Bevo, dunque sono

8 Ottobre 2022

Tex Willer alcolista? E persino tabagista? E, nientepopodimeno, istigatore al vizio per implumi e vulnerabili giovani che leggono le sue storie? Roba da non credere. Tutto questo lo si sarebbe scoperto nell’albo n. 458 del dicembre 1998 (Sulla pista di Fort Apache) in cui Tex – il più longevo e amato eroe del fumetto italiano, il Ranger che gli indiani Navajos chiamano Aquila della notte, saggio capo bianco e fratello di ogni uomo rosso, ecologista avanti lettera, antischiavista, nemico di ogni ingiustizia – si lascia sfuggire, dopo una giornata di pistolettate, che fumare gli distende i nervi e approva, in “colpevole” silenzio, la battuta del compagno di avventura che dice: «le idee migliori vengono sempre davanti a una bottiglia». 

Tutto ciò venne, all’epoca, notato dal Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e la tutela dei diritti di utenti e consumatori), da un non ben identificato funzionario, evidentemente attento lettore di fumetti western (ci immaginiamo un Alberto Sordi in versione compagnuccio della parrocchietta) che intimò al presidente dell’Autorità sulle Telecomunicazioni di “ordinare l’immediato ritiro dal commercio dell’Albo Tex in questione” perché avrebbe lanciato “un messaggio palesemente scorretto, ineducativo, fuorviante e pericolosissimo per i giovani lettori”. Nella denuncia veniva anche chiesto alla magistratura di accertare se l’editore di Tex, Sergio Bonelli, in concorso con la Federazione degli Editori accusata di non aver esercitato i poteri di controllo sulla pubblicazione, avesse commesso i “reati previsti dagli articoli 689 e 730 (comma 2) del Codice Penale”, quelli che puniscono la somministrazione ai minori di alcol e tabacco. 

Non sappiamo se, un quarto di secolo dopo il “fattaccio”, il funzionario in questione sia andato in pensione o meno, o se sia lo stesso che, più tardi, ha tentato di denunciare un altro eroe dei fumetti, Corto Maltese, perché “colpevole” di subliminali inviti al fumo. In ogni caso vorremmo suggerire, a chi volesse intraprendere una carriera di censore, una lettura istruttiva, un libro che dovrebbe far parte dei testi obbligatori per il cursus honorum di qualsivoglia categoria professionale: si tratta del recentissimo Sbronzi, sottotitolo Come abbiamo bevuto, danzato e barcollato sulla strada della civiltà, di Edward Slingerland (editore UTET, traduzione di Francesco Zago).

Homo imbibens

Innanzitutto una precisazione: Sbronzi non è un libro goliardico sull’argomento “alcol”: in oltre trecento pagine di testo, e ottanta fra bibliografia e note, Slingerland, professore di filosofia presso l’Università della Columbia Britannica, esperto di religioni e filosofie orientali, dimostra, con fatti e ricerche accademiche alla mano, che la storia del bere è, in fin dei conti, la storia dell’umanità, e che senza l’ebbrezza, non avremmo avuto la nascita della civiltà di cui tanto ci vantiamo. 

In cinque capitoli che partono dalla domanda “Perché ci ubriachiamo?” – passando attraverso il rapporto tra ebbrezza e creatività, estasi liquida e coscienza collettiva, sesso, amicizia e intimità – l’autore confuta il calderone di leggende metropolitane e di aneddotica varia relativa all’argomento alcol, fornendo una spiegazione rigorosa e scientificamente fondata del nostro amore per quel tipo di bevanda. Un viaggio, insomma, attraverso l’archeologia, la storia, le neuroscienze, la psicofarmacologia, la psicologia sociale, la genetica, la poesia, la letteratura con cui Slingerland dimostra che il nostro amore per l’ebbrezza non è un errore evolutivo, ma è piuttosto l’elemento che ci ha permesso di affrontare una serie di sfide squisitamente umane e compiere il miracolo di far cooperare tra loro le tribù primitive, giocando così un ruolo cruciale nella formazione delle società. La sua principale argomentazione è che ubriacarsi, sballarsi, o raggiungere un qualunque stato cognitivo alterato, deve aver aiutato gli individui, nel corso dell’evoluzione, a sopravvivere e a prosperare, e le culture a durare ed espandersi.

