Autoritratto con spettatore
Il vastissimo tema dell’autoritratto è stato affrontato più e più volte dagli storici dell’arte e della fotografia con approcci molto diversi tra loro: quale storia artistica e sociale da James Hall, L’autoritratto. Una storia culturale (Einaudi, 2014); in chiave psicologica da Stefano Ferrari, Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia (Laterza, 2002); come un’evoluzione di problematiche e concetti in L’arte dell’autoritratto. Storia e teoria di un genere pittorico di Omar Calabrese (La Casa Usher, 2010); e via elencando. Enorme e ultra-variegata è infatti la produzione artistica di autoritratti: da quelli antichissimi, scolpiti verso il 2650 a.C., e poi trovati nella tomba di Ptahhotep, presso le piramidi di Saqqara, fino ad arrivare ai pluri-analizzati selfie che invadono i nostri computer e pure la nostra vita… Da quale angolatura affronta quindi l’autoritratto la storica dell’arte Gabriella Giannachi nel suo nuovo libro, Autoritratto. Storia e tecnologie dell’immagine di sé dall’antichità al selfie (Treccani, traduzione di Elisa Dalgo, pp. 304, € 23)? Per prima cosa va detto che quest’autrice, di origine italiana, scrive in inglese ed è docente di Performance e New Media, nonché direttrice del Centre for Intermedia and Creative Technologies all’University of Exeter (Inghilterra).
Questa sua collocazione la porta ad assumere un approccio accademico ben documentato, con tanto di note al seguito, ma anche ad analizzare, assieme a molti autori noti di fama internazionale, un folto gruppo di artisti di area anglosassone meno conosciuti in Italia (cosa che già di per sé rende il libro interessante), nonché ad avere vaste competenze sull’uso dei nuovi media. Si tratta di conoscenze precise che lei dispiega negli ultimi due capitoli finali: uno dedicato ai “video-autoritratti “ e l’altro al “selfie”.
Capitolo, quest’ultimo, dove l’autrice analizza come questo rituale sociale, basato sulla condivisione e il collegamento con una comunità virtuale di utenti, sia stato usato da molti artisti per creare lavori partecipativi. Inoltre, racconta come stiano avendo sempre più successo alcuni stravaganti “musei” – come il Selfie Factory di Londra o lo statunitense Museum of Ice Cream – che offrono, a pagamento naturalmente, la possibilità di autoritrarsi in ambienti bizzarri e “divertenti”, tra cui un “grazioso” e fintissimo vagone della metropolitana, tutto rosa confetto, o una vasca da bagno rigurgitante di leggere palline colorate: selfie che poi vengono caricati su Instagram, in modo da dimostrare al mondo intero quanto si sia spiritosi, allegri e trendy. Tutte virtù evidentemente apprezzatissime nel mondo del web.
Ma torniamo al particolare punto di vista scelto da Giannachi per analizzare il vasto ambito artistico dell’autoritratto: per lei infatti si tratta innanzitutto di comprendere come l’autorappresentazione di sé venga realizzata non solo come pratica fine a se stessa, ma anche, o soprattutto, in funzione della sua ricezione da parte dello spettatore. Al cuore della sua analisi c’è infatti il concetto, molto in voga nel mondo anglossassone, della relatability (relazionabilità), cioè di come l’autorappresentazione dell’artista – che sia o no pensata come un’indagine sul proprio sé molteplice e sfuggente – nasca anche in previsione della sua percezione, «come un ipotetico “essere visti” nel futuro» e come «un atto di compresenza» con l’osservatore. Ciò non toglie che l’autrice segua un percorso più o meno cronologico a partire dal tema dell’autoritratto tramite specchio, per poi concentrarsi sull’autoritratto fotografico, quindi su quello scolpito (inteso in senso ampio), fino ad arrivare, appunto, al selfie, passando tra installazioni, performance, video, quadri, sculture, fotografie, computer e telefoni cellulari.
