Chiostro di santa Sofia: una visita immaginaria
Benevento, anno del Signore 1167, addì 29 del mese di luglio
Un gruppo di figure incappucciate camminava a passo spedito verso il monastero di santa Sofia, che non era molto distante dalla porta urbica attraverso la quale aveva appena fatto il suo ingresso in città. Si muovevano rasente i muri, i neri saî indistinguibili dalle ombre della notte non ancora del tutto fugata dall’alba incipiente. Tra loro il senese Rolando Bandinelli, alias papa Alessandro III, fuggito da Roma in incognito, con lo sparuto gruppo di cardinali rimastigli fedeli, che aveva scelto Benevento come proprio rifugio, dopo la presa della città eterna da parte di Federico Hoenstaufen, suo acerrimo nemico.
Benevento non era soltanto un importante centro ecclesiastico, era un’enclave pontificia nel cuore dei territori normanni e la Chiesa vi dominava autocraticamente, a maggior ragione ora che la tracotanza del Barbarossa l’aveva resa l’ultimo baluardo del potere del papa legittimo, perciò questi, al precipitare degli eventi, aveva immediatamente annunciato all’abate di santa Sofia la sua imminente venuta. Evidentemente doveva essere arrivato in anticipo sul previsto - avevano cavalcato a rotta di collo per tutta la notte e per tutto il giorno avanti - e non c’era nessuno ad attenderlo alla Porta Somma, da lui segnalata nella sua missiva quale accesso prescelto per entrare in città.
Senza perdersi d’animo, il pontefice si avviò comunque verso il monastero meta del suo viaggio, sicuro di trovarvi l’abate.
Raggiunta la chiesa, la trovarono deserta ma dall’aleggiare tra gli scranni dell’odore d’incenso appena asperso era evidente che la funzione dell’Ora Prima doveva essere terminata da poco. Sul lato sinistro dell’abside, da una porta lasciata socchiusa, filtrava una lama di luce, papa Alessandro la raggiunse e l’aprì spalancandola sul chiostro, stranamente già gremito, nonostante l’ora antelucana, di monaci e di operai, indaffarati chi a trasportare pietre, chi secchi e attrezzi, chi a montare trabattelli e ponteggi lungo il deambulacro. Cercò subito l’abate con lo sguardo e non gli fu difficile individuarlo, Giovanni, infatti, sebbene fosse basso e tarchiato, come la maggior parte dei suoi confratelli, e vestisse il medesimo saio nero, senza alcun ornamento particolare, era distinguibile dall’autorevolezza del portamento. In quel momento era accanto al mastro costruttore che gli stava illustrando un disegno tracciato su una tavola di legno ricoperta di gesso. Si sorreggeva il mento con una mano e aggrottava di continuo le folte sopracciglia con piglio severo, segno che doveva essere perplesso. Al suo occhio vigile non erano comunque sfuggite le figure incappucciate appena introdottesi nel chiostro ma reputando fossero dei frati itineranti, li aveva ignorati.
Non volendo tradirsi, il papa si pose, allora, discretamente in un angolo, imitato dai suoi, in attesa di un segnale che lo autorizzasse ad avvicinarsi; nel frattempo si guardò intorno.
Dalla posizione in cui si trovava si godeva di un’ottima visuale sull’insieme del cantiere. Il pontefice non era un esperto di architettura, ma doveva riconoscere che quel chiostro era un capolavoro. “L’abate Giovanni possiede un senso dello spazio davvero straordinario” si diceva mentre faceva scorrere attorno lo sguardo. “Non mi spiego perché il suo progetto abbia scatenato così tante polemiche in città, al punto da farle giungere persino alle mie orecchie.”
All’indomani della sua investitura ad abate di santa Sofia, Giovanni, infatti, aveva subito espresso l’intenzione di non riparare il vecchio chiostro, crollato a seguito di un terremoto, ma di edificarne uno nuovo e questa sua decisione aveva suscitato strenue opposizioni fra i benpensanti di Benevento, che erano i più. Le sue idee erano state giudicate troppo moderne e troppo audaci. I beneventani non amavano le novità e le diatribe perduravano ancora, nonostante fossero trascorsi parecchi anni dall’apertura del cantiere. Per fortuna Giovanni non si era lasciato scoraggiare dai detrattori e aveva finanziato i lavori attingendo dai propri forzieri le ingenti somme che avevano richiesto e tutte le mattine ne seguiva personalmente i progressi.
