Dire Goliarda dalla A alla Z
Nel maggio in cui Goliarda Sapienza avrebbe compiuto cento anni gli scaffali delle librerie e le sale cinematografiche (è da poco stata presentata la versione filmica de L’arte della gioia, regia di Valeria Golino) si affollano per celebrarne la vita e l’opera, sotto il segno del dire. Electa orchestra un contributo collettivo, un’enciclopedia dalla A alla Z a cura di Maria Rizzarelli che chiama in causa molte voci per dire di una: quella di Goliarda.
Enciclopedie A-Z risponde all’idea di raccontare un artista e la sua opera in forma di ‘dizionario comune; così anche per Goliarda Sapienza vengono radunate le penne di studiose e studiosi, e la tavola rotonda si fa libro, passaparola, lavoro di condivisione e corrispondenze. Non è forse questo l’esercizio ermeneutico a cui lo studio e la ricerca dovrebbero sempre chiamarci?
Le voci di Sapienza A-Z intessono un dialogo sotterraneo fatto di reciproci rimandi preziosi, nel felice tentativo di ricostruire un orizzonte di vita e letterario insieme.
Goliarda, dunque (voce a cura di Ippolita di Majo): cosa significa ritrarre una donna “inafferrabile, libera, anarchica, difficile da seguire nei suoi percorsi mentali”, che scrive, a sua detta, per essere fraintesa? Forse indagare il modo del suo dirsi: in Il filo di mezzogiorno Sapienza racconta il suo percorso di psicoanalisi, seguito all’elettroshock. “La narratrice ritorna dal passato: dal coma, dal regno dei morti, dal sonno, dal sogno, dalla pazzia, dall’amore anche, dalla stanza in cui è stata degente”, e dire io serve non per cercare la verità del sé (“Non sei che una bugiarda, così bugiarda che forse sarai poeta”, si legge nel testo pubblicato da La Nave di Teseo nel 2019), ma per mettere un minimo di ordine. Nessun grado di separazione fra bugia e Poesia (a cura di Anna Toscano): in L’arte della gioia è Modesta, la figlia inventata, a scrivere due testi poetici. Nella bugia della letteratura, nel tempo del racconto, esplode la poesia della personaggia; nel tempo della Storia Goliarda Sapienza ha iniziato a scrivere testi poetici dopo la morte della madre Maria Giudice, nel 1953: è nella notte in cui Maria muore che nasce “A mia madre” (una fotografia del manoscritto è inclusa nell’apparato a metà del volume). Seguiranno poi le centotrenta poesie della raccolta Ancestrale: “Tutti la apprezzano”, scrive Toscano, “nessuno fa nulla per pubblicarla.”
Nel 1979 Sapienza scrive Io, Jean Gabin: verrà pubblicato postumo, come gran parte dei suoi testi, nel 2010, per i tipi di Einaudi (era stata la stessa Einaudi ad accogliere, due anni prima, l’unica opera di finzione romanzesca di Goliarda: L’arte della gioia). Gabin, Jean (a cura di Chiara Tognolotti) è stato attore, star del cinema francese degli anni ’30: homme fatal, “crudele e dolce come un gabbiano”: “Sorridendo del sorriso di lui, mi osservavo allo specchio”, scrive Goliarda. La sua autobiografia di spettatrice è modellata a partire da un’identificazione profonda col divo, che travalica la dimensione cinematografica e sconfina nell’esplorazione del sé: “Io, che con Jean Gabin ho imparato ad amare le donne”.
Ecco che fa capolino la parola Queer (a cura di Charlotte Ross), perché “Sapienza anticipa le teorie queer elaborate nelle università a partire dagli anni novanta” elaborando una scrittura capace di ripensare continuamente il soggetto, e di accoglierlo nel suo dinamico divenire – in Io, Jean Gabin utilizza il pronome combinato “lui-lei” – scontrandosi con le “norme socioculturali binarie e oppressive di sesso, genere e desiderio”. In questo modo diventa capace di “queerizzare gli spazi eterotopici della pagina”, con grande audacia e molto prima del tempo, “per creare dei contesti in cui i soggetti eccentrici vengano sostenuti e rassicurati, in cui possano esprimersi come vogliono, senza essere giudicati o puniti.”
