Maddalena Fingerle, la lingua del ventre
Tutto, nell’ultimo romanzo di Maddalena Fingerle (Pudore, Mondadori 2024, 173 pp.) passa per il corpo: ne subisce le modificazioni, come in una sorta di campo magnetico letterario, non sfugge al controllo sulfureo dell’organismo. Tutto è carne, pelle, raccontato in una lingua prepotente, urticante, che non lascia scampo, non sa far sconti.
Ci sono due giovani donne. Una è Gaia, l’altra Veronica. E se è vero che Gaia non è felice (“Il mio è un nome sbagliato perché prende una decisione a priori sul mio carattere obbligandomi a essere in un modo che non mi va”) e rifiuta persino la sua etimologia onomastica – non c’è omen nel suo nome, dal destino è sempre in fuga – Veronica sì che può essere vera eikon, vera immagine: l’unica possibile, quella a cui Gaia vuole assimilarsi in un disperato tentativo di fare uno, annullando la sua differenza.
Gaia e Veronica non stanno più insieme. Sono state compagne però, e la loro relazione è durata tanto a lungo da gettare Gaia, a cui è affidata la narrazione in prima persona – un lungo acuminato flusso di coscienza – nello sconforto, costringendola a ripensare radicalmente ogni angolo sbandato e balordo della sua vita dopo la rottura.
Gaia è figlia di un professore universitario e di una donna estremamente eccentrica, sono italiani ma vivono a Monaco. Ha un fratello terapeuta che stima pochissimo, ma al quale affida le poche confidenze a cui riesce ad abbandonarsi. Nella sua famiglia talmente infelice da risultare quasi insopportabile non c’è equilibrio emotivo: altoborghesi lontani da qualsiasi forma di manifestazione emotiva, ciechi di fronte ai bisogni dei figli, sordi alla differenza di una figlia omosessuale rifiutata, accolta solo per ricomporre il quadretto di un nido fintamente idillico. Il vero ago della bussola è Filomena, la domestica, trattata alla stregua di una serva con toni para-ottocenteschi (ha le sue stanze, il basso microcosmo in cui è rilegata, non può accedere alle riunioni di famiglia durante le quali le porte vengono serrate per segnare una distanza profondissima) e però è l’unica capace di vedere Gaia nel suo essere vite storta, e amarla anche per questo. “Chiudo solo gli occhi, mi ricordo della storia che mi raccontava Filomena, me la ripeto, ricostruisco mentalmente la pagina a sinistra. Volata. Metà bambina metà ape. Volavo dritta verso il sole. È una bella vita quella dell’ape. Libera. Difficile da spiegare. […] Ti senti leggera. C’è sole dappertutto e nessuna preoccupazione.” È l’unica che prova a insegnare alla bambina a dare un nome a ciò che sente: “Quando ero piccola Filomena mi faceva scrivere su un foglietto come mi sentivo, diceva giuro non guardo, poi inserivamo il biglietto nei barattoli dei sentimenti. […] Mio padre diceva sprezzante che non sapevamo distinguere neanche tra emozioni e sentimenti.”
In ogni sua declinazione, Veronica è elevata a simbolo. Ogni piega del suo essere corrisponde a qualcosa che Gaia vuole rifiutare di sé, a cominciare dal proprio status sociale. L’assimilazione a Veronica diventa pretesto per Gaia per provare a prendere le distanza dalle sue radici: “Io non sono come loro, io sono come te”. Persino il suo cattolicesimo è puro rispetto a quello della famiglia di Gaia: “Il cattolicesimo dei miei genitori era un cattolicesimo incattivito da ricchi classisti, niente a che vedere con quello buono, ingenuo e superstizioso di tua madre”. La sua lingua madre è il dialetto salentino, recuperata nel ricordo ancora pieno di speranza: “Persona in prossimità: Lei: issa. Lui: issu. Persona non più in una prossimità intima o personale. Lei: idda. Lui: iddu. Il desiderio sussurrato che tu fossi per sempre issa.” Una lingua vergine, ancestrale, non già imborghesita e sterile, incapace di farsi carico di un sentire e del bisogno di prossimità.
“Ora che non ci sei più nessuno mi dice che sono brava, che sono bella, e forse è anche per questo che sto cercando di diventare te.” La negazione dell’amore diventa motivo di perdizione e causa di un desiderio mimetico spinto fino all’eccesso alienante del sé. Quando Veronica distoglie il suo sguardo da Gaia le nega una sorta di diritto di riconoscimento: smette di vederla e lei cessa di esistere, per questo sente il bisogno di farsi altra, scegliendo di pagare il prezzo di una forzatura innaturale. Gaia è tormentata da una forma di orticaria che le causa pruriti disperanti che arrivano perfino a toglierle il sonno, e quando prova a indagarne le cause – anche in terapia – arriva a riflettere: “La mia vita è totalmente cambiata perché gioco, senza divertirmi, a essere te, indosso i tuoi abiti, utilizzo i tuoi prodotti, lavo vestiti e lenzuola con il tuo detersivo, mi lavo il corpo con il tuo bagnoschiuma, mi trucco con i tuoi trucchi. […] Ma come potrei spiegarlo alla dottoressa.” Forse è all’altra, al suo rifiuto e al suo mistero, che Gaia è davvero allergica. “Devo tenere conto che la pelle è il rivestimento più esterno che abbiamo, è a stretto contatto col mondo”. In questo senso la scrittura di Fingerle è mimetica nel dire un tentativo di mimesi. Conserva il ritmo martellante, scomodo del corpo che reagisce al lutto – cammina un poco, poi si ripensa, torna sui suoi passi.
In questa lingua del ventre, delle viscere e della bile, dell’odio e del desiderio di sopraffazione (l’esordio di Fingerle si intitolava Lingua madre, l’ha pubblicato nel 2021 Italo Svevo e diceva anche di una certa ossessione per le parole, pulite e sporche, altalenanti: “Tu sei la prima in tutta la mia vita che non mi sporca le parole, in realtà me le pulisci proprio” – anch’esso romanzo con al centro le dinamiche di una famiglia) Fingerle racconta l’asfissia del fare uno, la ricerca affannosa di una perfetta sovrapposizione con il corpo dell’altra amata, perduta e però ancora percepita in ogni fibra, presenza materica e fantasmatica a un tempo, assillante, sempre presente: “Rimango sola insieme a te che sei me. Non sai cosa fare, mi accarezzi il viso e io non piango più di pancia, le lacrime scorrono veloci e cadono sul seno, ma ora sono più tranquilla. Ti guardo e non so come dirtelo, che va tutto male, malissimo, una vera merda. […] Mi abbracci forte, senti il mio corpo aderire al tuo e alzi lo sguardo, cosa sta succedendo?” Il dialogo non è dialogo: manca l’altra. È richiesta impossibile, estrema, piegata su se stessa. Una voce narrativa dotata di carattere, fortemente riconoscibile, che conosce il segreto letterario del tormento.