Se si escludeva un angolo estroflesso verso il giardino, il perimetro del chiostro descriveva un quadrato pressoché perfetto, delimitato, all’interno, da una selva ordinata di colonne issate su di un basso muretto di pietra. Papa Alessandro si sorprese nel constatare come nessuna fosse identica ad un’altra. Ciascuna, infatti, mostrava una peculiarità che la contraddistingueva: ve n’erano di tortili, di scanalate, molte erano lisce, alcune scabre, due erano annodate fra loro; monocrome o marezzate, quali erano state ottenute da rocce cristalline, quali da pietre calcaree o vulcaniche, così che le gradazioni dei loro colori si andavano modulando dal bianco al rosa, dal giallo paglierino alle più articolate tonalità di grigio. Su di un lato del chiostro, un gruppo di colonne era già sormontato dagli antichi pulvini longobardi, sopravvissuti al crollo, sopra i quali i capomastri stavano ora innalzando dei graziosi archetti a ferro di cavallo, collegati in quota, a quattro a quattro, da ampie archeggiature, sostenute da pilastri quadrati a formare delle finestre quadrifore. Misurato lo spazio con un rapido conteggio, il pontefice stimò che, a lavori ultimati, vi sarebbero state sedici quadrifore rette da sedici pilastri quadrangolari. ”Il quattro coi suoi multipli deve essere la chiave numerica di quest’architettura” si disse, folgorato dalla propria deduzione. “Piuttosto appropriato per un luogo di preghiera quale è un chiostro” pensava mentre la sua mente riandava alla simbologia teologica e naturale legata al numero quattro.
“Prima di tutto” si disse “il quattro è la cifra della perfezione divina, espressa nel tetragramma biblico YHWH, le cui quattro lettere compongono il nome di Dio, tanto sacro da essere impronunciabile. Inoltre le Virtù Cardinali sono quattro” continuò a rievocare, sempre più avvinto dalla propria disanima “così come i Vangeli e le direzioni in cui si sviluppano i bracci della croce di Gesù. E quattro sono i cavalieri dell’Apocalisse. Ma questo numero possiede anche valenze naturali. Pitagora, ad esempio, ha riconosciuto nella progressione aritmetica dei primi quattro numeri il quaternario, ossia la sigla che racchiude in sé la quintessenza dell'universo. E poi, i punti cardinali sono quattro, come le stagioni, le fasi lunari, le settimane di un mese e gli elementi della materia: terra, aria, acqua e fuoco.”
Papa Alessandro era dotato di una mente evoluta, capace di astrazione. Non erano in molti, a quei tempi, gli individui in grado di passare dall’osservazione alla notazione, dal concreto all’astratto, dal particolare all’universale, ma lui, insieme all’abate Giovanni, era uno di questi. Comprendere la legge dei numeri, poi, era un suo dono di natura. In gioventù, durante un viaggio che aveva intrapreso nella terra degli Angli, aveva avuto modo di consultare la traduzione latina di un trattato persiano e si era appassionato al sistema di numerazione decimale, ancora scarsamente in uso nel mondo cristiano.
Di quel volume, ricordava ancora un passo a memoria:
"Quando considero ciò che la gente vuole calcolare, trovo che è sempre un numero. ... Inoltre, ho notato che ogni numero espresso da uno a dieci sorpassa il precedente di una unità; poi le decine sono duplicate o triplicate come prima lo erano le unità; così si arriva a venti, trenta, … fino a un centinaio; poi il centinaio è duplicato e triplicato nello stesso modo delle unità e delle decine, fino al migliaio;… così via fino all'estremo limite di numerazione." [Dell’opera di al-Khuwarizmi, tradotta in latino nel gennaio del 1126 da Adelardo di Bath, col titolo di Algoritmi de numero Indorum -"al-Khwãrizmï sui numeri indiani"- è sopravvissuta solo la sua traduzione, mentre l’originale è andato perduto.]
Schioccò la lingua, compiaciuto della propria memoria, e si girò in direzione dell’abate, nella speranza che si fosse finalmente liberato del mastro costruttore, ma i due stavano ancora discutendo. Per nulla seccato, tornò a guardarsi attorno e la sua attenzione fu subito attratta da un gruppo di lapicidi impegnati a scolpire dei blocchi di pietra a forma di tronco di piramide, non più lunghi di un braccio. Pensando fossero i nuovi pulvini, destinati a sostituire quelli andati perduti nel terremoto, si avvicinò per osservarli meglio e, sebbene il baccano dei mazzuoli fosse assordante, restò affascinato dai gesti delle mani che li guidavano; queste si muovevano, sapienti, sulla pietra, dando vita a scene di caccia popolate di cammelli, di leoni, di scimmie, di elefanti e di tutto un bestiario fantastico brulicante di mostri marini, di draghi, di centauri, di sirene e di grifi.
Fece girare attorno lo sguardo alla ricerca di qualche pulvino a tema religioso, ma, fatta eccezione per due con immagini di santi, per uno con la Natività e per un altro con la Presentazione di Gesù al Tempio, non ne trovò. I soggetti che vi erano riprodotti erano tutti di una profanità sconcertante, se rapportata al luogo in cui erano inseriti. Alessandro si reputava uomo di larghe vedute, tuttavia non riusciva a capacitarsi di come l’abate avesse potuto indulgere a tanta esibita laicità. Non si era ancora riavuto dal disappunto, pronto a redarguirlo aspramente non appena lo avesse avuto di fronte, quando la sua attenzione venne catturata da un’iscrizione che uno degli scalpellini stava ultimando d’incidere sopra un capitello dall’inconsueta forma troncocilindrica.
