Miracoli e tradimenti di Valeria Parrella
All’origine della letteratura c’è una donna che racconta – storie brevi, una notte per volta: lo fa per salvarsi la vita. È una donna che inganna, e quindi tradisce. La letteratura nasce dunque come forma di tradimento, e nasce femmina nella voce di Shahrazād, madre di tutte le storie: “Le donne raccontano storie, e c'è sempre una donna all’origine del potere incantatore di ogni storia” ha scritto in proposito Adriana Cavarero.
È tornata in libreria Valeria Parrella, e lo ha fatto con una raccolta di racconti intitolata Piccoli miracoli e altri tradimenti (Feltrinelli 2024, 112 p.): il primo piccolo miracolo e il primo altro tradimento è senza dubbio la forma racconto, alla quale Parrella torna dopo aver girovagato tra quasi tutte le forme letterarie – è autrice di romanzi, testi teatrali, giornalista – ventun anni dopo l’esordio con Mosca più balena, sei racconti pubblicati nel 2003 per Minimum fax.
Tracciare una genealogia per il racconto italiano è in effetti, come Parrella ha più volte ribadito, assai immediato: basti pensare al Decameron prima, a Lo cunto de li cunti poi: uomini, donne, eroine e ciarlatani che in qualche modo portavano sulla pagina pezzi di mondo – amore, paure, bugie.
Quanto alla genealogia letteraria di Parrella, mi sembra assolutamente chiaro che faccia i conti con l’eredità straordinaria di Anna Maria Ortese, che con Il mare non bagna Napoli aveva trovato le parole più cristalline per dire un’intera città e i suoi abitanti, cogliendo le sfaccettature della vita che va. Già ai tempi del suo esordio Parrella aveva scelto Napoli come soggetto d’elezione, assecondando benissimo, in un eccellente gesto mimetico, i ritmi della sua lingua così musicale. Aveva anche mostrato un certo interesse per “il ventre di Napoli”, come aveva scritto Serao – già nella storia della ragazza orfana di padre che desiderava “essere una signora”, e poi nel racconto “Asteco e cielo”: “Il mio quartiere ha il numero di una legge, 167. Un giorno prendo un codice e vedo che significa. (…) L48 167 LOTTO 11 ISOLATO 20 SCALA A PIANO 9° ASCENSORE ROTTO. Sembra una piramide, o una vela”.
E ancora la fabbrica, l’Italsider, che si staglia sullo sfondo di alcuni testi in Mosca più balena e ancora in Piccoli miracoli. Parrella raccoglieva così il testimone di impegno politico letterario di un maestro, Ermanno Rea, che con La Dismissione aveva posato il suo sguardo critico sull’Ilva di Bagnoli, raccontando la storia di un operaio.
Nel primo racconto contenuto in Piccoli Miracoli l’Ilva è parte del quartiere in cui vive la protagonista, stabilimento gigantesco ormai non più in funzione, raccontata come una grande, inaccessibile cattedrale: “Il quartiere. Cosa gli vuoi dire al quartiere? Voi l’avete mai vista, l’Italsider da dentro? No. Perché non ti fanno entrare (…) Certo, puoi passare da un foro nel muro di cinta, ma lo fai di notte. E di notte l’altoforno 4 sembra una cattedrale, con le sue volte di ferro.”
Lo spazio, nei libri di Valeria Parrella, non è mai solo sfondo: è spazio sociale (anche quando è spazio dell’antichità, come in “La fortuna”, ambientato nella Pompei prima dell’eruzione) intessuto di legami fra individui; come la letteratura, come la Storia (con Gramsci, scelto per l’esergo di Almarina), lo spazio è di chi lo abita. E così nel testo assieme a Bagnoli e alla fabbrica compaiono – dentro Bagnoli – le attiviste e le loro lotte: ancora in quel primo racconto, intitolato “Mamma”, ecco Marina Farina “maestra elementare di mio figlio, occupante per centododici giorni della scuola quando il comune voleva fare un’altra cosa”. Sono tante le donne nei racconti di Parrella che si fanno portatrici di una denuncia sociale: in Mosca più balena c’era Adriana (il racconto è “Montecarlo”) figlia di due operai inghiottiti dall’Ilva, che come dipendente comunale stava seguendo il progetto di bonifica dell’impianto: “Piangeva la fuliggine nera sui pavimenti della casa, la polvere che tossiva sua madre”. Così per il racconto passa la descrizione di una forma di vita possibile: la vita in lotta.
In una lingua magica, sempre evocativa, maneggiata con cura e con grazia, la letteratura di Parrella dice vita. Dice corpo, sesso, desiderio, paura, perdita, lutto, sogno, persino. Non si ritrae di fronte al non detto del quotidiano, non conosce il pudore (perché la letteratura dovrebbe conoscere il pudore, d’altronde?), non cerca vie secondarie per evitare di sfidare il reale. Durante il suo reading in una Feltrinelli di Milano lo sconosciuto seduto accanto a me sfogliava il racconto intitolato “Piccoli miracoli” e diceva tra sé “Caspita, è forte.” Il testo in questione – è forte! – ruota attorno al desiderio. O forse ne è permeato, perché il desiderio è ovunque: nelle virgole, nella struttura delle frasi, nell’architettura del tutto. La prima frase è questa: “Fu chiaro subito che, se fossimo stati liberi, ci saremmo messi insieme”; l’ultima: “Allora le benedico, e torno a chiedermi di chi fosse quella frase, quella sull’amore che non è altro che farsi cinquecento chilometri per una scopata”. Fra questi due poli si dipana il filo di una storia d’amore clandestina raccontata con la voce di una donna. Un inizio e una fine, il sollievo persino, il sorriso, filtrato attraverso un timbro sincero che nomina ogni cosa, trova una parola per ogni sentire – anzi: trova le parole per stare dentro al sentire.
