Gilles Kepel / Caos in Medio Oriente: e l’Occidente?
L’arabista Gilles Kepel con il volume Uscire dal caos (Raffaello Cortina, 2019) ci spiega con ricco e informato dettaglio quanto sta accadendo ormai da quarant’anni in quel pezzo decisivo di mondo che sta tra Algeria e Pakistan, tra Yemen e Turchia giusto per dare le coordinate geografiche della grande estensione bellica che esso racchiude. Un bellum omnium contra omnes in cui tutti si combattono: all’inizio ormai lontano (tanto da sembrare un conflitto “locale”) arabi e israeliani, ma poi sunniti contro sciiti (la grande divisione di quel pezzo di mondo), e poi sunniti contro sunniti, monarchie del petrolio contro regime iraniano, infine jihad contro tutti – ma con il sostegno di molti tra gli attori in campo. E non sullo sfondo ma direttamente in scena le grandi potenze: gli Stati Uniti in ritirata, la Russia che avanza, le varie e divise nazioni europee da sempre interessate allo scacchiere mediorientale (Francia, Gran Bretagna, Italia marginalmente con riferimento alla Libia).
Il principale pregio del libro è di farci capire il rapporto tra potere e religione. Dopo la stagione secolarizzante della Turchia di Ataturk e della Persia dello Shah (un’illusione laicista?), a partire dalla rivoluzione iraniana del 1979 è questa la cifra: un potere teocratico. In cui la religione è al comando. Non instrumentum regni, ma regno tout-court! E nelle forme più dure, che l’Occidente non ha più conosciuto dal tempo delle Crociate. Potere della religione o religione al potere (qui ricchissima è la documentazione fornita da Kepel), cui si contrappone eventualmente un potere militare (come in Egitto contro i Fratelli musulmani), mai un potere civile (che apparentemente non esiste). Il fronte religioso va dai Fratelli musulmani alla Turchia al Qatar; il fronte degli Emirati Arabi Uniti ostile ai Fratelli musulmani include l’Egitto di al-Sisi al comando a partire dal 2013 con l’appoggio dell’Arabia Saudita, e la Libia di Haftar. Il conflitto si allarga allo Yemen (Arabia Saudita contro gli huthi), e naturalmente alla Siria, il cui regime è sostenuto da Iran e Russia.
Ma: società civile, Stato, democrazia, classi sono termini usati ma non discussi e reinterpretati nel libro di Kepel. Sono termini occidentali – e anche qui del resto in forte discussione oggi. Sono termini che in Oriente, e in Medio Oriente in particolare, vogliono probabilmente dire altro. La società civile è un costrutto che da noi ha impiegato secoli a nascere, dal 1700 al 1900. È la società pre-politica, disorganizzata che risponde allo Stato; è un sistema di bisogni e interessi particolari privi di auto-consapevolezza; a mediare tra le due sfere, società civile e Stato, vi è l’opinione pubblica. In Medio Oriente qualcosa del genere è appena nato, con le primavere arabe dell’ultimo decennio; in forme più legate ai social network, meno alla elaborazione di luoghi e spazi di discussione e critica. Lo Stato in Medio Oriente è anch’esso da ridefinire: sultanismo e monarchie petrolifere sono forme-Stato molto particolari la cui base di legittimazione si regge su ordini feudali. Sarebbe utile che Kepel si impegnasse in uno sforzo di ricostruzione critica, proprio a partire dalla sua profonda conoscenza sia del mondo arabo sia della cultura occidentale. Così la democrazia è citata nel libro per differenza: non c’è in Medio Oriente il demos (popolo, territorio) ma l’ochlos (la massa indistinta, la moltitudine).
Cosa possa significare “potere del popolo sul proprio territorio” (la nostra definizione di democrazia) in Medio Oriente non è affatto chiaro. Solo una visione superficiale poteva pensare che si affermassero sul serio istituzioni democratiche (e infatti non è avvenuto, salvo timidamente in Tunisia) dopo le rivolte del 2010 nate dal suicidio di un giovane venditore ambulante tunisino. Sono invece esplose le varie forme di cattura dei giovani movimenti di protesta da parte di più solide formazioni religiose, e di jihadismo e terrorismo. E infine, le classi. Kepel accenna a classi medie religiose, a ceti urbani emergenti, a giovani scolarizzati che soffrono di “frustazione relativa” o “privazione relativa” (ancora una categoria sociologica occidentale), di masse povere che alimentano la frattura sociale. Ma tutto questo è solo accennato, mai messo a tema. Avremmo invece bisogno di un’armatura teorica esplicativa che ci permettesse di capire più a fondo la società dei Paesi Medio-Orientali: come si sta componendo-o scomponendo – e secondo quali forze. In questo un’analisi dei clan e delle tribù – tema weberiano per capire l’Oriente – non potrebbe mancare.
Il caos dunque: nato (in Siria come in Libia) dall’interferenza tra attori militari parastatali e potenze straniere, il cui gioco è ancora legato agli interessi petroliferi dell’area mediorientale: il Barile e il Corano nella suggestiva immagine di Kepel. Come uscirne? Le colpe del caos sono equamente distribuite, economia e società sono devastate. Forse solo la ricostruzione di città e di siti, la fatica di Sisifo inaugurata dall’UNESCO ma con nessuna vera convinzione e strategia, potrà riaprire almeno simbolicamente una via d’uscita dal grande Medioevo in cui siamo precipitati in quest’area cruciale del mondo. Invece un ripensamento radicale si imporrebbe da parte dell’Occidente: che dopo aver disegnato nel passato il destino coloniale dell’area, ne ha continuato a tracciare nel presente le disgrazie nell’epoca post-coloniale.
Un utile complemento di indagine in questa direzione è compiuto dall’Atlante 2019 Geopolitico del Mediterraneo, a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari (Bordeaux Edizioni 2019). Oltre ai saggi analitici dedicati ai Paesi dell’area sotto forma di schede ricchissime di dati socio-economici e politici (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Israele, Autorità Nazionale Palestinese, Libano, Siria, Giordania, Turchia) due saggi tematici illustrano l’azione delle Authority per l’integrazione energetica del bacino mediterraneo (Fabio Tambone) e la presenza cinese nel Mar Mediterraneo (Francesca Manenti). Temi entrambi cruciali. Il primo riguarda l’approvvigionamento energetico dell’area, che sarà sempre più legato al gas (+ 60% di produzione nel prossimo ventennio) e meno al petrolio. La crescita demografica ed economica dei paesi della sponda Sud spingerà in alto i consumi energetici, mentre a Nord dovremo puntare su risparmio ed efficienza energetica.
Il secondo tema riguarda infine la comparsa di un nuovo attore, la Cina, nel Mediterraneo: non solo con l’intervento cinese nel porto del Pireo, ma con la presenza dei tre principali colossi dello shipping cinese in 16 porti dell’area Mediterranea da Valencia e Casablanca a Vado Ligure a Bilbao a Marsiglia, fino a Port Said e Tanger. Approccio cinese a tutto tondo nella logistica portuale mediterranea, in relazione con la Belt and Road Initiative che intende connettere la Cina al resto del mondo (Asia, Europa, Africa). Mentre la BRI è anche intervento politico e geostrategico, l’acquisizione di parte della logistica marittima mediterranea è per ora solo economico, sostiene Manenti: Pechino non sembra propenso a prendere parte alle questioni più generali dell’area (migrazioni, jihadismo, cambiamento climatico, risorse naturali). Lo scenario si allarga e si complica, la risposta europea tarda: ancora una volta l’Occidente si avvia al proprio tramonto?