Processi creativi e basi cognitive / Biologia della letteratura

23 Febbraio 2018

Nella breve ma intensa storia della teoria della letteratura coesistono – ora fronteggiandosi, ora avvicendandosi – spinte verso l’astrazione e spinte verso la concretezza. Con ogni evidenza, nella fase attuale sono queste ultime a prevalere. In uno dei più importanti contributi recenti alla ricerca narratologica, Marco Caracciolo ha parlato di un «approccio E» (E-approach), dove «E» sta per embodied, enactive, embedded, engaged (The Experientiality of Narrative, De Gruyter, Berlin 2014). L’esperienza letteraria si cala nella realtà corporea: s’incarna, s’incastona nell’empiria, s’intreccia con l’azione; si vuole implicata, interessata, coinvolta. A seconda dei casi gli studiosi possono proporre orizzonti relazionali diversi, ma le varie prospettive convergono nella dimensione del rapporto con ambienti concreti e condizioni vive di esistenza. Niccolò Scaffai, in un bel volume da poco recensito su queste pagine da Gianfranco Marrone, ha messo in evidenza la tematica ecologica (Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione letteraria, Carocci 2017), in una prospettiva squisitamente comparatistica. Da tempo assai attivo sul versante della riflessione teorica, in Biologia della letteratura. Corpo, stile, storia (Il Saggiatore, 2017) Alberto Casadei parla bensì soprattutto di letteratura, ma chiama in causa anche la pittura, il cinema, la musica, le canzoni, i videoclip. L’intento, come si legge nelle righe di apertura, è di inserire la creazione artistica nel continuum dei processi biologici, ovverossia di «ripensare i processi creativi su basi biologico-cognitive». 

 

In linea generale, Casadei si colloca nel solco di quello che viene chiamato Literary Cognitivism; ma si tratta, per dir così, di un cognitivismo ben temperato, attento a evitare gli eccessi e le incongruenze che possono derivare dall’applicazione frettolosa di meccanismi neurologici alla sfera estetica. L’inventio letteraria ha sempre a che vedere con la storia, non meno che con la biologia, e i fenomeni artistici non sono mai riducibili a costanti sovra-temporali. Di qui l’accento posto sulla «stilizzazione», intesa come elaborazione «di secondo livello», che s’innesta sulle propensioni o potenzialità biologico-cognitive riqualificandole e caricandole di senso. Secondo Casadei, dagli studi attuali sul rapporto corpo-mente-cervello risultano quattro principali elementi: la percezione «attimale», che accende e focalizza l’attenzione (peraltro inducendo anche effetti di collaterale cecità); la «ritmicità/ ricorsività», cioè la sensibilità alle ricorrenze e alle regolarità ritmiche; la «mimesi/ simulazione incarnata», che si lega ai fenomeni di empatia; il cosiddetto blending o «metaforizzazione», ossia la tendenza a fondere elementi disparati in campi concettuali nuovi. È su questi presupposti che lavora, secondo modalità storicamente mutevoli, lo stile.    

 

Fra gli assunti metodologici, due mi paiono particolarmente significativi. Innanzi tutto l’importanza, nell’interpretazione dei fenomeni, delle relazioni di «gradualità/ scalarità», a fronte del paradigma strutturalistico dell’opposizione; in secondo luogo, l’idea dei «nuclei di senso», ritagliati all’interno dell’indistinto, incessante fluire degli eventi e delle percezioni. Non a caso, una delle categorie retoriche più spesso chiamate in causa in questo libro è l’inventio: fondamento decisivo della creatività è la capacità di selezionare, delimitare, circoscrivere, in modo da valorizzare le potenzialità attrattive di un segmento di realtà o di vissuto. Alla base di ogni scoperta c’è insomma un rinvenimento. Per inciso, vale la pena di sottolineare che nella sua trattazione Casadei cerca spesso di render conto di possibili corrispondenze fra gli esiti di ricerche recenti e idee maturate negli scorsi decenni nell’ambito della letteratura strettamente intesa, gettando utili ponti tra le frontiere della nuova teoria, nutrita di neuroscienze, e un patrimonio di riflessione poetica di cui sarebbe davvero sciocco sottovalutare la portata. Si veda ad esempio il nuovo rilievo che assume il concetto di punctum messo a fuoco (è davvero il caso di dirlo) dal Barthes della Chambre claire; o i molteplici riferimenti a autori come Steiner, Debenedetti, Valéry.  

