la prima volta, sicuro che alla prossima lettura se ne illumineranno di ulteriori, ché il ritmo del testo, il flusso quasi sempre incontenibile delle parole autorizza la distrazione (era un punto teorico di Luca Ronconi, l’idea di uno spettacolo potenzialmente infinito, che non potesse che prevedere l’intermittente attenzione dello spettatore: c’est le vie…). E sono alcuni di questi sguardi che da ri-lettore mi piace condividere, regalandoli a chi il Viaggio non lo ha mai intrapreso o a tutti quelli che stanno pensando di riprenderlo, una collezione di osservazioni che ti fanno alzare gli occhi dalla pagina sobbalzando, sbalordito dalla lucida ineluttabilità della visione: altro che delirio! Come non averci pensato prima? 

È al dottor Louis Ferdinand Céline che volentieri lascio la diagnosi.

  • “Quando non si ha immaginazione, morire è poca cosa, quando se ne ha, morire è troppo. Ecco il mio parere. Non avevo mai capito tante cose in un colpo solo.”
  • [Raccontando del Generale des Entrayes] “Gli piacevano i bei giardini e i roseti, non ne mancava uno, di roseto, dovunque passassimo. C’è nessuno come i generali per amare le rose. Si sa.”
  • “Chi parla dell’avvenire è un cialtrone, è l’adesso che conta. Invocare i posteri, è parlare ai vermi.”
  • “Come il montone che, sul fianco, in un prato, agonizza e bruca ancora. La maggior parte della gente non muore che all’ultimo momento; altri cominciano e si prendono vent’anni d’anticipo e qualche volta anche di più. Sono gli infelici della terra.”
  • “Ci sono date del genere che contano in mezzo ai tanti mesi in cui uno potrebbe benissimo fare a meno di vivere.”
  • “La tristezza del mondo assale gli esseri come può, ma ad assalirli sembra che ci riesca quasi sempre.”
  • “Se la gente è così cattiva, forse è solo perché soffre, ma è lungo il tempo che separa il momento in cui smettono di soffrire da quello in cui diventano un po’ migliori.”
  • “Poiché lei mi sfuggiva. Musyne, mi credevo un idealista, è così che uno chiama i propri piccoli istinti vestiti di paroloni.”
  • “A vent’anni non mi restava che il passato.”
  • “Mica che fosse brutta, Madame Puta, no, avrebbe potuto perfino essere carina, come tante altre, solo che lei si arrestava ai bordi della bellezza, come ai bordi della vita, con i suoi capelli un po’ troppo curati, il sorriso troppo facile e improvviso, i gesti un po’ troppo rapidi o un po’ troppo furtivi.”
  • “‘Sta repulsione istintiva che ispirano i commercianti a quelli che li avvicinano e che capiscono, è una delle rarissime consolazioni che quelli che non vendono niente a nessuno provano a essere poveri come sono.”
  • “Il Nord almeno ti conserva le carni: sono pallidi una volta per tutte quelli del Nord. Tra uno svedese morto e un giovane che ha dormito male, poca differenza.”
  • “Quando l’odio degli uomini non comporta alcun rischio, la loro stupidità si convince presto, i motivi arrivano da soli.”
  • “Ecco quel che penso. Non bisogna mai fare i difficili sul modo di evitarsi uno sbudellamento, né perder tempo a cercare le ragioni della persecuzione di cui sei oggetto. Sfuggirvi è quel che basta al saggio.”
  • “Figuratevi che era in piedi la loro città, assolutamente diritta. New York è una città in piedi. Ne avevamo già visto noi di città, sicuro, e anche di belle, e di porti e di quelli anche famosi. Ma da noi, si sa, sono sdraiate le città, in riva al mare o sui fiumi, si allungano sul paesaggio, attendono il viaggiatore, mentre quella americana, lei non sveniva, no, lei si teneva bella rigida, là, per niente stravaccata, rigida da far paura.”
  • “Forse è anche l’età che sopraggiunge, traditora, e ci annuncia il peggio. Non si ha più molta musica in sé per far ballare la vita, ecco.”
  • “Quasi tutti i desideri del povero sono puniti con la prigione.”
  • “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte.”
  • “Ha un certo modo di parlare la gente distinta che intimidisce e che mi spaventa, a me, semplicemente, soprattutto le loro donne, saranno pure solo frasi mal combinate e pretenziose, ma lucidate come dei vecchi mobili. Fanno paura le loro frasi anche quando sono insignificanti. Si ha paura di scivolarci sopra, solo a rispondere.”
  • [La mia diagnosi preferita, da ri-lettore] “Un matto, altro non è che le solite idee di un uomo ma ben chiuse in una testa. Il mondo non ci passa attraverso la testa e tanto basta. Diventa come un lago senza immissario una testa chiusa, un’infezione.”
  • “Lei possedeva Sophie quell’andatura alata, agile e precisa che si trova, così frequente, quasi abitualmente nelle donne d’America, l’andatura dei grandi esseri dell’avvenire che la vita porta ambiziosa e persino leggera verso nuove modalità d’avventura… Un tre-alberi di tenera allegria, in rotta verso l’Infinito…”
  • “Dunque, non si diffida mai abbastanza delle parole, è quel che concludo.”
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Viaggio al termine della notte

E concludendo, tornando in Africa e parlando del sergente Alcide, uomo abbrutito, perso nel più remoto e putrido degli angoli della terra, e che però lì imprevedibilmente resiste per mantenere agli studi una giovane nipote che non ha mai visto. 

“Si addormentò di colpo, alla luce della candela. Dormiva come tutti. Aveva l’aria proprio normale. Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi.”

Accidenti! Che bello sarebbe, infatti, avere qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi. Magari, ogni tanto, un buon libro da rileggere.

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