L’uomo è un animale nato per ubriacarsi

Certo, scrive Slingerland, se preso a dosi moderate, l’alcol può renderci allegri e socievoli, mentre in dosi massicce può essere davvero nocivo. L’ebbrezza alcolica produce uno stato mentale alterato, caratterizzato da ridotto autocontrollo e da euforia o depressione, causato da una temporanea compromissione di un’ampia porzione del cervello. «L’assunzione di alcol», continua «compromette le capacità cognitive e motorie, danneggia il fegato, uccide le cellule cerebrali, induce a ballare e flirtare in modo sconsiderato, favorisce l'aggressività e altri comportamenti ancora più deprecabili: inizieremo a biascicare, a discutere in modo sempre più acceso, a uscircene con sdolcinate dichiarazioni d'amore, a palpeggiare qualcuno in modo inappropriato o magari addirittura a esibirci al karaoke. Per non parlare dei postumi». 

A proposito dei quali, fra parentesi, il miglior rimedio apparente resta sempre quello letterario proposto da Jeeves – l’impareggiabile maggiordomo creato dalla penna di P.G.Wodehouse – svelato il primo giorno di lavoro al servizio del gentiluomo Bertie Wooster alle prese con un postumo di sbronza, appunto: «È una piccola preparazione di mia invenzione», spiega Jeeves. «La salsa Worchester le dà il colore, l’uovo crudo la fa nutriente, il pepe rosso le dà il piccante». Pare che l’effetto sia dirompente.

Dunque, se compromettere il controllo cognitivo comporta costi potenzialmente enormi e non offre alcun beneficio apparente, perché, si chiede Slingerland, agli uomini piace così tanto inebriarsi? Con quali strumenti culturali possiamo darci una risposta? Secondo il gastronomo francese Brillat-Savarin, la propensione dell’uomo ad alzare il gomito, è «ben degna di fermare l’attenzione dell’osservatore filosofo». Senza dimenticare, aggiungeremmo noi, la necessità di uno sguardo sociologico “riassuntivo”, perché è vero che la storia può dirci quando e con cosa ci siamo ubriacati, ma è solo se prendiamo in esame tutti i possibili “sguardi” interdisciplinari (storici, scientifici, antropologici, filosofici che siano) che potremo capire «non solo perché desideriamo ubriacarci, ma anche in che modo potrebbe farci bene prenderci una sbornia di tanto in tanto».

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Una mente libera di vagare

Se da una parte, dunque, l’alcol è il re incontrastato dell’ebbrezza, recenti studi di psicologia condotti dall’équipe del professor Andrew Jarosz dell’Università statale del Mississippi dimostrano che, se usato in dosi contenute o moderate, finirebbe col creare un nesso diretto con l’incremento del pensiero laterale, creativo e artistico. «Una mente libera di vagare», scrive Slingerland «è una mente capace di produrre intuizioni creative». 

A riprova, racconta della sua visita alla whisky room aziendale nel campus di Google, il luogo dove, ricorda, i programmatori si rifugiano, in gruppo, per farsi un goccetto e cercare l’ispirazione quando devono superare un blocco creativo. Ma attenzione, aggiunge, il “segreto” è che la whisky room (così come il pub, il bar o qualsiasi altro luogo di aggregazione sociale fornito di alcol) non è un posto dove bere da soli. I programmatori di Google, quando si trovano di fronte a problemi apparentemente insormontabili, usano la whisky room in squadra, come incubatore per la creatività collettiva, come luogo per fuggire dai monitor, rilassare la mente e ideare nuove soluzioni.

Riducendo il controllo cognitivo, scrive Slingerland, e innalzando l’umore e l’energia, l’alcol non solo apre la mente all’intuizione creativa, ma aiuta a rischiare di più e abbatte anche la barriera che impedisce di comunicare le nostre intuizioni agli altri. Idee “stupide” sembrano meno sciocche dopo un secondo bicchiere.

Non è un caso, quindi, che l’alcol l’abbia fatta da padrone nel corso della nostra storia. Si tratta, ricorda Slingerland della sostanza inebriante di gran lunga più diffusa, popolare, user-friendly, flessibile e versatile che l’umanità conosca. «Se incaricassimo un’équipe di ingegneria culturale di elaborare una sostanza con caratteristiche mirate a massimizzare la creatività individuale e la cooperazione di gruppo, il risultato sarebbe qualcosa di molto simile all’alcol. Una molecola semplice. Facile da ottenere a partire da quasi tutti i carboidrati. Di facile consumo. Conservabile. Dosabile con precisione». 

Chi non beve in compagnia...

A questo proposito è interessante leggere la ricerca sul tema della cosiddetta “invenzione collettiva” curata dall’economista Michael Andrews dell’Università del Maryland, dal titolo Bar Talk: Informal Social Interactions, Alcohol Prohibition, and Invention (“Chiacchiere da bar: interazioni sociali informali, proibizionismo e invenzione”: il testo è rintracciabile a questo link) che documenta il modo in cui le interazioni sociali informali e casuali siano il motore dell’innovazione e della crescita, in modo particolare nelle aree urbane densamente popolate, soprattutto se al loro interno si trovano industrie e istituzioni accademiche.

Non è un caso, scrive Andrews, che gran parte della moderna industria informatica sia emersa da un gruppo informale di ingegneri che si riuniva, nei primi anni della nascita del settore high tech, in un ritrovo di Menlo Park, The Oasis, nel cuore della Silicon Valley (ha chiuso i battenti nel 2018), nei pressi dell’Università di Stanford. Lo stesso “bar and grill” dove si riunivano anche i membri del leggendario Homebrew Computer Club, circolo noto per aver annoverato tra i suoi membri le maggiori figure di spicco del mondo informatico dell’epoca, tra cui i fondatori di Apple, Steve Jobs e Stephen Wozniak.

Ma torniamo a Slingerland e al racconto di un interessante esperimento empirico a cui aveva assistito negli anni novanta, al termine dei seminari che frequentava in università, quando studenti e professori si trasferivano in massa al pub del campus, dove il dibattito avviato in aula proseguiva davanti a boccali di birra e stuzzichini. «Diversi anni dopo essere entrato alla University of British Columbia, che era stranamente sprovvista di locali dove riunirsi e bere in modo informale, venne finalmente aperto un grande e accogliente pub. Il locale, fra l’altro, si trovava proprio accanto alla fermata dell’autobus, un posto ideale per ritrovarsi alla fine della giornata prima di tornare a casa. Alcuni di noi pensarono di istituire una riunione settimanale il venerdì pomeriggio. Eravamo un gruppo variegato, e non c'era alcun ordine del giorno, a parte bere qualche drink, mangiare qualche salatino e fare quattro chiacchiere. Nei due anni successivi, però, le idee e i rapporti di collaborazione generati in quelle riunioni al pub portarono all’apertura di un nuovo dipartimento, un finanziamento federale di tre milioni di dollari, una pubblicazione vincitrice di un premio, una lunga serie di studi di notevole impatto e il progetto di un nuovo importante database. È esattamente per questo motivo che, nei college di Oxford, le serate di discussione e dibattito si aprono ufficialmente con il motto latino Nunc est bibendum (“È ora di bere”)».

 

Contrordine compagni: tutti in ufficio

Questo è anche il motivo per cui tutte le grandi società di informatica, da Google a Apple, vogliono che, in questo dopo pandemia da Covid-19, il loro personale torni a lavorare in presenza e non da remoto, nel cosiddetto smartworking. Non ci sono, infatti, dati certi, ma è abbastanza intuibile come chi ha lavorato da casa, interagendo con i colleghi solo tramite computer, si sia sentito non solo alienato e disconnesso, come uno studente in dad, ma è altamente probabile che abbia prodotto meno intuizioni creative in mancanza dello stimolo fornito dalle discussioni a ruota libera, imprevedibili e, quindi, potenzialmente innovative.

Certo, sarebbe magnifico, scrive Slingerland, «se Zoom prevedesse una funzione che permettesse di sincronizzare le luci e la musica di casa vostra con quelle del vostro potenziale partner in affari o di ricerca, mentre le vostre cortecce prefontali (PFC) vengono simultaneamente bersagliate da una scarica magnetica transcranica. Nell’attesa che gli sviluppatori di Zoom implementino questo upgrade, tuttavia, il buon vecchio alcol, consumato in presenza e in un ambiente rilassato, rimane la tecnologia culturale più semplice ed efficace di cui disponiamo».

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