Un libro di Jacob Stegenga / Curare e prendersi cura

23 Dicembre 2021

Ad un ennesimo, incauto, che un giorno gli aveva chiesto se avesse effettivamente letto tutti i libri della sua biblioteca, Umberto Eco raccontava di aver risposto che i libri non si comprano per leggerli – suvvia! – semmai per averli a portata di mano quando ti servono.

Alla categoria appartiene di diritto Curare e prendersi cura. Introduzione alla filosofia della medicina di Jacob Stegenga, appena edito da Aboca (l’originale è del 2018, e mai come in questo caso le date contano), un libro che è bene sapere in che scaffale rapidamente pescare quando se ne abbia bisogno. E certo, a maggior ragione da ché le nostre vite sono state travolte dall’onda (anomala?) di Covid-19.

 

Infatti, a chi non è capitato in questi ultimi due anni – più o meno quelli che passano tra la pubblicazione originale e la traduzione nel nostro paese – di discutere di medicina, diagnosi, terapie, epidemiologia, studi clinici, farmaci, vaccini, efficacia, effetti collaterali, salute, malattia… in casa (spesso forzatamente) o in pubblico, ascoltando i pareri esperti, le convinzioni personali o le opinioni estemporanee? Quanti, tra coloro che la medicina la conoscono, la praticano, la studiano – qualcuno purtroppo subendola, sia pur proattivamente, affetto da qualche grave patologia che lo ha indotto a leggere ed approfondire – si sono trovati, magari a tavola con qualche amico, nella necessità di specificare, chiarire, spiegare alcune tra le questioni “concettuali, metafisiche, epistemologiche e politiche” che sorgono nel campo della medicina, come Stegenga premette nella sua introduzione?

 

Libro utile, che non tradisce l’intenzione iniziale, una forma del discorso che rimanda alle dispense universitarie, scontando qualche eccesso didascalico che pur non nuocendo, specialmente alla lettura dei “non addetti”, un po’ irrigidisce la trattazione che forse si sarebbe giovata di qualche pretesa filosofico-metodologica più rivendicata, e che l’autore invece ha volutamente “cercato di zittire il più possibile”. Sicché, l’intento divulgativo è più che apprezzabile e, come spesso capita quando ci si immerge in un ambito così intrinsecamente complesso come quello della medicina, ci si accorge dell’ovvietà per cui la complessità non è semplificabile. Pure va studiata, compresa al meglio e, per quanto possibile, gestita. Alla fine, in medicina come in molti altri ambiti, bisogna saper decidere.

I concetti. È possibile parlare sensatamente intorno alla medicina non sapendo definire ciò che s’intende per “salute”, “malattia”, “morte”? La prima parte del libro è dedicato alle definizioni sine qua non. E scoprendo che già su queste ci si può dividere.

 

Per salute si può intendere una condizione di assenza di malattia, un approccio neutralista, o quella di salute positiva: nel primo caso solo i fatti oggettivi – mettiamo l’emocromo completo di quasi tutte le prescrizioni di base, per fare l’esempio più ovvio – determinano se una persona è in buona salute, nel secondo, a prescindere quegli stessi fatti oggettivi, è come si sente una persona a dirci del suo stato di salute. Se si segue alla carta la costituzione dell’OMS, “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o infermità”, indicazione che ricade nella definizione positiva e soggettiva. Del resto, mette sull’avviso Stegenga, se invece ci atteniamo ad una definizione neutralista (ma anche naturalista) e affermiamo che la salute è un concetto avalutativo che dipende unicamente da dati bio-fisiologici, se ci affidiamo alla teoria biostatistica di Boorse (anni ’70 del ‘900: “un individuo è sano quando le sue funzioni sono statisticamente normali”), pure la “norma” – di qui l’approccio normativista – richiede una classe o categoria di riferimento: per dire, l’efficienza del mio rene a confronto con quella dei reni di altri maschi della mia stessa fascia di età. Ma una delle critiche alla concezione naturalistica è che la natura in sé non suddivide i gruppi di persone in classi di riferimento: suddividere è operazione umana, culturale, si basa su conoscenze di base e contenuti valoriali. Dunque la concezione naturalistica, che sembrerebbe anche semplice e immediata, non è del tutto e propriamente “naturale”.

