Altro nulla da segnalare
Il libro di Francesca Valente è potentissimo, altro nulla da segnalare. Se n’è accorta la giuria del Premio Calvino, che l’ha premiato l’anno scorso, se n’è accorta la giuria del Premio Campiello Opera Prima, che l’ha premiato in primavera, e se n’era già accorta la casa editrice Einaudi, che l’ha fatto uscire della sua nuova collana, Unici.
Il motivo per cui si intitola così, Altro nulla da segnalare, è che questa formula spesso conclude i cosiddetti “rapportini”, brevi report giornalieri scritti dai medici e dagli infermieri di un reparto psichiatrico di ispirazione basagliana, che sorgeva a Torino negli anni Ottanta, all’interno dell’Ospedale Mauriziano. Questi appunti di servizio, riportati nella loro forma originale, accompagnano il lettore dall’inizio alla fine del libro. La prima cosa che risalta nel romanzo è proprio il suo design, che l’autrice spiega in una brevissima introduzione: nelle pagine i “rapportini” originali si alternano alle ricostruzioni narrative dei fatti a precedere o a seguire, costruite liberamente intorno alla scia dei personaggi che emergono leggendo le testimonianze reali.
Nei “rapportini”, dicevamo, i responsabili descrivono i comportamenti di alcuni pazienti, le loro crisi, certe anomalie, e lo fanno con un tono che a prima vista può sembrare ironico e distaccato, ma a un esame più approfondito si rivela umano, rispettoso, quasi tenero. Probabilmente la parola che ricompone meglio questa frattura tra come il tono appare e come è, è una sola: piemontese. Questo tono di voce dal carattere quasi regionale è molto importante perché dà un’intensità tutta particolare al romanzo nel quale, da cima a fondo, non si fa altro che incontrare dei giusti. È come se nella comunità umana ristretta del reparto, sotto la penna luminosa di Francesca Valente, tutto il mondo rinchiuso in questo passato prossimo si ingentilisse, ma senza alcun paternalismo, senza nessun buonismo, piuttosto tramite una carica costante e propulsiva di musica e di poesia (alla fine: “dal letame nascono i fior”). Così i medici hanno il cuore grande, gli infermieri fanno del loro meglio, gli ospiti del reparto convivono con i propri guasti mostrando che nessun livello di sfiga o di disagio è completamente impermeabile all’affetto e alla comprensione.
I giusti sono giusti nonostante il dolore, nonostante l’amore, sono giusti perché hanno un’idea esatta di che cosa è sano e di che cosa è malato, cosa che contribuisce a rimarginare anziché slabbrare la ferita umana. E per avere un’idea simile è necessaria una guida.
L’ingrediente segreto dell’amalgama tra verità e immaginazione all’interno del libro – come lei stessa dice – è sicuramente il rapporto di amicizia che Francesca Valente ha intrattenuto con Luciano Sorrentino, il capo reparto. I racconti orali del medico nel corso di lunghe chiacchierate fatte a distanza di mesi hanno composto tutti insieme una pasta densa, che ora si è depositata per sempre nella lingua del libro, ma è il risultato visibile di «invenzioni a più voci». E l’amicizia tra il medico e la scrittrice non è neutrale, perché nelle terre abitate dai giusti non c’è niente che sia neutrale: questa amicizia sottostante alla narrazione propaga e allunga la coda dell’universo giusto, in cui persino il cantastorie narra con un rispetto fuori dall’ordinario, maturato lentamente, nel tentativo di portare in salvo la memoria di un amico e, tramite la sua, quella dei «paz». Mai e poi mai si ha l’impressione di un furto, mai e poi mai si ha l’impressione che questo racconto nasca dalla volontà di percorrere una strada facile, di strizzare l’occhio a una certa sensibilità, non c’è niente di affrettato o di semplice: è un cammino lento, frutto di un buon governo dove lo stile e la costruzione del libro prendono piede in maniera graduale, via via che il lettore si è adattato alle condizioni di aria e di luce di queste storie.
«Tutta la vita cercherà di colmare una differenza che non sa quale sia», dice la citazione in apertura, presa da Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia. In Altro nulla da segnalare ci sono svariate vite costruite in questo mondo, risalendo a sprazzi le esistenze degli ospiti del reparto, cercando di colmare una differenza che non si sa quale sia tra la minima fantasia che resta della vita di prima e ciò che si vede scritto adesso, tra le pagine del quaderno.
Si potrebbero fare molti esempi tecnici della procedura, ma uno per tutti è l’ingresso del personaggio di Debernardi, del quale si dice che è «un anarchico della vita, un molteplice singolare».