 

 

Particolare interesse mi pare rivesta il cap. III, dove è trattato il tema dell’oscurità, intesa come «annullamento delle conoscenze condivise». L’oscurità è uno dei due poli tra i quali si muove la rappresentazione letteraria del mondo (l’altro consiste nella «pienezza dell’accadere» o eventfulness). Essa comprende un cospicuo numero di varietà, delle quali è proposta una tipologia che va dalla semplice difficoltà all’ambiguità insolubile, dall’occultamento dei riferimenti alla polisemia, fino all’incoerenza logico-sintattica. Il valore dell’oscurità consiste nella sua potenzialità di generare senso, ovvero di cogliere aspetti del reale che eccedono eventi e fenomeni razionalmente già codificati, mettendoci in condizione da un lato di rendere dicibili (e quindi in certa misura controllabili) le paure, dall’altro di spostare i confini fra il noto e l’ignoto, cioè, in buon sostanza, di fare scoperte. La trattazione dell’eventfulness comprende invece l’analisi della costruzione di senso attraverso l’individuazione di eventi definiti e narrabili, e mette capo a un’interessante teoria degli intrecci. Lo svolgimento del discorso, qui come altrove, assume sovente il carattere di carrellata storica sulle forme di stilizzazione (nel cap. I si muove addirittura dalle pitture dell’era glaciale e dall’epopea di Gilgamesh): in tale contesto, frequente è il richiamo alla trasformazione epocale che interviene con l’avvento della modernità (spesso Casadei parla di «svolta romantica»). E anche qui non si può che concordare. 

 

A una diversa accezione di «classico», cioè all’idea di capolavoro destinato a durare nel tempo, è dedicato il cap. IV (Il peso della storia. Come si diviene/ si rimane un classico). Dopo aver chiarito le principali valenze attribuite ai «classici-capolavori» in età moderna, sottolineando che propria dei capolavori è una dialettica interna che li rende «cognitivamente aperti», e dopo aver altresì analizzato le modalità di canonizzazione dei secoli passati, Casadei s’interroga sulla possibilità di adeguare la nozione di «classico» ai tempi attuali, contraddistinti da una fruizione parcellizzata e da una inedita globalizzazione culturale. Personalmente, non avvertirei questo problema con particolare urgenza. Ma è in questo capitolo che l’approccio cognitivista mi pare dia i risultati più suggestivi, coinvolgendo accanto alla letteratura le arti visuali, da Guernica agli affreschi della Sistina, dalla leonardesca Monna Lisa alla ragazzina afghana Sharbat Gula resa celebre da una copertina del «National Geographic» del 1984 di Steve McCurry (nonché a un insolito ritratto fotografico di Grace Jones di Robert Mapplethorne). 

 

Il capitolo più spregiudicato – anche se a mio avviso, non il più importante dal punto di vista teorico– e nello stesso tempo il più discutibile, è però quello conclusivo, intitolato WebCloud. Una conclusione sulla e nella contemporaneità. Casadei prova a fare i conti con la rivoluzione digitale, che ha portato fra l’altro all’avvento di una «cultura industrial-edonistica-pop globalizzata» vista come alternativa alla lunga tradizione europea-occidentale. Oggi viviamo nell’epoca dei social networks, dell’estetizzazione diffusa, dell’immaginario dominato da forme testuali integrate con la musica o le visual arts; l’idea stessa di testo (s’intenda: di testo lineare, chiuso e definitivo) appare messa in mora; e con il trionfo delle forme «aperte» sono divenuti possibili tipi di creatività collettiva impensabili nel passato. Al di là dell’imponenza di certi fenomeni e di certi numeri (come le decine di milioni di spettatori di serie TV come House of cards, o i tre miliardi e passa di visualizzazioni di Gangnam Style del cantante coreano Psy), a Casadei interessa porre in evidenza le potenzialità di una «condizione materiale-immateriale in cui si collocano tutti». Centrale è l’immagine della «Nuvola», viz. del Cloud, che rappresenta «una buona metafora dello sviluppo delle potenzialità cognitive umane». Quali espressioni artistiche potranno nascere da un «nuovo continuum spaziotemporale, fondato sulla complanarità di entità generatesi in tempi e luoghi molto lontani»? Casadei affida a un’elocutio perifrastica, se non circospetta, una conclusione che, formulata diversamente, potrebbe suonare addirittura apocalittica: «l’insieme delle considerazioni espresse in questo lavoro porta comunque a un depotenziamento di ogni ipotesi che riproponga il valore assoluto e originario del Linguaggio e della Parola». 

