Addio a Berlino 2

13 Agosto 2013

Qui la  prima parte

 

4.

Oltre al persistere di una memoria che si associa all’est e all’ovest – due modelli di vita, due forme-stato, due idee di libertà, due modi di lavorare o non lavorare – a Berlino ci sono altre variabili spaziali, altre cesure, altre aree di non comunicazione.

 

Chissà se di questi tempi i ventenni e trentenni bottiglia-di-birra-in-mano arrivano mai a spingersi oltre il ring della metropolitana? Potrebbe essere istruttivo, perché, oltre a non coincidere con il suo diadico o gemellare centro storico, Berlino è davvero la somma di una serie composita di ex villaggi con un proprio centro, una propria storica comunità. Difficile dunque nel caso di questa città-stato, capitale della Repubblica Federale di Germania ma non metropoli, parlare di periferie.

 

La categoria della ‘banlieue’, del sobborgo con forti legami socio-economici con il centro di riferimento, qui è muta. Sembra che non solo tra parte orientale e parte occidentale, ma anche tra i dodici distretti amministrativi della città, i quartieri in cui sono essi suddivisi e i kiez o contrade che li segmentano al loro interno, ci sia un vallo incolmabile. Come se i cittadini di una zona non andassero volentieri in una zona diversa dalla propria. Potere di una tacita legge dell’identico, che ha trasformato un insieme urbano variegato e potenzialmente assai ricco in una sommatoria di aree più o meno privilegiate lontane tra loro quanto Marte da Nettuno. In Helmholtz Platz, a Prenzlauer Berg, è difficile incontrare un non-europeo o americano perlopiù bianco e in Sonnenallee, a Neukölln, è raro imbattersi in un non-turco o arabo.

 

I ventenni e trentenni bottiglia-di-birra-in-mano in arrivo da tutto il mondo ricco potrebbero essere uno straordinario elemento di connessione e scambio, potrebbero disegnare tracciati inediti non solo tra Berlino e i paesi da cui provengono, ma anche tra una Berlino e l’altra, tra i diversi gruppi umani che la abitano. E invece fanno gruppo a sé, compatti e uniformi, incantati dalla facilità irreale con cui si abita quello che per gli stranieri spinti dalla noia di casa e non dal bisogno è un vero e proprio luna park, un paese dei balocchi materno, protettivo, indulgente e sicuro, maledettamente sicuro.
   


5.

“Sono venuto a vivere a Berlino, perché qui tutti fanno qualcosa di creativo, perché costa poco e perché puoi andartene sicuro per le strade anche in piena notte”. A dirmelo non è una quindicenne in fuga dai femminicidi nostrani, bensì un gagliardo trentenne di Sardegna, uno che a incontrarlo di notte potrebbe mettere più che avere paura.

 

“Ma a lungo andare non è un po’ artificiale, persino un po’ noiosa, tutta questa sicurezza?”, azzardo io. “Non ti sembra che Berlino sia leggermente sopita?” Letterale e ignaro dei rischi di un eccesso di ordine, lui replica con un secco: “preferiresti che ti scippassero?”

 

Che il prezzo di questa insulare tranquillità sia il distacco dal mondo reale, in altri tempi detto disimpegno?
Sento già le voci degli aspiranti creativi autoesodati a Berlino: “qui ti permettono di fare quello che hai in mente di fare, mentre da noi tutto è fermo, non c’è lavoro, non ci sono soldi, non ci sono spazi, la cultura è morta, per i giovani non c’è futuro, eccetera eccetera”. Ma cosa offre e consente, esattamente, questa città postindustriale a un/a giovane (e meno giovane) che abbia voglia di farsi strada e di misurarsi con il proprio talento? Quali sono gli spazi dove l’astuto promoter della Berlino a prezzi da asta giudiziaria non inviti i potenziali consumatori a assistere a semplici rivisitazioni del passato, veri e propri reenactment o ricostruzioni filologiche di un altrove che nel frattempo è morto cristallizzandosi in mito?

 

Risparmio a chi legge ogni accenno ai club più selettivi. Se quella è la meta agognata, tanto vale andarsene direttamente nella Bangkok descritta da quel provinciale di Winding Refn o rimanere a Caronno Pertusella: le dinamiche di esclusione e inclusione sono le stesse e uguale la canina, docile subalternità al principio del piacere e al feticcio (sì, proprio quella cosa che non c’è) della trasgressione.

 

Andiamo, piuttosto, in una delle tante dismesse cattedrali industriali riattate e riconvertite di recente. La città ne è piena. Prendiamo, non proprio a caso, la Kraftwerk di Köpenicker Straße 59 – 73, una centrale elettrica costruita negli stessi anni in cui veniva eretto il Muro, tra il 1960 e il 1964.

