Breve storia della creatività umana
Il libro di Stephen Klein si intitola Come cambiamo il mondo, sottotitolo: Breve storia della creatività umana, misura 227 pagine, ed è uscito in marzo per Bollati Boringhieri. Più che una vera e propria storia, leggendolo, si ha l’impressione di entrare nello studio di uno scienziato, l’anticamera del suo laboratorio, un posto dove la teoria e la pratica sono ancora perfettamente fluide, e perciò su una grande lavagna convivono cronologie, appunti, fogli di varie pezzature, un impianto complessivo dorsale e varie informazioni di dettaglio, aneddoti, schemi e immagini. Senza dubbio, la domanda alla quale lo scienziato sta cercando di rispondere è davvero complicata e riguarda il funzionamento della creatività per la specie umana.
A volerla riassumere in poche parole, suona all’incirca così: “come funziona il processo che porta un essere umano a concepire un’idea nuova?”. E se la domanda è ben posta, se il cervello che la formula non è intaccato da pregiudizi romantici di varia natura, ne segue immediatamente un’altra: “quali sono le condizioni più fertili nelle quali un qualsiasi individuo può maturare un pensiero del genere?”. Una premura di fondo di Klein, infatti, è quella di ritagliarsi dello spazio per riflettere e smontare il mito del genio, la figura preconcetta di un individuo speciale che forza i limiti imposti dalla sua dotazione di specie e compie un salto epocale, portando altrove la conoscenza umana: Einstein è sempre l’esempio più facile per tutti.
Peccato che il genio sia una figura sopravvalutata. Nel libro si punta coraggiosamente il dito contro questa impostazione del problema, dicendo che ogni essere umano ha tutto ciò che gli serve per sviluppare un pensiero creativo, al pari di Picasso e di Mozart, di Planck e di Schrödinger: la differenza tra uno di questi uomini e tutti gli altri la fanno semmai le circostanze ambientali, le ore a disposizione, la strumentazione, i dati di cui dispongono, e di certo la calma.
Secondo Stephen Klein, indipendentemente da chi si è imposto per averli compiuti per primo, da quando esiste l’uomo sulla Terra la storia della creatività umana ha fatto quattro passi da gigante: dall’inizio dei tempi ci sono state soltanto poche rivoluzioni, ma talmente decisive da spostare ogni volta l’assetto di tutte le arti e da innovare radicalmente il nostro modo di abitare il Pianeta, oltreché di relazionarci tra noi.
La prima è stata all’incirca 3,3 milioni di anni fa, quando gli antenati degli uomini hanno trasformato le pietre in coltelli, e così facendo sono stati in grado di guadagnare una forza prima impensabile e hanno avuto bisogno di comunicarsela, sviluppando più rapidamente di prima un linguaggio all’altezza delle proprie scoperte. La seconda rivoluzione, invece, risale a 100.000 anni fa, quando gli ominidi hanno cominciato a dare un valore simbolico agli oggetti, a fare arte, bucando le conchiglie per trasformarle in monili o pigiando carboni ardenti contro pareti calcaree per disegnare dorsi di mammiferi e altre delizie. Lo sviluppo del pensiero simbolico ha dato un impulso fenomenale alla crescita del cervello, permettendo agli esseri umani di evolvere più in fretta, con l’appoggio di una memoria esterna.
Per la terza rivoluzione è stato necessario far passare moltissimo tempo e arrivare al 1450 d.C. quando un orafo di Magonza – Johannes Gutenberg – ha inventato la stampa a caratteri mobili, e con essa ha dato l’avvio a un processo lento e irreversibile di circolazione del sapere e di progressiva emancipazione dalla superstizione o dall’ignoranza. L’ultimo passo di questo progresso è adesso, la cosiddetta rivoluzione digitale o informatica, che secondo Stephen ha ottenuto l’effetto di spostare una parte di sapere, di competenza, di capacità decisionale e di controllo sui computer, dunque sulle macchine.
La cosa interessante da notare – nel libro è molto evidente grazie alla presenza di alcuni grafici dedicati – è che di rivoluzione in rivoluzione si susseguono invenzioni e scoperte collaterali la cui crescita nel tempo procede in modo esponenzialmente più veloce. Ciò significa che per buona parte della loro storia di specie gli esseri umani hanno abitato un mondo quasi privo di oggetti: una penuria di strumenti che oggi sembra impensabile, pieni come siamo di cose più o meno intelligenti, capaci di aiutarci e di rendere confortevole quasi ogni azione quotidiana della nostra vita.
Il saggio di Klein è organizzato in quattro vaste sezioni che segnano altrettante rivoluzioni. Per il resto, attorno a questo grande disegno di fondo, il discorso è libero di andare a esplorare svariati ambiti, personaggi, fenomeni. Tra le pagine più mirabili ce ne sono alcune in cui si ripercorre il celebre aneddoto di Archimede. Ufficialmente il lettore si trova all’interno della seconda sezione, nel pieno dell’«era dei simboli», e Klein gli propone un’interessante escursione sul tema dei lampi di genio: è qui che fa la sua comparsa Archimede, mentre si rilassa un momento nella sua vasca prima di esclamare il suo noto «eureka!» e dare vita alla teoria che gli permetterà di portare al termine il compito che gli ha affidato il suo cliente, Gerone, tiranno di Siracusa.
