Teatro greco di Siracusa / Aristofane secondo Ficarra & Picone
Soddisfare le aspettative di un pubblico ampio senza cedere per questo alla tentazione del mero intrattenimento non è una sfida semplice. Le vie che paiono a prima vista più facili – come quella di scegliere un nome di richiamo, meglio se consacrato da cinema o televisione – spesso rivelano fiato corto e prospettive strette. Per questi (e altri) motivi, la scelta di assoldare Salvo Ficarra e Valentino Picone per l’ultimo appuntamento del ciclo di rappresentazioni classiche al teatro greco di Siracusa è parsa a molti una trovata furba, e tutta orientata al botteghino.
Ma chi ha avuto la possibilità di vedere Le rane di Aristofane (esaurito per la maggior parte delle poche date, dal 29 giugno al 9 luglio) si è trovato di fronte un “piatto” complesso e bilanciato, capace di tenere insieme ingredienti apparentemente contraddittori: la regia misurata e poco propensa all’effetto di Giorgio Barberio Corsetti, una coppia rodata di comici televisivi, e un testo stratificato e pieno di riferimenti come Le Rane.
Lo spettacolo dimostra, fin dai primi istanti, il coraggio di cambiare qualche regola del gioco. Vedere l’ampio palco siracusano (spesso sovraccarico di strutture e orpelli) quasi del tutto sgombro è una prima sorpresa: la bella scenografia di Massimo Troncanetti si costruisce per gradi sotto gli occhi del pubblico, senza cedere all’ansia di creare meraviglia a ogni costo. Anche Ficarra e Picone si concedono un inizio quasi in minore, percorrendo l’ampio spazio circolare in un cauto botta e risposta: sono il dio Dioniso e il suo servo Santia, che cercano una via per scendere nell’Ade. Il rapporto dialettico servo/padrone tra i due personaggi (propositivo e un po’ borioso il primo; scansafatiche, furbo e lamentoso il secondo) ben si adattano alle consuete dinamiche del duo; e da questo punto di vista il testo aristofaneo – che non lesina botte e schermaglie verbali – sembra vestire a pennello sulla coppia siciliana.
Ma Le rane offrono ben più di una oliata partitura comica, e richiedono al regista e ai protagonisti un deciso intervento interpretativo. Il viaggio negli Inferi ha come obiettivo quello di riportare sulla terra un poeta tragico, e a Dioniso toccherà fare da giudice tra Eschilo ed Euripide, scegliendo chi tra loro è in grado di apportare maggiore beneficio alla polis. Ma se lo spettatore ateniese di allora ben conosceva i due autori che applaudiva ogni anno a teatro, come si può oggi rendere fruibile la complessa kermesse letteraria? Barberio Corsetti sceglie di non proporre forzate attualizzazioni, e tenta piuttosto di marcare i due ‘tipi’, lasciando il pubblico libero di sviluppare eventuali analogie: l’Euripide di Gabriele Benedetti è un dandy con foulard rosso, mentre l’Eschilo di Roberto Rustioni vanta una lunga barba da rabbino, e un cappotto nero e cupo come il suo carattere.
Solo alla fine, quando l’immaginario dello spettatore ha ormai avuto modo di procedere per libere associazioni, Corsetti consegna la propria visione: ed ecco apparire su uno schermo il giovane Pasolini e il vecchio Ezra Pound, in un brevissimo spezzone di intervista che chiude lo spettacolo.
L’atteggiamento cauto e rispettoso nei confronti del testo mostrato da Corsetti contagia gli stessi Ficarra e Picone, che si concedono solo pochi (e applauditissimi) ‘fuori programma’, per rientrare immediatamente nei binari dell’originale. La traduzione di Olimpia Imperio, attenta alle dinamiche del comico, consegna agli attori e al pubblico una drammaturgia dall’ottimo ritmo, con riuscite aperture metateatrali, e del tutto priva di certe pruderie traduttive che impediscono ancora oggi di apprezzare gli aspetti più grevi e pepati della commedia antica. Ma perché allora non aggiornare o tagliare – almeno in fase di creazione del copione – certi riferimenti minuti alla società dell’epoca (come Iofonte e Toricione, e altri sconosciuti)? I pochi appuntamenti drammaturgici mancati, non tolgono comunque l’impressione di uno spettacolo del tutto contemporaneo: tanto sul piano dell’estetica per nulla archeologica dell’allestimento, quanto su quella dei modi e dei ritmi attorali.
Fondamentale, in questa prospettiva, anche l’apporto del gruppo musicale “Sei Ottavi”, al quale si deve una partitura sonora tutta vocale che accompagna l’intero spettacolo: il celebre coro onomatopeico delle Rane (“brekekekèxkoàxkoàx”) prende così vita in un motivetto irriverente e leggero che si insinua nelle orecchie degli spettatori, mentre l’ottimo Corifeo Gabriele Portoghese guida le danze del Coro degli Iniziati. A emergere, in definitiva, è un ben assestato lavoro di squadra: gli applausi calorosi rivolti all’intera compagnia confermano come queste Rane non vadano considerate uno show costruito a tavolino per due divi del piccolo schermo, e come la scommessa di parlare a un pubblico ampio e composito si possa considerare vinta.
Il tema della commedia aristofanea, del resto, incoraggia riflessioni fuori e dentro la scena: il dibattito infero ha come oggetto proprio il ruolo dell’arte in relazione alla polis, e la capacità del teatro di incidere sulla vita (e sui gusti) del cittadino. E oggi? Quale Eschilo andrebbe premiato per la sua capacità di parlare alla comunità? Ed esiste un teatro capace di comunicare alla polis nella sua interezza?