Incuriosito, si avvicinò e lesse:
“PERPETUIS ANNIS STAT QUARTI FAMA JOHANNIS PER QUEM PASTOREM DOMUS HUNC HABET ISTA DECOREM”.
Epigrafe dell'abate Giovanni IV
“Questo è davvero il colmo” pensò il pontefice, con un moto di stizza.
Giovanni, quarto abate dell'abbazia di santa Sofia con questo nome, fiero del suo chiostro, contravvenendo apertamente alla regola di San Benedetto che imponeva l’umiltà, vi aveva superbamente apposto la propria firma.
Il papa era talmente contrariato, che sobbalzò quando la campana della chiesa scandì i rintocchi dell’ora Terza. Possibile che fossero già trascorse due ore? La contemplazione doveva avergli fatto smarrire la nozione del tempo. Si girò verso l’abate per vedere se avesse terminato di discutere col capomastro, ma i due si stavano ancora animatamente confrontando. Riportò l’attenzione sui pulvini e, nel voltare la testa gli cadde l’occhio sull’angolo opposto del chiostro rispetto a quello in cui lui si trovava, Là era all’opera un altro gruppo di scultori che sembrava essersi trincerato dietro cumuli di pietre, montagnole di calce e insidiosi fili a piombo tesi ovunque come a voler impedire a chiunque di spiare i loro lavori. Reputando di averne il tempo, data l’animosità che ancora contrassegnava la conversazione tra l’abate e il suo proto, Alessandro decise di andare a scoprire il perché di tanta segretezza.
Avvicinarsi, però, non fu impresa facile, infatti dovette strisciare sotto i fili a piombo, scavalcare i cumuli di pietre, aggirare le montagnole di calce e quando si fu lasciato finalmente alle spalle tutti quegli ostacoli, si intromisero alcuni zelanti apprendisti ad impedirli l’accesso a quel recinto di lavoro. Se non fosse stato per l’intercessione di uno scultore che aveva tutta l’aria di essere il capo, non sarebbe mai riuscito a mettervi piede. E forse sarebbe stato meglio, perché la sua indignazione giunse al culmine non appena si avvide di quali soggetti si fregiassero questi nuovi pulvini. Essi, infatti, erano adorni di immagini ancor più profane delle precedenti, legate al ciclo dei mesi, connesso ai lavori della terra e, benché fossero appena abbozzate, non gli fu difficile riconoscere la mietitura di giugno; la battitura del grano con il correggiato di luglio; la spremitura dell’uva di settembre e la raccolta delle olive di ottobre.
Stava giù per insorgere, rabbioso, convinto di essere approdato nel regno di Satana anziché nella casa di Dio, quando, come colto da un’improvvisa folgorazione, intuì che quelle scene, dall’esibita laicità, erano, in realtà, intrise di una profonda sostanza teologica, riconducibile al tema biblico del Dio Chronokrátor che compare nella Genesi, ovvero ad un Dio che, ordinato il tempo e separate tra loro le stelle del firmamento, si preoccupa di assicurare all'uomo semine e raccolti per il suo sostentamento e tanto bastò a placare la sua ira. Rinfrancato, tornò ad osservare i pulvini. Più di ogni altra cosa lo attraevano i personaggi che vi erano rappresentati, colti di profilo - e non più di fronte com’era in uso nelle icone alle quali era avvezzo - raffigurati nell’atto di svolgere azioni concrete e resi con una vivacità e con un dinamismo che lo lasciava meravigliato, unitamente agli scenari in cui erano inseriti, ricchi di dettagli tratti dall'osservazione della vita reale. Sempre più sedotto dalla visione, volle chieder lumi di quelle novità iconografiche allo scultore che lo aveva introdotto nel recinto e che gli era parso il capo. Lo raggiunse e gli si rivolse esprimendosi in latino, ma quegli, per tutta risposta, lo guardò con aria interrogativa e iniziò a parlargli in un idioma dall’intonazione cacofonica, denso di sillabe ossitone e parossitone, in cui ad Alessandro parve di riconoscere la lingua di Bologna, città in cui da giovane aveva condotto gli studi, o tutt’al più un dialetto lombardo. Stava frugando nella memoria alla ricerca di vocaboli pressoché dimenticati, quando il timido tossicchiare di uno dei cardinali del suo seguito lo richiamò al presente.
Adesso l’abate era solo. Era giunto il momento di rompere gli indugi e di svelargli la sua vera identità.
La conversazione che ne seguì non è riportata in nessuna delle molte pergamene del monastero di santa Sofia, al cui posto, invece, pullulano gli OMISSIS.