Di fatto si trattava di stabilire se una corona fosse veramente fatto d’oro oppure no. Incastonato nel lavoro di Klein questo aneddoto è particolarmente felice perché dà all’autore l’occasione di aprire due parentesi: la prima serve a magnificare il ruolo della noia e della quiete nel processo creativo; la seconda serve a riflettere sull’epifania delle migliori idee in circolazione.
In quanto alla noia, non è un caso che Archimede faccia la sua pensata alle terme, perché la nostra mente per lavorare al meglio ha bisogno di vagare, necessita di riposo e di distensione – più avanti Leonardo Da Vinci dirà che «nelle cose confuse l’ingegno si desta a nove invenzioni», alludendo al fatto che quando ha bisogno di riorganizzare i pensieri ama fissare una parete esfoliata dal tempo oppure gli oggetti confusi nella spazzatura.
Il cervello trae giovamento dal gioco di rilassarsi, di riorganizzare in maniera libera forme sparse, e compiendo quell’operazione spesso trova lo slancio per fare altro, un po’ come capita durante la notte con il materiale dei sogni: una combinazione inedita e surreale di pezzi, un lavoro inutile e liberatorio che però ha la funzione di allargare il novero delle possibilità pensabili durante il giorno. In quanto invece all’«eureka», Klein prende in esame con cura la figura del cosiddetto “lampo di genio” che a quanto pare – dice lui – fa la sua prima comparsa ufficiale in un testo letterario solo con Platone: «luce accesa dallo scoccare di una scintilla».
A differenza di quanto appare, nessuna scintilla brilla dal nulla, per innescarla occorre un lungo lavoro preparatorio, e questa osservazione costituisce anche una delle critiche più feroci e inattaccabili al mito del genio romantico, la cui anima piena di invenzioni sembra sgorgare da insondabili profondità come l’acqua di fonte dalla roccia.
A un certo punto, come a riunire queste intuizioni in un quadro più articolato e generale, Klein dà la parola ai grandi matematici e al modo in cui molti di loro hanno raccontato il processo creativo.
Stando alle cronache, questo flusso sarebbe dato dal susseguirsi di quattro momenti: prima di tutto una ricerca lunga e approfondita su un certo argomento, che in alcuni casi può durare anni e passare per migliaia di pagine e di esercizi. Poi una fase di «incubazione» dove il problema resta in circolo, nella memoria, ma non ci si confronta più attivamente con le fonti, anche perché in certi casi si è disperato di poter arrivare al dunque – questo è il tempo in cui Archimede si è deciso per le terme.
Dopo c’è l’«illuminazione», l’«esperienza wow», quella che fino a poco fa abbiamo definito «lampo di genio», ma non è altro che l’emergere di una soluzione dalla sintesi tra la sua rielaborazione conscia e quella inconscia. E, infine, un’ultima fase che può prendere il nome di «verifica» perché ha la funzione di riportare quanto compreso, intuito e visto al vaglio della ragione, e articolarlo in quella maniera dettagliata e documentata che era propria dell’inizio dei lavori. In questo report ricorrente di esperienze, noia e scintilla non si escludono, anzi sono conseguenti, ma niente sarebbe stato possibile senza una stagione di studio, di approfondimento, che radica nella realtà (e non nel soprannaturale) tutto quanto il processo creativo e i suoi prodigiosi risultati.
Tra i documenti e gli spunti che Stephen Klein colleziona nel libro ci sono alcuni esperimenti: è un piacere trovarli, compierli, nella certezza che la soluzione sta nascosta al punto giusto, poche pagine più avanti. Sono utili complementi ai suoi excursus sulla creatività, spesso servono a disambiguare o chiarire alcune nozioni, a lasciare che il lettore ne faccia direttamente esperienza.
E da questo punto di vista, uno dei passaggi più esaltanti avviene attorno a pagina 111, dove è riprodotto un sistema di macchie trattato in uno studio di Ahissan e Hochstein del 2004: Klein ci spiega come noi che guardiamo quelle forme per pochi istanti non riusciamo a individuare immagine figurativa al suo interno, ma una volta che ci viene rivelato come guardarla non possiamo fare a meno di vederla chiaramente, laddove prima esisteva solo una regione di indistinto. È così che funzionano la nostra creatività e la nostra capacità di vedere: facciamo dei progressivi salti in avanti e dopo non possiamo più tornare indietro. Siamo entrati nel futuro.
Al futuro, in effetti, è dedicata una breve ma intensa parte del libro di Klein, che da buon fisico e filosofo non si lascia andare a previsioni inverosimili, ma racconta in breve come la nostra crescente fiducia nei confronti delle macchine potrà portare a soluzioni creative nuove che vengono proprio da questa interazione. Lungi dal gettare allarmi apocalittici in merito all’umanità soppiantata dall’intelligenza artificiale, Klein ricorda le parole incoraggianti di Ada Lovelace, figlia del poeta Byron e programmatrice di software ante litteram: «come il telaio di Jacquard tesse fiori e foglie, così fa la macchina analitica con le formule algebriche», e per continuare il pensiero, le macchine sono degli ottimi artigiani difficilmente diventeranno dei buoni inventori di contenuti originali. Ma poi chissà.
Creatività «combinatoria», «esplorativa» e «trasformativa» sono solo tre delle facce di un sistema meravigliosamente complicato che armeggia ancora in buona parte a nostra insaputa in una regione antica del cervello, grande quanto un nocciolo di pesca. Il libro di Klein è una buona scusa per occuparsene, almeno per qualche ora.