Christian Petzold. La scelta di Barbara
Tutto è relativo. Nei primi anni Novanta un film come La scelta di Barbara, Orso d’Argento al Festival di Berlino 2012, sarebbe stato una rivelazione per il coraggio e l’onestà autocritica che avrebbero riaperto il ricordo ancora recente delle due Germanie divise. Un caso non dissimile da quello realmente accaduto per Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck, a cui il film di Christian Petzold è stato non a caso paragonato.
Ma nel 2013 La scelta di Barbara altro non è che un racconto didattico, stilisticamente impeccabile nonché prevedibile, che soddisfa le aspettative dello spettatore lasciandolo però del tutto freddo: un problema prodotto sia dalla costruzione narrativa del film che dal sedimentarsi dell’immaginarsi collettivo. Infatti, di fronte al tempo che passa, il cinema storico deve affrontare la sfida della graduale banalizzazione a opera della memoria degli eventi passati. Ciò che prima era il nostro presente, o passato prossimo, muta con gli anni nella trasmissione del racconto epico di ciò che fu; ma l’epica per sua natura deve sempre tendere a semplificare la realtà. Allora ci sono i buoni, gli eroi, e i cattivi da sconfiggere per conquistare la libertà, e La scelta di Barbara non è da meno nel narrare non i fatti storici quanto l’impressione che hanno lasciato nel ricordo: non può mancare perciò una protagonista stoica, leale e altruista, alle prese con l’indifferenza schiacciante di una dittatura impersonata da agenti, poliziotti e cittadini spietati, quasi monolitici nella loro apparenza.
Quella che può apparire un’analisi cinica nasconde una questione che il cinema odierno ha dovuto affrontare nel momento in cui ha smesso, nella liberalizzazione globale dell’informazione, di essere uno dei media selettivi attraverso i quali poteva essere perpetrata la memoria. Di fronte alla standardizzazione del sapere – tutti possono conoscere il mondo tramite infiniti canali mediali – non può più bastare la narrazione stereotipata, e il film di Petzold si trova in buona compagnia: anche quello che purtroppo da realtà tragica è divenuto mito, l’Olocausto, trova sempre più maggiori difficoltà a toccare il pubblico già istruito non sui fatti quanto sui ruoli dei personaggi storici, tranne fortunate eccezioni come il racconto personalissimo del recenteIn Darkness.
La cifra mancante de La scelta di Barbara, quella che al contrario ha permesso al sopracitato Le vite degli altri di mantenersi storia attuale, è l’ambiguità, fattore oggi indispensabile per poter non solo descrivere ma decifrare i nodi del passato. La non perfetta coincidenza di motivazioni, sentimenti e ideali che animano l’essere umano in ogni momento della sua storia è l’unica chiave per poter ancora render vivi i reali protagonisti dei grandi cambiamenti politico-sociali. Nello specifico, ora si necessita maggiormente di parlare dei cattivi piuttosto che dei martiri, proprio perché dietro di essi può nascondersi chiunque: parafrasando la tesi di Hannah Arendt, ciò che l’uomo deve temere di se stesso non è la crudeltà quanto la mediocrità.
Anche il cinema americano ha percepito ultimamente il cambiamento di rotta: Argo o Zero Dark Thirty sono la dimostrazione che oggi un film patriottico deve parlare innanzitutto dei peccati della patria, trasformando l’esperienza dei “buoni” da fatto inevitabile per la struttura epica della memoria ad avvenimento positivo malgrado le circostanze (l’insediamento di dittature sanguinose a opera del governo americano o la violazione dei diritti umani nel carcere di Abu Ghraib). L’ambiguità umana è un fattore complesso che una regia scolastica come quella de La Scelta di Barbara è del tutto insufficiente a descrivere. Se però questo fa immaginare che molti altri prodotti simili riempiranno gli schermi con risultati deludenti, la sfida della nuova testimonianza storica non potrà che regalarci, sebbene più raramente, film ancora autentici e sentiti.