Cărtărescu e il romanzo degli adolescenti solitari

21 Novembre 2022

Aveva 17 anni, Arthur Rimbaud, quando indirizzava a Paul Demeny una lettera “sull’avvenire della poesia”. In quello scritto, spedito il 15 maggio del 1871 da Charleville, il “passante geniale”, come lo aveva definito Stéphane Mallarmé, dettava regole molte chiare e ultimative per chi volesse comporre versi che “spazzassero via millenni di scheletri”. Sosteneva, infatti, che il poeta dovesse farsi veggente “attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi”. Era necessario, insomma, che diventasse ladro di fuoco per confrontarsi con l’ignoto “balzando attraverso le cose inaudite e innominabili”.

Aveva 22 anni, Mircea Cărtărescu, quando sulla rivista “România Literară” era uscita la sua prima novella. Rivelando ai lettori più attenti una nuova voce che sapeva farsi veggente, unendo la tradizione mitologica della Romania a una scrittura del tutto libera di abbandonarsi al fantasticare. Piena di simboli, di reinvenzioni archetipiche, di rimandi alle inquietudini di Franz Kafka, all’esplosiva creatività linguistica di James Joyce. Ma, al tempo stesso, capace di sintonizzarsi con la fortissima voglia di spezzare i vecchi schemi caratteristica della Blue Jeans Generation, la corrente che negli anni Ottanta, ben prima che tramontasse l’asfittico regime di Nicolae Ceaușescu, aveva fatto coriandoli dei polverosi topoi letterari del realismo socialista.

Fin dagli esordi, Mircea Cărtărescu ha capito che scrivere non vuol dire farsi distante demiurgo della materia letteraria. Non è sufficiente diventare un seppur discreto distillatore di storie, un catalogatore di trame, un selezionatore di parole. Perché è molto più affascinante lasciarsi possedere dall’idea stessa di narrare. Diventare, insomma, una sorta di medium posto esattamente al confine tra il mondo reale e quello dell’immaginazione. Balzare attraverso le “cose inaudite e innominabili” di cui parlava Arthur Rimbaud nella Lettera del veggente.

Nato poeta, Mircea Cărtărescu ha capito presto che ogni forma di espressione letteraria risuona in una tonalità diversa. E se un romanzo lungo e articolato può diffondersi nella cassa armonica della letteratura con il suono grave e conturbante di un violoncello, una raccolta di racconti finisce per assumere la robusta leggerezza di una viola. Mentre nelle poesie echeggia il suono intenso del violino. Così scrivere, per l’autore rumeno, non significa mai interrogarsi sulla lunghezza di un’opera. Né cercare artifici per modellare la materia narrativa che va forgiando. Perché “un vero libro è un processo embrionale, lo scrittore gli offre solo il grembo protettivo e poi rimane passivo, come una donna incinta che non ha idea di cosa stia accadendo dentro il suo grembo”.

Leggere i libri di Mircea Cărtărescu significa abbandonare le proprie certezze. Avere il coraggio di transitare attraverso luoghi che mai prima era stato concesso di esplorare. Assistere all’impallidire progressivo di ogni punto di riferimento razionale nel mondo, per incamminarsi lungo sentieri che portano verso l’altrove. Verso dimensioni fatte di realtà sognate, architetture oniriche, organizzazioni sociali che scivolano verso il nulla, solitudini che riempiono il vuoto con la meraviglia di reinventarsi senza sosta.

In più di quarant’anni di lavoro letterario, Mircea Cărtărescu ha seminato libri importanti. Basterebbe ricordare la trilogia di Abbacinante (formata da Il corpo, La parte destra e La parte sinistra, pubblicata in Italia da Voland tra il 1996 e il 2007) e quel romanzo straordinario che è Solenoide (il Saggiatore, 2020, su cui vedi la recensione su doppiozero di Paolo Landi). Novecento e più pagine in cui il destino di uno scrittore rinchiuso dentro una casa dalla forma di una barca diventa viaggio iniziatico e libero in una Bucarest che muta aspetto sotto gli occhi di chi la guarda. Dove può capitare di imbattersi in un’improbabile setta di mistici, intenti a organizzare manifestazioni contro la morte, o trovare l’amore per Irina, in uno psichedelico susseguirsi di esperienze del tutto prive di collegamento con la ragione.