 

Tengo a precisare che anche in questo capitolo ci sono molte idee acute e appropriate: ad esempio, l’osservazione sulla ricerca di «effetti immersivi» che contraddistingue tanti ambiti comunicativi e artistici, «dai mondi virtuali in stile Second Life, con le loro estensioni creative, abilitati da Internet, alla tecnologia 3D»: anzi, questa fenomenologia dell’immersione (o dello sprofondamento) potrebbe essere estesa tanto a un certo gusto per i romanzi-fiume e le serie televisive interminabili, quanto all’uso di esaltare i toni gravi nella riproduzione o nell’amplificazione della musica e degli effetti acustici (le basse frequenze, si sa, sono percepibili anche sull’epidermide). E molto opportunamente Casadei richiama, a proposito del Cloud, il concetto di «semiosfera» introdotto a suo tempo a Jurij Lotman, come superamento in chiave antropologico-bachtiniana della semiotica strutturalista. 

Ciò premesso, io ho però l’impressione che la «condizione intermediale», di cui il Cloud è eloquente metafora, abbia a che vedere con la letteratura solo fino a un certo punto. Per parte mia, mantengo intatta la convinzione che la parola, e il linguaggio, e la letteratura, conservino una forza straordinaria e un valore insostituibile; e non è dall’intermedialità che mi aspetto future opere-mondo. Per questo non conto di unirmi ai lettori online che stanno cooperando alla composizione progressiva di The Familiar di Mark Z. Danielewski (fra di loro immagino non ci sia nemmeno Casadei, del resto); e non mi turbano più di tanto i numeri di Psy e dei suoi omologhi, come il giapponese Pikotaro di PPAP (Pen Pineapple Apple Pen), rispetto al quale Fabio Rovazzi sembra Paolo Conte. Ma il punto più importante è un altro. Mettere a confronto la letteratura – le opere letterarie così come le abbiamo sempre conosciute – con le potenzialità offerte dall’universo comunicativo odierno mi pare possa risultare fuorviante. La comunicazione oggi, secondo me, assomiglia molto a quello che in altre epoche è stata la religione. La religione, non l’arte. 

 

Una precisazione: il termine «religione», nel contesto secolarizzato in cui viviamo, viene quasi automaticamente associato a una dimensione di spiritualità che era (è) solo una piccola parte dell’esperienza dei credenti. In passato la religione permeava la vita sociale in maniera capillare. Non riguardava soltanto – né, forse, in primo luogo – l’interiorità della coscienza: era anche un insieme di pratiche, di discorsi, di rituali spiccioli, oltre che di liturgie collettive più o meno solenni; era fatta di abitudini quotidiane, di gesti esteriori e irriflessi, di formule ripetute, perfino di automatismi. Rivelatore, da questo punto di vista, è il dettaglio di Lazzaro Spallanzani che – come ricorda Primo Levi nella Ricerca delle radici – misurava in «credi» i tempi degli esperimenti scientifici, cioè usava il tempo necessario per recitare un Credo come unità di misura. In questa presenza pervasiva e multiforme della dimensione religiosa, simile a un basso continuo della vita dei singoli e della comunità, l’estetica aveva una sua parte, più grande di quanto forse oggi non siamo soliti pensare. Feste, celebrazioni e processioni erano anche, se non soprattutto, spettacoli; e fedeli di ogni livello culturale erano suscettibili di esprimere il loro parere (estetico!) sull’omelia domenicale. Ebbene, nel mondo contemporaneo l’esplosione delle nuove tecnologie mi pare produca una diffusione di legami orizzontali (terra-terra) che hanno preso il posto dei legami verticali (terra-cielo) perseguiti e coltivati con zelo assiduo, per secoli e secoli, dalle società tradizionali. E forse ci potremmo domandare se la «condizione real-immaginaria e liquido-gassosa» evocata da Casadei a proposito del mondo del Cloud sia davvero un appannaggio esclusivo dei nostri giorni: o se gli ossimori e i composti – così come i traslati e i parasintetici – non si attaglino a qualunque dinamica socio-culturale. I nuovi media non fanno che renderli più percepibili, sullo sfondo dei tempi lunghi della biologia. 

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