 

 

Doveva fornire energia elettrica alle zone orientali della città. Abbandonato da anni, l’edificio è stato ‘resuscitato’ nel 2006 e trasformato in un club techno, il Tresor di Dimitri Hegemann. “Oggi”, recita pomposamente l’immancabile sito, “questa centrale elettrica un tempo ridotta al silenzio è un luogo vibrante per mostre ed eventi. Uno spazio che risuona di energia”.
Bonificata, ma non edulcorata, la struttura architettonica di questo gigante ammutolito è ora uno spazio flessibile, una macchina per fare soldi. Messa in sicurezza senza alterarne l’aspetto cadaverico, lo scheletro a vista, si offre a chiunque voglia farne uso per festival techno, sfilate di moda, fiere & Co. e ne abbia i mezzi. Il valore aggiunto è la sua immagine spettrale, la sua estetica a metà tra Blade Runner e Stalker.
Una location ideale per eventi come il recente “Show & Order” e marchi come ana alcazar.

 

 

Ma anche per kermesse che vorrebbero essere alternative, di tendenza, sebbene non più sganciate dalla logica del profitto, come l’appena risorto festival di musica elettronica e sperimentale “Berlin Atonal”. Nato presso il club SO36 di Oranienstrasse, all’epoca gestito dallo stesso Dimitri Hegemann, e per tutti gli anni Ottanta luogo di incubazione della scena artistica e musicale più ribelle e rivoluzionaria del mondo occidentale, “Berlin Atonal” ha chiuso i battenti nel 1990, subito dopo la caduta del Muro. In questi giorni, riallestito senza badare a spese nelle navate di ferro e cemento del Kraftwerk, fa pensare a un Museo di storia naturale dove si portano i bambini a vedere gli animali che non ci sono più. Uno spettacolo filologico, avvilente come il corpo imbalsamato di Lenin o i cloni di Elvis Presley.

 

 


 


6.

Per restare in campo promozionale, ma compiendo un triplo salto mortale cabrato all’indietro, è di questi giorni – esattamente di martedì 23 luglio – la distribuzione a tappeto sui muri di Berlino (e di Amburgo e Colonia) di un poster di formidabile efficacia visiva. Impossibile non fermarsi a guardarlo, a leggerlo, a riflettere. Intanto perché vi figura una delle immagini più sinistramente evocative del secolo scorso: l’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz.

 

L’occhiello, in alto al centro e in inglese, recita “Operation last chance”, operazione ultima occasione. Sotto, a caratteri cubitali e in tedesco, “Spät, aber nicht zu spät”, tardi, ma non troppo tardi. Più in basso, su fondo rosso aranciato, l’obiettivo dell’operazione e il nome di chi l’ha lanciata: portare davanti alla giustizia i nazisti – guardie nei campi di sterminio o membri delle squadre della morte – ancora in vita. Il manifesto è firmato dal Centro Simon Wiesenthal e offre una taglia complessiva di 25.000 € (5.000 a chi fornisca informazioni su un sospetto, altri 5.000 a chi lo faccia arrestare e ulteriori 100 € per ogni giorno di prigione, fino a un massimo di centocinquanta giorni). La lista dei ricercati, disponibile sul sito del Centro, raccoglie una sessantina di nomi, due soli sotto gli ottantanove anni, il più vecchio di centouno.

 

Ognuno di noi, va da sé, ha diritto di prendere posizione a favore o contro, ma come non riconoscere che questo poster è una sorta di “Wanted”, con tanto di taglia, che invita a una vera e propria caccia all’uomo, anzi al vecchio? Le centocinquanta giornate di carcere pagate all’informatore in caso di arresto parlano chiaro. Cosa sta vendendo, mi chiedo, questo poster che non si lascia eludere? Giustizia, vendetta, ossessione, memoria, un’idea implacabile del diritto, la riproposizione di un assoluto?
Lo guardano i ventenni e trentenni bottiglia-di-birra-in-mano? Se sì, cosa vedono?

 

Berlino, città-bosco, quieta e buia come una notte d’estate rischiarata dalle luci fioche e evanescenti delle lucciole.
Di recente, in uno splendido articolo apparso sulla “London Review of Books”, Neal Ascherson ne ha scritto, “sporgendomi dalla finestra della mia camera d’albergo, non ho sentito altro che il cinguettio degli uccelli e mi sono detto: questa città non sarà mai più una vera capitale. Un tempo, dopo la caduta del Muro, ero tra quelli che pensavano che Berlino sarebbe diventata l’hub ruggente d’Europa. Invece, senza un soldo e sottopopolata, è diventata una delle città più vivibili e accessibili del mondo”. Hanging on to Mutti, tieniti stretto a mammina, questo il titolo del pezzo uscito il 6 giugno scorso sulla LRB.

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