Nel 2003, la casa editrice Voland proponeva ai lettori italiani un libro di racconti di Mircea Cărtărescu. Tradotto dal prezioso Bruno Mazzoni, due anni dopo Travesti, Nostalgia rivelava fin dalle prime righe la sua ipnotica costruzione di raccolta di lunghe storie in forma di bizzarro romanzo. Con una sorta di dichiarazione programmatica, che può servire da chiave di lettura per l’intera opera dell’autore rumeno: “Sogno in maniera smisurata, colorata alla follia. In sogno ho sensazioni che non sperimento mai nella realtà”.

Ad attraversare la materia incandescente del libro erano visioni, stati di trance, epifanie. Il farsi e il disfarsi di architetture che rispecchiano le intermittenze dell’anima dei personaggi. A distanza di oltre trent’anni, Mircea Cărtărescu ha voluto ritornare allo schema immaginifico di Nostalgia. Battezzando la sua nuova opera con un titolo che preannuncia nuove, alchemiche soluzioni narrative: Melancolia.  Pubblicato da La nave di Teseo, viene proposto adesso ai lettori italiani nella rigogliosa traduzione di Bruno Mazzoni (pagg. 262, euro 20).

Se in Nostalgia erano tre i racconti lunghi (Il Mendebile, I gemelli, Rem) a ricomporre l’identità mutante del protagonista in una Bucarest pronta a svelare l’altra se stessa, dentro dedali di passaggi segreti e soluzioni architettoniche imprevedibili, Melancolia propone uno schema narrativo che può ricordare quello degli antichi poemi. C’è, infatti, un Prologo (La danza), seguito da tre storie lunghe (I ponti, Le volpi, Le pelli), e infine un Epilogo (La prigione).

A prendere per mano i protagonisti dei racconti è sempre la melancolia: “Quel sentimento che ci accompagna per tutta la vita”, scrive Mircea Cărtărescu. Il dolente compagno di strada di tanti poeti, da Giacomo Leopardi a Charles Baudelaire, che fin dagli anni dell’infanzia insinua nella mente lo spaesamento di chi vive i suoi giorni con “la sensazione che nessuno ci tiene più per mano”.

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Uno stato di abbandono che il protagonista di I ponti, bambinetto di cinque anni, prova fin dal giorno in cui vede uscire la madre per andare a fare la spesa. Da subito intuisce che la donna non ritornerà mai più. E che da quel momento la sua vita sarà un lungo attraversare territori sconosciuti. Un peregrinare oltre il limite dell’appartamento in cui abita, per provare a ricostruire i pochi dolci ricordi che resistono, da qualche parte nella memoria, dei giorni in cui poteva contare su qualcuno che si occupasse di lui.

La melancolia di Marcel inizia quando i giochi divertenti che inventa per la sorellina Isabel, più piccola di lui, gli sfuggono di mano. All’improvviso, la cameretta rischiarata da tutto l’amore che li lega, e dalla sintonia totale che hanno creato immaginando storie inquiete, perde la sua inviolabilità. Lascia penetrare nel cerchio magico, in quella rassicurante intimità delle ore trascorse insieme, schegge fuori controllo di un’oscura fantasia. O di un’altra parte, tenebrosa, posta al confine con la loro microscopica realtà. Saranno Le volpi del titolo, fino a quel momento tenute a bada con transitori rituali di magia infantile, a spezzare l’incantesimo con unghie acuminate. A portare nel sacro territorio dell’infanzia tutto il gelo e lo spavento che sta al di là delle finestre sprangate.

Per Ivan, il quindicenne della terza storia, la melancolia è legata al suo sentirsi l’essere più solo dell’universo. Tutto è mistero, nel suo vivere. Anche quella collezione di pelli, che dà titolo al racconto, custodita in un armadio della cameretta. Una fantastica serie di bozzoli da cui è uscito mentre il suo corpo cresceva, si trasformava, pagava pedaggio al trascorrere del tempo. Una testimonianza di com’era, e in che cosa si sarebbe trasformato. Sarà l’incontro con Dora a dinamitare le fragili certezze del suo percorso di vita, quando si chiederà se anche nel mondo femminile è previsto il medesimo rituale: ovvero, abbandonare la vecchia pelle per mutare, ogni volta, in qualcos’altro. Uguale, eppure diverso.