 

Ma torniamo al benessere di cui alla carta dell’OMS: come definirlo? La salute si distingue dal benessere? Lo può promuovere, in parte lo può costituire. D’altro canto (tutto il libro di Stegenga è costruito con argomentazione dialogica, si sente l’impianto pedagogico), poniamo che io soffra di diabete 1, quindi di una malattia che determina chiaramente, oggettivamente, il mio stato di salute, eppure riesca comunque a soddisfare tutte le mie aspirazioni: la mia salute è colpita, il mio benessere no. Ergo, anche l’ovvietà per cui una buona salute sia parte imprescindibile del benessere, sembra meno ovvia.

 

Secondo il normativismo la salute è uno stato carico di valore, e le concezioni positive (tipo OMS) sono tipicamente normativiste: molto dipende da ciò che s’intende per salute e per valori “normali” che, vedremo, cambiano anche con i tempi. Si capisce chi obietta che per giudicare qualcuno “in salute” ci si dovrebbe limitare esclusivamente ai criteri propri della medicina: se la tua emoglobina è a 14, bene, se è a 6,2 corri a farti una trasfusione. D’altra canto (!) se la salute “è uno stato di completo benessere…” i modi in cui la vita di una persona può migliorare hanno a che fare con istruzione, mondo del lavoro, ambiente familiare. La concezione positiva della salute – sottolinea Stegenga – tende ad ampliare in maniera spropositata l’ambito in cui quella concezione si applica. Non è una considerazione da liquidare in fretta, ci torneremo in chiusura.

 

Altra domanda che rimane banale solo per qualche decimo di secondo: se un individuo è affetto da un’anormalità fisiologica (quindi per un “fatto” oggettivo che la prospettiva neutralista considera significativo) la quale anormalità, però, rimane perennemente asintomatica: quell’individuo, è da considerarsi sano? Vi pare una domanda oziosa? Pensate ai programmi di screening, che traguardati da una prospettiva soggettivistica diventano problematici: andando alla ricerca di malattie fra individui che sono, al momento dell’indagine, sani, e che se sono affetti da forme patofisiologiche benigne non svilupperanno mai la malattia. Che dire: sono sani o sono malati? Si dice che la diagnosi precoce è la chiave di ogni possibile guarigione: ma se la diagnosi è troppo precoce, definendo una condizione di malattia che magari non diventerà mai conclamata? E all’opposto. Un monaco zen che abbandona tutto per andare a meditare in una grotta d’alta montagna: è in deficit calorico ma non sente fame, è esposto a temperature pericolosamente basse ma non avverte il freddo, non fa attività fisica pur essendo irrequieto. Ad un’osservazione terza sembra in cattiva salute eppure la sua mente è in uno stato di perfetta atarassia, sereno e soddisfatto. È fisicamente sano? Per il soggettivista sì, nella prospettiva oggettivista non lo è. E se provassimo con la fenomenologia? In fondo, l’esperienza della salute e della malattia non può che essere vissuta in prima persona.

 

Passando alla malattia: la socio-fobia è una malattia al pari del diabete? E la tossicodipendenza? Cosa significa catalogare una condizione come una malattia? Anche qui si definisce un approccio neutro-naturalista: “uno stato interno in cui la normale capacità funzionale è deteriorata”. Biostatistica della malattia. Sembrerebbe ragionevole. Sicché! Se parliamo di funzione deteriorata dobbiamo avere in mente una funzionalità normale, di nuovo: una normalità comparata a quella degli altri individui? A quelli dello stesso sesso? A quelli della stessa fascia d’età (la cui ampiezza va comunque determinata)? Per Boorse – ancora lui – la classe di riferimento appropriata è quella uniforme per specie, sesso e età. Decidere cosa significhi “normale capacità funzionale deteriorate” può essere meno immediato di quel che sembra: qual è il criterio? Un esempio forte: per molto tempo l’omosessualità è stata considerata una condizione patologica, venendo addirittura classificata nel DMS, la bibbia dei disturbi psichiatrici.