Una forma di anarchia che nasce politica (Anarchica, Stefania Mazzone) e diventa “una pratica di vita, oltre che una dimensione etica situata nel femminismo, nell’antiautoritarismo, nell’incessante lotta al patriarcato”, fondata sulla sovversione del genere, arriva a coinvolgere le voci narranti nell’autobiografia e nel romanzo. Anarchica, pioniera, anticipatrice (s’intitola Il calendario non mi segue il volumetto scritto da Anna Toscano per la collana Oilà, Electa 2023) Goliarda ha avuto molte vite, vissute quasi tutte nell’ombra. Una anche nel mondo del cinema: amava definirsi Cinemtografara (a cura di Lucia Cardone) “Lei il cinema lo conosce bene per davvero, giacché ne ha abitato, spostandosi e riposizionandosi incessantemente, in maniera anarchica, tutte le lande, comprese le più nascoste”, quelle che hanno a che fare con la costruzione dell’artificio filmico: dietro le quinte, come nell’antro magico del puparo (il fil rouge che lega la dimensione cinematografica a quella ludica è sottolineato nella scheda a cura di Giuseppe Carrara, Gioco, “La dimensione ludica si confonde molto spesso con quella del “far finta” – e in questo senso si connette strettamente con l’attività da cinematografara, attrice con la fascinazione per i pupi siciliani”).
È insieme a Citto Maselli, regista, a lungo compagno di vita e lavoro, che Goliarda abbandona gli abiti “cuciti” per le scene e inizia a studiare Roma con l’occhio della macchina da presa. Sarà dagli anni Cinquanta doppiatrice, assistente alla regia, addetta al casting, insegnante di recitazione. E secondo un’ipotesi avanzata dalla studiosa Emma Gobbato, osserva Lucia Cardone, si dedicò anche alla scrittura filmica: nella corrispondenza con Maselli all’epoca della produzione di I delfini (era il 1960) “i suggerimenti vergati da Sapienza oltrepassano le consuetudini della stesura di un copione, sicché lei si allarga […] fornendo indicazioni che definirei di regia”. Cinematografara, dunque, e cioè lavoratrice imprendibile, capace di spaziare fra gli ambiti della poetica cinematografica, poliedrica, ancora una volta diremmo: anarchica.
“Dopo le tentazioni del teatro e le ansie da “cinematografara”, la scrittura diviene il primo mestiere, serve a ricucire gli strappi della coscienza, contamina ogni spazio” (Diario, a cura di Stefania Rimini): nell’agosto del 1976 Angelo Pellegrini regala a Goliarda il suo primo “quadernetto per scrivere sciocchezze e no”, e prende avvio così, quasi di nascosto, ancora sotto traccia, la pratica di stesura dei Taccuini. Inizialmente diffidente rispetto alla pratica diaristica (per colpa della sua educazione mascolina, scrive Goliarda, “mi era stata indicata come una cosa femminile”) Sapienza “comincia a riempire pagine su pagine, a consumare penne e matite”: i taccuini diventano così quaranta, testimoniano una voce intima trascinata dalla ‘schiuma dei giorni’, “un canto libero” ha scritto Emanuele Trevi capace di farsi esercizio di visione e ascolto del mondo. Raccolgono osservazioni antropologiche sulle città attraversate, riflessioni sulla soggettività femminile, meditazioni su cinema e teatro che non sono solo lavoro ma “una grande metafora dell’esistenza”. Torna l’esigenza della scrittura come esercizio che mette in ordine, “scavo necessario e indomito” perché “la letteratura per Sapienza è questione di pelle.”
A metà libro il lettore troverà uno splendido apparato di fotografie. Fra appunti presi su scatole di zucchero e incipit di manoscritti, due sono quelle che trovo più eloquenti. In una foto a colori Goliarda è con gli amici in Costiera Amalfitana, due uomini fermi su una scogliera la guardano mentre lei si tuffa in mare, le braccia tese verso l’acqua, i piedi che si staccano dalla roccia. L’altra è uno dei suoi ritratti forse più famosi: seduta a un tavolino, ha una sigaretta fra indice e medio della mano destra; non guarda l’obiettivo, ha la testa leggermente piegata, lo sguardo laterale, tentacolare, multiforme – altrove. Come molte sue colleghe scrittrici, anche Sapienza non ha avuto, per molto tempo, alcuno spazio nel discorso letterario. Eccola finalmente, dunque, Goliarda: raccontata attraverso ricerca delle studiose e degli studiosi che hanno provato a ricostruire la sua voce (sfuggente, altra, libera).
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