Biennale: il corpo, il video

1 Luglio 2022

Rossa è la seconda edizione della Biennale Teatro diretta da Ricci/Forte. Anzi Rot, perché la parola tedesca ha un suono più duro, “è un graffio, una lacerazione” scrivono i direttori sull’imponente catalogo color fiamma. “Rot è il rosso che acceca, la metamorfosi della passione, furia che avvampa…”. Ed è naturalmente il sangue che scorre nelle tragedie delle migrazioni, della guerra, in quelle consumate tra le mura domestiche.

Il corpo sembra il protagonista assoluto dei primi spettacoli, anche quando in questa nostra era ipertecnologica viene sottratto come presenza reale, in spettacoli di docu-fiction che danno spazio a forme di cinema e video dal vivo. Un corpo evocato continuamente, scavato fin sotto i confini della pelle, esplorato nelle aggressioni che subisce, ma spesso trasferito in immagini cinematografiche. Gli attori lo fanno riemergere reale apparendo in scena e poi di nuovo lo occultano dietro schermi che celano i momenti più intimi, da farci spiare attraverso riprese video. È il corpo espulso, il corpo violentato, il corpo precario, è quello algido delle pratiche pornografiche che rendono icone i rapporti di dominio e sottomissione.

Questa premessa serve a tracciare fili del disegno di un Festival che si completerà solo domenica 3 luglio, con vari eventi che accompagnano gli spettacoli principali, debutti di vincitori di selezioni riservate ai giovani dei College, reading poetici dedicati ad Alda Merini, performance site-specific.

The Listening Now, ph. Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia
The Lingering Now, ph. Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia.

 

Il cinema domina in The Lingering Now / O Agora que Demora (L’eterno ora) della brasiliana Christiane Jatahy, Leone d’oro di questa edizione della Biennale Teatro. Laureata in teatro e giornalismo, con un master in arte e filosofia, la regista fonde tutti questi interessi nei suoi spettacoli, che spesso partono da un riferimento classico per affrontare nodi brucianti del presente. La scenografia è costituita solo da un grande schermo e lo spettacolo si avvia come un film. Il riferimento classico in questo caso è l’Odissea, in una fin troppo facile sovrapposizione con le vicende dei migranti. Jatahy non sceglie di concentrarsi su una storia o su una situazione: lavorando con una compagnia multinazionale e usando la mobilità che il mezzo cinematografico permette ci porta in diversi mondi, la Siria squassata dalla guerra civile, la Palestina, il Sudafrica delle township, ma anche il Belgio degli emigrati italiani, il suo Brasile, dove il nonno arrivò fuggendo dalla dittatura portoghese di Salazar, e l’Amazzonia, dove i nativi sono costretti a farsi fuggitivi dalla propria terra.

Montaggi incrociati ci portano attraverso differenti situazioni, con una sovrapposizione abbastanza forzata e prevedibile ai racconti delle peripezie di Odisseo, in uno spettacolo che all’inizio poco sorprende, dando l’impressione di un accorto montaggio di situazioni note, neppure troppo approfondite. 

 The Listening Now, ph. Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia
The Lingering Now, ph. Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia.

 

Lo scatto avviene quando gli attori iniziano ad apparire in mezzo al pubblico, quando una telecamera li inquadra, e allora la memoria del film diventa testimonianza presente, più incisiva. Suonano chitarre, accendono qualche momento festoso tra gli spettatori, costituiti in gran parte dai giovani apprendisti attori o critici o registi dei laboratori della Biennale College. Gli attori ballano in mezzo al pubblico e coinvolgono a danzare, tra le sedie, senza assolutamente scardinare la forma e la gerarchia della sala all’italiana. Solo fanno alzare e muovere, sul posto, gli spettatori, dando un’illusione di libertà, di festa, di comunicazione.

Sono molte le insidie di questo spettacolo, ripeto non molto originale, senza neppure tutti i falsi piani e gli specchi dei migliori lavori di Milo Rau, che sarà presente in chiusura del Festival con The New Gospel, ancora cinema teatro (ci sono anche Deflorian/Tagliarini con Sovrimpressioni e il Leone d’argento Samira Elagoz con Seek Bromance, storia d’amore trans).