 

Jacob Stegenga


Oggi non riteniamo più che l’omosessualità sia patologica, non perché sono stati scoperti fatti naturali che confutano la precedente categorizzazione ma perché sono mutate le opinioni nella nostra società. D’altro canto (!), se il criterio che utilizziamo è quello della disfunzione in termini di successo evolutivo e ammettiamo che l’omosessualità diminuisce la fitness riproduttiva della nostra specie, ne consegue che l’omosessualità dovrebbe in effetti essere considerata una malattia. Punti di vista, criteri, conseguenti definizioni. Anche per il concetto di malattia, quindi, bisogna intendersi sull’approccio: naturalista, normativista, ibrido (le malattie sono disfunzioni dei sistemi fisiologici e sono dannose per i soggetti affetti da tali disfunzioni). Oppure eliminativista? Ovvero: la medicina non ha bisogna di una teoria generale sulla malattia per funzionare… e bona lé, commenterebbero a Bologna! Sicché, non casualmente, anche il capitolo sulla malattia si chiude con un riferimento alla fenomenologia: se infatti tutte le definizioni precedentemente argomentate hanno a che fare con la malattia per cosa essa “è”, l’approccio fenomenologico si pone una domanda diversa: qual è l’esperienza della malattia, quanto essere malati possa cambiare la nostra vita e renderla molto più difficile.

 

Con uno sviluppo argomentativo che si conferma pedagogicamente capitolo per capitolo, Stegenga prova a problematizzare la morte, uno dei temi centrali della medicina e, a partire dalla parte seconda, “Modelli e Generi”, le questioni della causalità e dei generi. Si comincia con la nosologia che si occupa della classificazione sistematica delle malattie: lo scopo è la distinzione a partire dalle cause – i criteri eziologici –, dal meccanismo patogenetico – i criteri fisiopatologici –, o in base ai sintomi. Quindi l’autore passa in rassegna le varie concezioni di causalità, affronta il tema della mono o multi-fattorialità delle malattie e arrivando alla definizione di medicina personalizzata. Procedendo per definizioni, ognuna delle quali data non una volta per tutte ma sempre in maniera problematica, a partire da punti di osservazione diversi, al capitolo cinque si arriva alla contrapposizione tra “olismo e riduzionismo” – un classico della discussione, anche quella da salotto di casa – avendo un’idea un po’ più chiara: il riduzionismo di fatto aderisce al modello biomedico tendenzialmente neutro-naturalista, l’olismo al contrario interpreta le malattie in un senso molto ampio, considerando il contesto socioeconomico e l’ambiente socio-familiare all’interno del quale un individuo soffre l’esperienza della malattia (in sostanza: un approccio alla salute positiva e alla fenomenologia).

 

Definendo e concettualizzando diventa più sensato riflettere su alcune domande, per esempio quelle sulle malattie controverse: lo è la dipendenza sessuale? O la sindrome di Koro (curiosi? È un disturbo nella cultura cinese in cui gli uomini manifestano una paura e un’ansia irrazionale che i propri genitali si stano restringendo a seguito di rapporti sessuali non culturalmente approvati). E che dire del nostro ADHD? Ne consegue la riflessione sul disease mongering (la mercificazione della malattia, la tendenza a definire patologiche condizioni che dovrebbero/potrebbero considerarsi naturali), che non riguarda solo esempi “facili” da discutere, menopausa o disfunzione erettile: ci sono ragionevoli dubbi anche sui livelli del colesterolo – un tema da disease creep, quando d’ufficio si diminuiscono le soglie diagnostiche dei parametri – e il conseguente uso o abuso delle statine. 

 

Posizioni diverse si possono avere sull’EBM, l’Evidence Based Medicine, contrapposta o complementare alle prove meccanicistiche: bisogna però intendersi sul significato di meta-analsi, RTC, studi di coorte, caso controllo, studi di laboratorio, case report, sperimentazione animale, sorveglianza post-marketing, bias (o errori sistemici). Tutte definizioni che vengono puntualmente fornite nel volume. Si capisce e si discute cosa si intenda per “oggettività e struttura sociale della scienza”, del rischio dei conflitti d’interesse come dei bias di pubblicazione. Si chiarisce il significato della “demarcazione” (un classico problema della filosofia della scienza: cosa sia scientifico e cosa no) e si mette sull’avviso riguardo la delicata questione dell’inferenza: una volta che si sono ottenuti risultati dalla sperimentazione clinica (RTC), come vanno fatte le inferenze sulla base di quei risultati? Basta sapere che un trattamento funziona (posizione EBM) o bisogna capire anche perché funziona (è la posizione dei meccanicisti)? Quali i criteri alla base dell’estrapolazione? 