Già fin dal primo capitolo, “L’invenzione dell’autoritratto”, si capisce come tale “invenzione” si declini in molteplici direzioni, tanto da rendere impossibile rispondere in modo preciso alla domanda: “che cos’è un autoritratto?”. Certo, con l’autoritratto molti artisti mettono in gioco se stessi e il proprio vissuto in modo intimo e introspettivo (basti pensare ai lavori di Frida Kahlo), ma altri paiono più intenzionati a “farsi riconoscere” (portandoci cioè a esclamare: “ma guarda, quello è lui!”) e a mettere in luce la propria fama e bravura. Tra questi troviamo nel passato un vasto numero di artisti che si autorappresentano nei ruoli più disparati, usando se stessi come modelli. Artemisia Gentileschi, tanto per fare qualche esempio, si autoritrae come allegoria della pittura; Masaccio nei panni di un apostolo; Raffaello in quelli del pittore greco Apelle… Già a quei tempi – è ovvio – la pulsione narcisistica non scherzava, così come il bisogno di dimostrare in eterno la propria notorietà. Il massimo del virtuosismo talentuoso però lo raggiunge l’artista austriaco Johannes Gumpp con il suo Autoritratto (1646), dove lui si rappresenta di spalle mentre si osserva allo specchio, per autoritrarsi però in un dipinto dal quale occhieggia un po’ malizioso verso lo spettatore. Gumpp realizza così una sottile e raffinata mise en abyme, perché ci pone di fronte a una moltiplicazione del soggetto, diviso tra un sé riflesso, un sé dipinto e un sé “reale”, ma raffigurato di spalle e dunque invisibile. Quale immagine sarà dunque quella più fedele a lui stesso? Ma sarà davvero fedele? Pittore un po’ enigmatico, vissuto pare fino a 102 anni, ma che ha lasciato poche opere, Gumpp in questo dipinto è come se volesse anche rivelare la sua gigantesca perizia artistica: ovvero ritrarsi due volte perfettamente identico, ma con un leggero scarto nello sguardo: da un lato mentre si osserva allo specchio e dall’altro, quello dipinto, mentre pare occhieggiare verso lo spettatore. Insomma lui si esibisce come una sorta di Giotto che, oltre a creare un cerchio perfetto, riesce a farne due identici.
La famosa frase di Arthur Rimbaud Je est un autre – la quale indica come il soggetto erri nell’universo dell’alterità, a contatto con la presenza inquietante dell’Altro che abita il sé e che agisce in modo imprevedibile e perturbante, al di là della propria consapevolezza – verrà poi messa sempre più in gioco nell’autoritratto fotografico. Veniamo qui a un capitolo dove Giannachi si concentra su una serie di artisti che, nelle loro opere, mettono in scena identità multiple e ibride di fronte alla macchina fotografica. Identità spesso costruite ad arte perché in molti casi l’artista punta a riflettere sulla molteplicità dei suoi “sé” oppure a usare il proprio corpo o il proprio volto per mettere in scena e sottolineare problematiche sociali o razziali, stereotipi o aspetti politici. In sintesi, i loro sono spesso “autoritratti non del tutto autoritratti” (se posso definirli così), perché basati sullo spiazzamento e lo scarto perturbante tra la propria presenza molteplice o tra le altre tematiche che vengono di volta in volta messe in campo. Un esempio sommo di tal modo di operare – che la nostra autrice prende in considerazione – è quello di Claude Cahun (nome d’arte di Lucy Schwob,). Nome d’arte già rivelatorio del suo sentirsi ambiguamente sospesa tra maschile, femminile e neutro, dato che “Claude”, in francese, è riferibile sia al maschile sia al femminile.
Pur non essendo Lucy Schwob davvero ebrea (lo era solo da parte della nonna paterna), ecco che lei sceglie per sé – in modo provocatorio e coraggioso, visto il periodo in cui il vento dell’antisemitismo stava crescendo con violenza – il cognome Cahun, forma francese di Cohen, termine che indica i discendenti dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme. In pratica un cognome che è già un manifesto del suo voler presentarsi quale ebrea. Lei si rade i capelli, si traveste da uomo, da bambola, da meditante buddhista, si moltiplica in modo proteiforme. «Sotto questa maschera un’altra maschera. Non finirò mai di scoprire tutti questi volti» – dichiara Claude Cahun (in: Silvia Mazzucchelli, Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica, Johan & Levi, 2013).