Dopo aver incastonato in mezzo al racconto dell’atteggiamento schizzato e violento dell’ospite due rapportini che riguardano le sue imprese, l’autrice devia per inseguire un ricordo immaginario di lui: ricostruisce quale memoria sia rimasta a Debernardi di un pomeriggio di tanti anni prima, quando si trovava a Mont Mars, sui Laghi della Barma, e ha visto un orbettino cadere nell’acqua. «Incerto se fosse vivo, Debernardi l’aveva guardato mentre con lentezza procedeva lungo la traiettoria che di sicuro si era prefissato, in quel piccolo cervello che pure c’era in punta al corpo, e ogni dubbio sulla sua vivezza era stato messo in fuga da lievi colpi di vertebre, placche ossee geniali, con cui insisteva a dirigere tutto se stesso scivolando per le cascatelle. Aveva poi imparato, Debernardi, che in caso di pericolo l’orbettino riesce come le lucertole a staccare la parte inferiore del corpo abbandonandola all’aggressore al solo scopo di distrarlo mentre lui, il resto di lui, fugge. Non è raro trovare esemplari adulti più corti della media, spezzati». Sono poche righe, ma arrivano nel punto giusto per dare a Debernardi una prospettiva storica, per restituirgli la vita di prima – avanti “repartino” –, una vita dalla quale basta sfilare un momento, un aneddoto, una visione per affezionarsi a un individuo, alla sua pelle. Nella scelta di che cosa sfilare, di che cosa illuminare, Francesca Valente si dimostra estremamente abile, così di atto in atto, di pomeriggio in pomeriggio, di svelamento in svelamento, il libro fila via veloce e si riempie di uomini non illustri. Parte del piacere della lettura sta nella carrellata, nel tentativo di indovinare quali comparse emergeranno fino a ricoprire un ruolo più centrale, fino a guadagnarsi la superficie.
Il contrasto tra lo stile asciutto dei rapportini (traforati di punti fermi) e questa lingua lirica e febbrile delle parti narrative è un ulteriore punto di forza musicale del libro, perché produce una tensione, una rincorsa a ritrovare dopo ciascun pezzo analogo quello successivo. E poi c’è ironia.
La maggior parte dei pazienti del “repartino” hanno una certa età, così l’epoca in cui si ambientano i fatti risulta sempre felicemente arretrata: si muove un passo avanti e un passo indietro. In molti casi, come per le montagne dell’infanzia del Debernardi, tra l’indietro e l’avanti tutto è cambiato, e allora si tratta di portare in salvo una doppia memoria perduta: non solo quella dei pazienti, ma anche quella delle cose. Ogni ricostruzione è accurata, filologica, dai cappotti alle macchine, dai negozi ai nomignoli. Il tempo è una cosa che per tutto il romanzo viene maneggiata con una grazia grande. E tra le tante presenze trasformate dal tempo ce n’è una forte che si staglia sullo sfondo di Altro nulla da segnalare: è la città di Torino. Come per ogni altro aspetto della prosa, anche qui non ci sono semplificazioni, la Torino degli anni Ottanta non è grigia, non corrisponde alla FIAT, non ha niente di francese.
È una città che si è ingrandita troppo in fretta, dove tra un quartiere e l’altro ci può essere una differenza di latitudine impensabile altrove. A un certo punto, Valente racconta che Luciano Sorrentino, dopo essersi messo d’accordo con la direzione generale, si reca nelle Officine Fenoglio della FIAT di via Cuneo, dove un tale Salvatore cammina ridacchiando avanti e indietro nell’infermeria da varie ore. «A tenere insieme il quartiere erano soprattutto i meridionali, pugliesi in particolare, ma anche calabresi, lucani, sardi, siciliani, immigrati dagli anni Cinquanta fino ai Settanta col Treno del Sole. Mau mau, terun, napule, come li chiamavano, che arrivati in città si trovavano davanti, affissi ai portoni di case derelitte, cartelli con la frase NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI, ché puzzavano e coltivavano pomodori nei bidè, e invece le avrebbero fatte vivere, quelle case, e avrebbero fatto funzionare le fabbriche e riempito l’aria di odore di frittata e voci di bambini, figli di Cerignola e Carmagnola, sabaudi intrisi di nostalgia». Sono descrizioni vivide e piene di sensibilità, che danno tre dimensioni al mondo dei giusti, un odore e un rumore; e per i torinesi si aggiunge un’emozione più profonda, come per il fatto di comprendere nella narrazione le vicende di alcuni cittadini notevoli, l’attore Carlo Colnaghi ad esempio. Per la cronaca, l’intervento di Sorrentino in fabbrica è risolutivo: Salvatore alla fine appoggia la testa sulla sua spalla, e il dottore lo abbraccia, «continuando a dirgli parole che lo tranquillizzassero senza sembrare troppo fesserie».
Allo psichiatra troppo umano, oltreché la dedica vera e propria del libro, è dedicato uno degli ultimi capitoli: l’autrice racconta in maniera cartesiana la sua vicenda di medico, il suo curriculum, perché il lettore si faccia un’idea di com’è andata, rintracci la fonte da cui sgorgano i giusti. Per il resto, un libro così non può finire, si tratta solo di stabilire dove recidere il cordone ombelicale, per ritornare alla vita e tenersi addosso ancora per un po’ il filtro di questo sguardo.
Se alla fine si prova una buona dose di nostalgia, il motivo è semplice: si è riso e si è pianto insieme, di tutti e per tutti, ma con rispetto parlando. Il libro di Francesca Valente si candida a essere già un classico, perché sembra venire da un’altra epoca. Non so se sia migliore o no della nostra, ma certamente vi regna un culto della giustizia praticato con eleganza e senza sconti.