Alla fine i giovani spettatori, entusiasti, tributano una standing ovation alla compagnia, che ha portato nelle devastazioni della guerra di Siria e nelle lacerazioni di un Brasile dove la democrazia è sempre fragile, in un percorso tra l’attualità e la memoria. Piace molto questo format a una generazione cresciuta a talk show e reality show. Ancora di più per quelle rotture: il ballo, i volti di bambini che ci guardano intensi dallo schermo, il racconto di Yara che dal video diventa confessione in sala, sommessa, vicina a te, danno l’impressione di una vicinanza, un’empatia. C’è molta voglia, mi sembra, di appassionarsi, di provare sentimenti, anche se solo in superficie. E ci si accontenta, con entusiasmo e urletti di consenso, di un teatro documento, di un performance-reportage non particolarmente originale né approfondito, che fa leva sul bisogno di provare sentimenti politici. 

Broke House, ph. Ves Pitts.
Broke House, ph. Ves Pitts.

 

Broke House rientra in un’altra delle categorie che improntano il programma del festival, il multimedia happening. È una creazione del Big Art Group, formazione che si è fatta conoscere in Italia già da una ventina di anni fa tra Polverigi e Modena. Il regista Caden Manson e i suoi collaboratori da sempre lavorano a trasformare la presenza in immagini digitali. Sul catalogo leggiamo: “Il corpo si estende oltre la carne. Il corpo è plurale. È una matrice di pixel, frequenze, avatar e server”. 

Nello spettacolo ci troviamo di fronte a una casa elettronica, fatta di pannelli che si accendono di colori vividi, di immagini cangianti, rivelando (e nascondendo) i personaggi. Questa casa, dove vive una famiglia allargata contemporanea, dove ruoli e confini di genere sono abbastanza labili, è un luogo decaduto, una “casa rotta”, un rifugio pericolante come in Grey Gardens dei fratelli Maysles, dove veniva raffigurata la condizione di recluse di madre e figlia, zia e cugina di Jacqueline Kennedy Onassis. Qui a muovere le reticenti azioni dello spettacolo, a snidare figure appassite, travolte dalla vita, sbiadite e molto trash, che guardano anche alle Tre sorelle di Čechov, è la telecamera di un onnipresente documentarista. 

Davanti a questo ulteriore viaggio tra teatro e invenzione video matura un pensiero affacciatosi per The Listening Now. Nella tragedia greca, in Shakespeare e in genere nel teatro classico erano il capriccio degli dèi, il delitto, l’odio familiare, la brama di potere a mettere in moto macchine infernali. Poi è stata l’economia a scatenare appetiti o a respingere vite nell’emarginazione. Ora ad accendere le dinamiche teatrali è la telecamera, quell’occhio che spesso ci scruta realmente o che comunque immaginiamo presente per le nostre messe in scena quotidiane. 

Broke House, ph. Ves Pitts.
Broke House, ph. Ves Pitts.

 

Da quella casa – scopriamo – quasi tutti sognano di fuggire, in modi improbabili, sognando, cercando di spezzare i vincoli, senza riuscire a muoversi di un solo centimetro. E lo stesso edificio rifugio esiste finché l’illusione resta viva, resiste finché si recita senza ripensamenti per l’occhio elettronico. Appena qualche granello blocca il meccanismo e fa svanire il miraggio autocompiacente, la casa si smonta: gli schermi cadono o si spostano, le proiezioni finiscono, rimangono lo scheletro di legno di una struttura e le rovine delle persone.

Broke Hoiuse è un reiterarsi di situazioni, di interventi dei personaggi, rappresentazioni di sé stessi che alla lunga stanca e dà l’impressione di trovarsi di fronte a un raffinato “Casa Surace” traslocato dal Sud piccoloborghese alla Grande Mela, in atmosfere post Andy Warhol, senza troppo respiro.

Brief interviews with hideous men - 22 types of loneliness di Yana Ross, ph. Sabina Boesch.
Brief interviews with hideous men - 22 types of loneliness di Yana Ross, ph. Sabina Boesch.

 

Manca ugualmente il fiato a Brevi interviste con uomini schifosi della regista tedesca Yana Ross. L’elemento forte dello spettacolo sono i testi tratti dallo sconsolato, urticante libro omonimo di David Forster Wallace del 1999. Un viaggio nel sesso e nei modi di viverlo, ma anche in altre funzioni basso-corporee, con spazio a borborigmi, odori malsani, pratiche escrementizie; un’“inchiesta” sull’oppressione sessuale, sull’oppressione maschile sulla donna, sui ruoli di carnefici e di vittime e sulle ipocrisie che provano a rovesciarli.

Lo spettacolo illustra i testi sforzandosi di essere tagliente o ironico, senza in realtà inventare molto. Ci fa entrare in sala attraversando la scenografia, il patio di una villa americana, con piscinetta (finta) piena di rifiuti, vari cactus e un bisonte. Da sportelli, finestre, muretti pendono i corpi stecchiti dei personaggi, che tra poco rivivranno. Sulla sinistra, in una stanza con le pareti trasparenti, due pornoattori, nudi, provano dal vero varie posizioni di coito: lui sopra lei sotto, lui che la prende da dietro, lei a cavalcioni su di lui. Si muovono con algida precisone, in rapidi chirurgici scambi.

Brief interviews with hideous men - 22 types of loneliness di Yana Ross, ph. Sabina Boesch.
Brief interviews with hideous men - 22 types of loneliness di Yana Ross, ph. Sabina Boesch.

 

I testi di DFW sono intervallati da musiche country e coretti, da scene pop con attori e attrici travestiti da colorati cow boy o cow girl e con immancabili momenti di live video, quando gli interpreti si chiudono dietro le mura di una stanza. Una donna là tritura carne (la impasta e pulisce con un paio di mutandine): ne fa polpette ricordando l’oppressione paterna, l’asfissia che le procurava. L’atto quotidiano si trasforma in violenza insopportabile, i cessi puzzano di deiezioni non ripulite, la carta igienica diventa coda di esseri umani, schifosi appunto. Uno spazzino all’inizio provava a rendere linda la scena rimuovendo i rifiuti: ma nei colori pastello o acidi della scena la sporcizia è interna, invincibile. La porno attrice insegna come leccare quella cosa là per dare piacere alla partner, come baciare e far fremere. Poi si spoglia, in un vero e proprio strip-tease davanti a un lui e a una lei compassati in punta di sedia. E va a strusciarsi, nuda, sulle gambe di uno spettatore, suscitando qualche fremito nelle signore in prima fila che temono la sorte tocchi al marito o al compagno… 

Un cartello, a causa di queste scene, invita chi vuole abbandonare la sala a rivolgersi alle maschere che stazionano alla fine delle gradinate, ma solo due vanno via. Azioni di questo tipo non scandalizzano più, specie un pubblico di addetti come quello della Biennale. E poi spirano freddezza, forse brechtiana estraneità, e risultano alla fine un gratuito tentativo di alleggerire la forza, la violenza delle parole. Raramente l’azione acquista forza incisiva: per esempio quando dopo una cena tra coppie nella stanza, con l’allegria del convivio trasmessa in video, una donna esce e sotto la sciarpa mostra i segni di violenza, immaginiamo del marito.

Un momento forte potrebbe essere il finale, quando protagonista in questo serraglio diventa un vecchio, su sedia a rotelle, scatarrante, sfiatante, scoreggiante, che si alza e avanza a fatica. Poi tutti gli attori si ripresentano vecchi, in un trionfo del decadimento, della prossimità della morte, sul desiderio, sull’impulso, sul sesso, sull’oppressione sessuale. Sarebbe un bel finale, se non si vedessero così tanto le maschere di plastica a rendere il tutto finto, posticcio, citato, senza colpi allo stomaco di chi guarda. Le vere scosse le dà il testo: il resto è confezione, maquillage, come le altre cose qui raccontate.

L’ultima immagine è tratta da The Lingering Now, ph. Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia.

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