In una sua immagine-simbolo del 1920, la vediamo di spalle, con una canottiera nera, la testa rasata a zero e di profilo, in modo che sia ben visibile il suo “ebraico” naso aquilino e la forma del cranio “semitica” (ovvero ovale, allungata, e non tonda come quella di un vero ariano, per riprendere distinzioni care ai razzisti). Qui l’atto dell’essere «presenti si concretizza nella rappresentazione del soggetto come altro» – scrive Giannachi. Un altro che crea disagio ed esibisce ciò che risultava socialmente riprovevole (l’essere lesbica ed ebrea). Ma così facendo l’artista rovescia la propria autoraffigurazione in una presenza capace di imporsi in tutta la decisione del suo voler presentarsi proprio così, e nella sua dichiarata ambiguità di genere.
Un’operazione, la sua, che ricorda la pratica della contemporanea artista sud-africana Muholi (Muholi. A Visual Artist, a cura di Biba Giacchetti, Mudec, Milano, fino al 30 luglio 2023). Lei (o them, come ha scelto di essere chiamata per sfuggire a ogni appartenenza di genere) si autoritrae, ad esempio, con in testa e al collo una corda identica a quelle che venivano usate nelle impiccagioni dei neri nel suo Paese. Ma lo fa raddoppiandone e rovesciandone il senso: nel suo autoritratto la corda al collo infatti si presenta come un grande fiocco, e quella in testa come un turbante da cui pendono inquietanti pinze metalliche simili a giganteschi orecchini. Il suo è un mostrare la sofferenza nera del passato per metterla di fronte all’osservatore come una resistenza tenace, come un atto di forza e dolore. «La mia pratica di attivista in ambito visivo si concentra sulla resistenza nera, che è sia esistenza sia insistenza» – riporta Giannachi.
La tendenza al travestitismo, ad assumere ruoli diversi, a compiere metamorfosi interpretative, diviene spesso – nelle autrici – anche una pratica per affrontare in modo paradossale o provocatorio la tematica degli stereotipi femminili esistenti nella società e nella storia: lo vediamo bene, ad esempio, nelle opere di Valie Export, Leonor Antin, Hannah Wilke o nella notissima Cindy Sherman. Per quel che riguarda quest’ultima, lei usa se stessa non per interrogarsi sulla propria identità, ma su quella femminile, veicolata dai film (come in Untitled Fill Still), oppure per ripercorrere, in modo volutamente comico, grottesco e perturbante, gli stereotipi femminili rinvenibili nella storia dell’arte. Qui, lo scandalo della sessualità femminile e della vecchiaia – rimosso nelle tipiche raffigurazioni di sante devote e vergini asessuate, eternamente giovani – si ripresenta beffardo tra seni flaccidi e pose erotiche o sguaiate.
Di travestimento in travestimento (siamo nel capitolo finale del libro, “ Selfie”), incontriamo anche la recente messa in scena dell’artista Amalia Ulman che, sfruttando il bisogno vorace degli utenti di Instagram di partecipare alle storie altrui, si trasforma in una influencer fittizia, con tanto di storia classica: partenza che la impone come una personalità da imitare e con cui identificarsi, dramma e happy end. Dapprima la incontriamo infatti nelle sembianze di una modella adorabile e vezzosa; poi la vediamo mentre cade nelle trappole della droga, della depressione e dell’insoddisfazione rispetto al proprio corpo; sofferenze da cui riemerge infine con l’aiuto dello yoga e di un centro di disintossicazione. Qui il pubblico, oltre a partecipare tra like e commenti, viene pure coinvolto in una parte di storia volutamente lacrimevole, così da suscitare reazioni corali di solidarietà gratuita. Attraverso l’uso di archetipi mainstream e di personaggi già entrati nell’immaginario collettivo, Amalia Ulman dimostra – secondo Giannachi – «come i post di Instagram possano essere fabbricati ad arte per provocare reazioni prevedibili».
Ma simili reazioni sono sollecitate anche dal desiderio collettivo di autoritrarsi e di essere ritratti. È questo il caso che incontriamo con i lavori di Rafael Lozano-Hemmer . Con l’opera Zoom Pavillion (2015) – realizzata in collaborazione con Krzysztof Wodiczko – Lozano-Hemmer crea, ad esempio, un’installazione audiovisiva interattiva, in cui varie telecamere di sorveglianza riprendono il pubblico. I visitatori dell’installazione, in questo modo, si possono riconoscere mentre sono riproposti nello spazio, come se partecipassero a un raduno in divenire. Se da una parte l’opera rivela le possibilità di controllo degli algoritmi di riconoscimento facciale, dall’altra spinge inesorabilmente i visitatori a ritrarsi gioiosamente con i propri cellulari, così come si vedono rappresentati sulle pareti della sala.
Giannachi, ovviamente, aveva già affrontato a fondo il tema della relatability (“relazionabilità”) che guida il libro. Lo aveva fatto grazie alle opere di quegli autori che, tra gli anni ’80 e ’90, si erano cimentati con i video e la performance. Si tratta di artisti che giocavano concretamente tra le proprie azioni e le reazioni degli spettatori, trasformati a volte essi stessi in autori. Qui l’autoritratto diviene infatti un processo performativo che non solo coinvolge il pubblico, ma che può essere colto solo attraverso l’altrui percezione. Giannachi compie dunque un’ampia analisi delle opere di Dan Graham, Garry Hill, Joan Jonas e Lynn Hershman Leeson. Si tratta di azioni artistiche e di video che però – va detto – si fa un po’ fatica, da lettori, a immaginare e a capire con chiarezza, data l’impossibilità di visionare le opere raccontate da Giannachi (il suo libro, peraltro, contiene anche poche illustrazioni, e tutte in bianco e nero). Si tratta di opere che – in quanto eventi o performance – richiedevano appunto una partecipazione attiva da parte dei visitatori. E questo coinvolgimento un libro non lo può certo riprodurre. Basti dunque l’esempio di un’opera descritta dallo stesso autore, cioè Dan Graham: «Sono rivolto al pubblico. Comincio descrivendo me stesso – le mie caratteristiche esterne – senza mai interrompermi, ma guardando in direzione del pubblico. Continuo per otto minuti. Poi osservo e descrivo fenomenologicamente l’aspetto esteriore del pubblico per altri otto minuti. Quindi smetto, e poi ricomincio a descrivere le reazioni del pubblico». Il tutto, quindi, è basato su un’alternanza per cui si parte da sé, per poi connettere quest’autorappresentazione per contaminarla con le reazioni del pubblico che osservano l’artista e partecipano alla performance.
Forse meno interattivo, ma senz’altro interessante – anche perché analizzato in misura minore dagli storici dell’arte – è invece un altro ampio capitolo del libro, dedicato all’autoritratto scultoreo: qui troviamo, tra le altre, approfondite analisi delle opere di Orlan, Stelarc, Antony Gormley, ma anche di Giuseppe Penone. Un lavoro di Penone, Soffio (1978), diviene quasi un emblema di come l’autoritratto possa anche non comprendere affatto la rappresentazione del volto (sia esso realistico, truccato, travestito, modificato o manipolato) dell’artista che si autoritrae. L’opera di Penone si presenta infatti come una sorta di anfora con un’imboccatura a forma di bocca e segnata dall’impronta di una sua gamba. Anfora, che stando alla dichiarazione dell’artista, ha la forma del suo fiato quando espira. E il respiro non è in fondo una delle parti più intime e più vere che indicano la nostra esistenza? Con quest’opera – così come con Model (2012) di Gormely, in cui il corpo dell’artista è riproposto come una forma architettonica in cui i visitatori possono entrare – Giannachi evidenzia una volta di più come molte opere siano interconnesse con la ricezione e la partecipazione reale o immaginativa del pubblico. Di più: la nostra autrice infatti ci fa capire come l’autoritratto riguardi anche il corpo, la pelle (basti pensare all’opera Svolgere la propria pelle, di Penone) o gli organi che ne determinano la vita come, appunto, il respiro. Addirittura un autoritratto del respiro? Probabilmente non l’avevamo mai pensato. Ma alcuni artisti sì, si sono spinti fino a questo limite. E Giannachi giustamente ce lo fa notare.
Leggi anche:
Silvia Mazzucchelli, Claude Cahun: un’aria di famiglia
Maria Nadotti, Muholi: fotografa attivista visiva