Valeria Parrella è maestra nel dire le donne, quello che pensano, come si muovono. Lo è in Piccoli miracoli, lo è stata nei romanzi – Lettera di dimissioni è un bellissimo esempio di autoritratto a un tempo intimo e politico, la storia di Clelia e delle sue battaglie, il suo passato ripercorso in prima persona fra ferite, amore e compromessi; poi Tempo di imparare e Lo spazio bianco, che dicevano il materno con parole nuove, col lessico della paura, e ancora Almarina, romanzo su cosa significhi donare ed educare. Lo è ancora in questi racconti, più radicalmente: attentamente sa coglierne le contraddizioni, le sfaccettature, persino le esitazioni, quelle sensazioni che sembrano indicibili e segrete, inconfessabili: “Avevo un balloon qua grandissimo con quattro parole dentro. E di certo in un altro quartiere, in un altro momento, in un’altra età, a un’altra ora della mia vita, avrei aggiunto quell’ultima parola.”
Vorrei soffermarmi ora su un racconto in particolare, “Caffè”, per mostrare un esempio della precisione filologica che sorregge questi testi, tutti accomunati dall’esistenza di una soluzione (in senso etimologico: qualcosa che li sciolga, un fischio, un segno).
La protagonista qui è Margherita: è una bambina, vive con i suoi genitori in una casa dalla collocazione un po’ strana – dalla finestra della cucina l’unica cosa visibile è il muro del palazzo di fronte. Torna l’idea dello spazio parlante: il muro è un possibile limite all’immaginazione. Il padre di Margherita è un uomo violento, sua madre una casalinga apparentemente un po’ ossessiva che la domenica dopo il pranzo lava tutta la cucina con rigore estremo, e ciclicamente organizza una pulizia talmente profonda da essere soprannominata “la radicale”; l’unica macchia che sempre sfugge alla radicale, quattro volte l’anno, è una “lacrima di caffè” sulla porta d’ingresso: è lì da quando il padre di Margherita ci ha scagliato contro una tazzina, un giorno.
Margherita è una bambina che legge molto, “si sarebbe voluta chiamare Emma, come madame Bovary”, sa a memoria le date di nascita e morte dei poeti. “Dentro il libro c’era il mondo, ma pure fuori la finestra, muro o non muro, c’era un mondo. E anche dentro le cose”: anche le cose non sono solo le cose. Un giorno suo padre va via di casa: come Margherita aveva imparato dalle abitudini di suo fratello maggiore Gerardo, “Gli uomini, se decidono di uscire, escono”. E così un posto in meno a tavola, i vestiti riposti via, più spazio nell’armadio.
Alla notizia della morte del padre, moltissimi anni dopo, la madre vuole a tutti i costi che la salma sia tumulata presso il cimitero del Paese: “Voleva essere vedova con infinita forza, molto più di quella che aveva fatto intendere per essere moglie”. Trovato il certificato d’acquisto del loculo, “Si inginocchiò dietro la porta dell’ingresso e ci sputò contro. E poi, tirandosi la manica fin sul pugno, cancellò la lacrima di caffè.”
È una storia, questa, di violenza e sopruso, di un muro che vorrebbe limitare un mondo ma finisce per crearne molti altri, di due donne in una posizione di subalternità rispetto agli uomini di casa; è raccontata nella prima parte attraverso il filtro narrativo di una bambina, poco più che dodicenne, che cerca rifugio in altre realtà e mai smette di immaginare mondi possibili.
L’architrave dell’intera narrazione è la lacrima di caffè. Non macchia ma lacrima – per questo parlo di precisione filologica. Lacrima come quelle che si piangono, e che la madre di Margherita non versa mai, non quando subisce le violenze di suo marito, non quando sceglie di mostrare il suo lutto. E questa sua forma di vedovanza elettiva, che desidera con “infinita forza”, è in realtà solo nostalgia del sé perduto: riordinando gli abiti del padre alla ricerca del certificato d’acquisto del loculo, Gerardo commenta “Quella sta pensando a papà.” Ma la voce narrante gli fa eco: “La madre stava pensando, con una nostalgia che la straziava, a quanta energia avesse avuto da giovane. (…) Di questo aveva più di ogni cosa nostalgia la madre: della sua forza fisica.” Il lutto è solo apparente: è il lutto del tempo andato.
Quando suo padre aveva lanciato la tazzina contro la porta, cercando di colpire la moglie, la porta si era chiusa e la donna era ormai fuori. Le cose non sono le cose, e le parole dicono altro: tutto è simbolico. La lacrima di caffè, rimasta lì a testimonianza delle volte in cui la madre s’è salvata, in passato, può essere lavata via – con uno sputo – soltanto alla morte del padre, che coincide col momento in cui la madre ripensa a quello che è (non) stata.
Parrella trova sempre “la maglia rotta nella rete che ci stringe” – la trova nell’ordinario, nel miracolo piccolo, comune, quotidiano, in un dettaglio doloroso che sembrerebbe minore. A giochi fatti quasi sempre il lettore lo coglie, e sempre si stupisce. Forse proprio in forza della loro piccolezza quei dettagli sono destinati a restare impressi – la lacrima di caffè ne è d’altronde un esempio straordinario.
Forse può valer qualcosa soffermarsi su un dettaglio di cornice: Parrella dedica questo libro a un nutrito gruppo di scrittrici – Caterina Bonvicini, Teresa Ciabatti, Helena Janeczek, Rossella Milone, