Maelstrom / Alessandro Carrera, Lo studente di medicina

22 Settembre 2021

Un tema caro alla letteratura di ogni tempo è quello della scomparsa misteriosa. A un certo punto della narrazione, o anche – spesso – al suo avvio, un personaggio d’improvviso sparisce: non perché acquisti la capacità di rendersi invisibile (evento temporaneo, che di norma implica l’uso di un oggetto magico), ma perché senza preavviso d’un tratto dilegua, facendo perdere le proprie tracce. Una variante importante, che qui possiamo solo citare en passant, è quella dell’apparizione attesa che non si verifica: esempi preclari, il Godot di Samuel Beckett e i Tartari di Dino Buzzati. E lo stesso valga per i casi in cui un personaggio «scompare» nel senso che perde la vita, sì che la trama si identifica con la graduale scoperta di aspetti reconditi della sua personalità, come nella novella di Maupassant Les bijoux (1883), o nelle Fate ignoranti, il film del 2011 di Ferzan Özpetek. 

 

Come tutti ricordano, una sparizione improvvisa è la mossa d’apertura dell’Amica geniale di Elena Ferrante (2011); ma potremmo ricordare anche un bel romanzo di Giuseppe Pontiggia, La grande sera (1989), o La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia (1975); o ancora, risalendo più indietro nel tempo, il racconto di Nathaniel Hawthorne Wakefield (1837). Al centro di tutti questi racconti si accampa il medesimo interrogativo: perché il protagonista ha deciso di scomparire? Il fulcro della vicenda consiste nella ricerca delle cause, psicologiche o materiali. Se si parla di figure reali (come il fisico Ettore Majorana), l’efficacia narrativa è direttamente proporzionale alla plausibilità della spiegazione proposta; al contrario, nei testi d’invenzione a funzionare è soprattutto l’impossibilità di formulare una congettura convincente, o anche una congettura quale che sia. E l’arbitrio assoluto apre la via che conduce ai lidi modernisti e novecenteschi dell’assurdo.   

 

A questo proposito, una variazione interessante del tema della scomparsa è offerta da un altro classico della letteratura americana, il racconto di Herman Melville Bartleby lo scrivano (Bartleby the Scrivener. A Story of Wall Street, 1853). Qui il protagonista non sparisce fisicamente, bensì cambia modo di comportarsi, in modo da apparire una persona del tutto diversa. Costante rimane il nocciolo della vicenda: perché Bartleby è cambiato? Per quali motivi si sottrae a compiti cui era uso attendere con diligenza? Per quali motivi si sottrae poi a qualunque richiesta? Quali le ragioni del suo incongruo agire, della sua illogica ostinazione? 

 

A tutta questa varia tradizione narrativa si collega il nuovo romanzo di Alessandro Carrera, Lo studente di medicina (Passigli, 2021). Il protagonista, Gianfranco, che tutti chiamano Franco, ormai prossimo a laurearsi, d’improvviso cambia atteggiamento: rinuncia a sostenere un esame, getta alle ortiche il proprio futuro professionale, si chiude in un ostinato mutismo; più tardi scomparirà anche in senso proprio, salvo (forse) ripresentarsi sotto mentite spoglie nel finale del romanzo. L’inopinato, immotivato abbandono degli studi universitari getta nella costernazione i genitori di Franco (Elio e Tina), che da sempre coltivavano l’ambizione di avere un figlio medico: un traguardo che per una famiglia operaia di recente inurbazione sarebbe equivalso a un autentico riscatto sociale. Non meno stupita, anche se diversamente coinvolta, è la sorella minore Anna, che mal tollerava la predilezione dei genitori per quel primogenito così studioso e diligente. 

 

Una differenza rilevante tra Bartleby e il personaggio di Carrera è che mentre il primo conserva anche dopo l’inspiegabile metamorfosi la sua «nonchalance cadavericamente signorile» (his cadaverously gentlemanly nonchalance), Franco si lascia andare. Non solo non apre più bocca, non parla più con nessuno, ma a un certo punto si allontana da casa e viene trovato per strada, ridotto alle condizioni di un barbone. Da promessa della medicina, da incarnazione e pegno delle speranze familiari, a dropout. Emarginato, impermeabile a qualunque appello o sforzo di comunicazione, l’ex-studente è un doloroso enigma destinato a rimanere irrisolto.

 

La vicenda è ambientata nell’Italia degli anni Settanta. La famiglia Miglioli proviene dall’Appennino piacentino: e lassù ancora si trova il resto del parentado, zii e prozii, cugine e cugini; fra questi, Domenico, figlio dello zio Duilio, che assomiglia a Franco come una goccia d’acqua. Ma diversamente da lui era allergico agli studi, né si adattava alla vita da contadino: così a diciott’anni se n’era andato senza più farsi vivo, anche se la madre Agata riesce indirettamente ad avere sue saltuarie notizie dal Nord Europa.

 

L’ambientazione della vicenda si alterna fra i due poli della città (sullo sfondo, l’immagine di un mondo universitario dove allignano prassi illegali e corruzione) e di una campagna rude e arretrata.     

Detto questo, non s’è però detto ancora nulla, perché l’aspetto distintivo dello Studente di medicina consiste in una singolare costruzione narrativa. Il romanzo è diviso in 33 capitoli, ripartiti in 8 sezioni, in cui si avvicendano a mo’ di titolo i nomi di tre personaggi: Franco (3), Anna (3) e Antonio (2). Le parti intitolate a Franco seguono il suo punto di vista, ma il narratore è esterno; nelle parti intitolate a Anna è invece lei stessa a prendere direttamente la parola, mentre in quelle intitolate a Antonio – le più brevi, tre capitoli in tutto, ma in posizione strategica – il narratore è di nuovo esterno, benché largo spazio trovino ancora i discorsi di Anna, dal vivo o registrati: Antonio infatti è uno specializzando in psichiatria che sta seguendo l’ormai ultracinquantenne Anna, sua paziente.

 

 

Diversi, quindi, i piani temporali in gioco. L’impressione complessiva è quella di una simmetria studiata ma non troppo palese, non intuitiva, con una pluralità di punti focali che potrebbero far pensare a un ventaglio di forme ellittiche. Evento decisivo e scatenante, la crisi che colpisce Franco, poco prima di un esame: una specie di visione che ha l’effetto di un gorgo, di un «Maelstrom». In che cosa consista, non è spiegato in maniera univoca e dettagliata: ciò che veniamo a sapere è che si tratta di una sorta di catastrofe cognitiva, che annichilisce le nozioni cliniche e anatomiche per imporre una percezione d’insieme avvolgente e indivisa, a cospetto della quale le attività quotidiane perdono senso, ambizioni e progetti si vanificano, le relazioni umane si svuotano. Del resto, qualche premonizione della crisi c’era pur stata quando ancora Franco si consumava sui libri e frequentava il reparto dell’ospedale: «Senza mai portare un ragionamento a casa […] elucubrava che l’universo non era affatto composto di entità discrete, paratie stagne, elettroni che cozzano e manco si salutano, organi vitali che si separano di comune accordo come colleghi d’ufficio dividendosi il lavoro, tu metabolizzi, io provvedo i miei succhi, no, il gran bailamme del cosmo doveva essere una cosa sola, il campo di gioco di un’unica legge, un solo mollusco che prima o poi con qualche forcina lo tiri fuori anche dalla vongola più dura». Ciò che il Maelstrom provoca è una metamorfosi radicale: catafratto nel silenzio, da quel momento Franco continua a vivere come un estraneo assoluto, un sopravvissuto che non è latore di alcun messaggio, un testimone di (del) nulla. 

 

Attorno a questo primo fulcro narrativo, altri sembrano contendersi lo status di secondo fuoco. C’è l’episodio in cui il padre, fuori di sé per l’inspiegabile comportamento del figlio e alle prese con una cagna inferocita, rischia involontariamente di ucciderlo travolgendolo con la Lambretta; c’è il fugace incontro erotico con la cugina Nora, che comprende la rievocazione di un gioco infantile (un presagio?) consistente nella progressiva cancellazione degli elementi di una frase; c’è il nubifragio che coglie Anna e Franco sull’Appennino, e il crollo di un ponte su un torrente in cui si presume Franco abbia perso la vita; c’è nel finale il sorprendente incontro di Anna, appena uscita da una clinica, con il guardiano del cimitero del paese, un misterioso rimpatriato di mezz’età, forse Domenico, forse lo stesso Franco. Anna, a proposito, cresce di statura man mano che il romanzo procede: forse non sarebbe sbagliato dire che in fondo è lei la vera protagonista, la sorella che cerca invano di prendere le misure di un avvenimento che la riguarda più di quanto vorrebbe, più di quanto riesca a tollerare. I suoi rovelli prendono campo, la sua contesa con il caos guadagna il primo piano; e anche Antonio, in fondo, è uno studente di medicina.  

 

A fronte di questa complessa struttura narrativa, che rischia di riuscire un po’ artificiosa, risultano particolarmente efficaci le descrizioni ambientali. La famiglia Miglioli abita alla periferia di una Milano in pieno sviluppo, dove l’estendersi disordinato dell’area urbana è un caotico fermentare di costruzioni e detriti, un cumulo di progetti interrotti e di scomposte zuffe tra presente e passato che sfigura il paesaggio: «Le strade che conducevano in periferia erano state raddoppiate, bardate da guard-rail, riasfaltate, incattivite, evitavano le case formando grandi gomiti rialzati, il loro vecchio tracciato adesso era chiuso da transenne, traforati sbrecciati e popolati di lucertole, monticelli di terra provvisori che una volta germogliati in primavera nessuna scavatrice veniva a portar via». D’altro canto, nessuna idealizzazione riscatta l’ambiente d’origine: «La casa di famiglia pendeva dal versante ovest della collina, la vista dava su due lunghe valli, nei giorni chiari si vedeva in lontananza la pianura azzurra e gialla, sarebbe stato bello poter dire che la casa era profonda e misteriosa, popolata da stanze segrete, letti grandi dove come montagne dove generazioni e generazioni erano state concepite e benedette, ma era solo una costruzione sbilenca, sporgente sulla strada, edificata da braccianti improvvisati capimastri, un po’ alla volta e molto a caso, un muro adesso e un altro chissà quando, se non erano giù in pianura a lavorare o in Germania a schiattare di fatica». 

 

Alessandro Carrera vive da molti anni negli Stati Uniti, ed è probabile che questo romanzo risenta di più d’un modello americano. Ma il riferimento più stringente è senza dubbio Carlo Emilio Gadda: sia per l’idea – o l’ossessione – di un infinito conglutinarsi di tutto con tutto che sprofonda Franco nel Maelstrom, sia per il gusto dell’accumulazione verbale e dei protratti indugi descrittivi, ravvivati dai lampi delle animazioni paesistiche. Carrera gestisce i lasciti gaddiani con perizia, e dimostra una persuasiva capacità di ritrarre personaggi e ricreare ambienti. Qualche dubbio può lasciare invece proprio l’idea centrale del romanzo, la repentina, testarda anacoresi del protagonista, collocata in un’epoca che può dire qualcosa solo a chi l’abbia vissuta (nel cimitero del paese, un’epigrafe registra per Gianfranco Domenico Miglioli le date 1954-1979). Ma forse questo era appunto l’intento di Carrera: rappresentare in maniera icastica aspetti e scenari della recente storia italiana, e ad essi sovrapporre un vistoso punto interrogativo.  

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