 

Un tema enorme è quello che avverte come i pazienti reali sono spesso molto diversi da quelli selezionati per uno studio clinico: nei pazienti reali l’età, il sesso, la gravità della malattia e la quantità di altri farmaci che vengono assunti sono fattori che influenzano l’efficacia di un intervento farmacologico ma, guarda caso, “sono anche i fattori che spesso determinano se un individuo verrà selezionato o meno come soggetto in un trial”, nel senso che spesso non lo sarà. Di qui il problema della effettiva rappresentatività del campione. Capirne di più e meglio è fondamentale se non ci si vuole iscrivere al club dei litiganti da bar sport che, come oramai registriamo ogni giorno, è assai rappresentato sui social ma anche in molti talkshow televisivi.

Se ne dovrebbe capire di più e meglio – ma è difficile, ammonisce Stegenga – di misurazione dell’efficacia, di teoria dell’inferenza statistica, della differenza tra frequentismo e bayesianesimo, di fallacia del tasso di base… ed è difficile anche perché nei programmi scolastici tutto questo non si studia, se non occasionalmente. Un tema sul quale riflettere.

 

Solo queste conoscenze, infatti, ci permettono di affrontare con una minima cognizione di causa l’epidemiologia (o medicina) sociale: ne sentiamo parlare da quasi due anni. E si possono anche considerare le tesi – come fa Stegenga nell’ultimo capitolo – di coloro che affermano come i miglioramenti della salute osservati nelle società industriali nel corso degli ultimi due secoli siano il risultato non tanto di progressi della medicina (farmaci o trattamenti) quanto di misure di sanità pubblica (accesso all’acqua potabile) e di miglioramenti delle condizioni sociali (maggiore prosperità ed equità socioeconomica). Una tesi forte che consegue da una posizione, quella del nichilismo terapeutico, che interroga anche la (supposta) efficacia delle medicine alternative: l’omeopatia, l’agopuntura, per fare due esempi. Avendo a disposizione studi clinici che hanno abbondantemente dimostrato che queste cosiddette medicine hanno dato risultati equivalenti al placebo, se ne deduce facilmente che non sono efficaci. Risposta frettolosa, ammonisce Stegenga, giacché la nostra concezione di efficacia è inevitabilmente influenzata dalla concezione che abbiamo della salute e della malattia. Capite quanto è importante mettersi d’accordo sulle definizioni? Cosa s’intende per efficacia: quello che testimonia il paziente? Come interpretare la posizione nichilista di Richard Smith, ex-direttore del British Medical Journal, quando consiglia ai malati terminali di cancro di stare lontani dagli oncologi ambiziosi e semmai di contare su “amore, morfina e whiskey”? E come conciliare tutto ciò con il prestigio che, nonostante tutto, continuiamo ad attribuire alla medicina? “Sono domande interessanti e stimolanti che lasciamo in sospeso, per volgerci a un altro tema stimolante”.

 

Il limite di questo lavoro di Jacob Stegenga – un lavoro e un libro utile, lo dicevamo già – è in quest’ultimo passaggio che abbiamo riportato tra virgolette, ché proprio quando le domande si fanno pressanti e interessanti e stimolanti, l’autore invece cambia argomento. Aprendone di altrettanto interessanti e urgenti, ma lasciando il lettore “in sospeso”.

Perché verrebbe da sottoscrivere che certo, la medicina ha due ambizioni fondamentali, curare e prendersi cura, e la sua efficacia va dunque considerata sia quando è mirata alla funzione biologica normale della malattia e la riporta alla normalità (curare), sia quando allevia il danno causato dalla malattia (prendersi cura). Ma prendersi cura significa anche, forse soprattutto “dedicarci a prevenire le malattie invece che aspettare che si manifestino e solo a quel punto cercare di curarle”: la medicina preventiva. Che però amplia notevolmente i confini della medicina stessa, forse troppo, sembra implicare Stegenga: dove comincia e dove finisce il compito della medicina?

 

Tante domande, ed è un bene. E, come anticipavamo, il libro è stato pubblicato più di un anno prima della pandemia: lo scenario di chi lo legge oggi in traduzione è drammaticamente diverso, tanto da suggerire nella prefazione di Paolo Vineis, la necessità di un punto di vista molto più largo, quello di una “entropia planetaria”. Forse una nuova edizione in cui l’autore, accettando il rischio di “qualche pretesa filosofico-metodologica non più zittita”, la esplicitasse, aiuterebbe il lettore a misurarsi con alcune risposte: magari per polemizzare, o addirittura per prendere le distanze, ma con maggiore e più sicura cognizione di causa. 

Che è quella che, nella necessità di decidere, troppo spesso manca. 

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