“Per quelli che vivono nel mondo del sogno, il mondo reale è il luogo più inverosimile. Per i morti, i vivi sono esseri mostruosi, con occhi lucenti. Ma come sono gli uccelli visti dai pesci, che aspetto hanno i pesci visti dagli uccelli?”. Queste esistenziali incertezze, abbinate al sovrapporsi di strati di realtà immaginati (forse possibili?), sono la cifra segreta di tutta l’opera di Mircea Cărtărescu. Ad affascinare lo scrittore di Bucarest sono gli archetipi, i sogni, il fantasticare che spalanca gli occhi su dimensioni sconosciute. Mai, nei suoi libri, si specchiano gli eventi della politica, della società, i maneggi dell’economia, i futili scontri ideologici. Basterebbe ricordare che nel 2017, mentre lui era immerso nella trance creativa che lo portava a scrivere i racconti di Melancolia, le strade della Romania venivano attraversate da migliaia di cittadini in corteo, che manifestavano contro la corruzione del governo.

Le storie di Melancolia si popolano dell’assenza degli adulti. Vivono orfane di un progetto sociale. Fanno emergere dalla solitudine degli adolescenti archetipiche figure di madri, che giganteggiano sui figli in forma di enormi statue di cioccolata, ricoperte di carta colorata come i coniglietti pasquali. Mentre i padri, troppo spesso assenti o rinchiusi dentro la loro indecifrabile distanza sentimentale, sono fatti di un materiale mediocre e incolore come la gomma.

Nel microcosmo di Melancolia la sessualità non è mai definita. Il brivido del proibito può nascere se una ragazza ti chiede di accarezzare la tua vecchia pelle morta, archiviata in un armadio come fosse la reliquia di un mondo senza santi né eroi. E i poeti? Sono una setta di esseri estinti “assillata dal pensiero di aver, come le lumache, macchiato la terra con una striscia lucente”. Di loro rimangono solo lontani sarcofagi. O statue, che fluttuano nel vuoto in miracoloso equilibrio instabile.

Quella di Mircea Cărtărescu ė una visionarietà che svuota il cielo dai suoi richiami mistici. Che vaga lontana dagli inferi tenebrosi e spaventosamente affascinanti immaginati da Emanuel Swedenborg e da William Blake. Perché lo scrittore rumeno preferisce raccontare i cambiamenti, esterni e interni, di un mondo parallelo al nostro, in costante trasformazione. Dove esseri fragili, come i suoi personaggi, devono sfangare i giorni della vita in una solitudine totale, dominata dal senso di una melancolia inestinguibile. 

Eppure, il loro mettersi in cammino, la capacità di intuire che al di là della vuota quotidianità può sempre celarsi l’elettroschok di un altrove tutto da esplorare, da interpretare, li spinge a non fermarsi mai. A non arrendersi davanti alla comoda prevedibilità del qui e ora. Come I vagabondi della scrittrice polacca, Premio Nobel per la letteratura, Olga Tokarczuk, sempre pronti a cambiare orizzonte per non farsi intrappolare dalle catene della prevedibilità.

In tutto il suo percorso di uomo e di scrittore, Mircea Cărtărescu ha dimostrato di sapersi tenere alla larga dalle mode, dal facile richiamo di una popolarità editoriale fatta di libri inutili e vuoti, da un engagement inteso come fiera della vanità e comoda dichiarazione di appartenenza. Quando scrive, raggiungendo uno stato di trance che lo esclude dalla realtà, come un Maurits Cornelis Escher capace di trasformare in segni le visioni di Alfred Kubin, Cărtărescu vuole dare voce al dolore di vivere, alla meraviglia di fantasticare, all’esperienza di non chiudersi mai dentro una gabbia ideologica. Perché tra le parole, che lui maneggia come fossero preziosi talismani, si nascondono infiniti mondi possibili. 

“Dormendo, sognava. Sognando, viveva. Qual era la differenza?”.

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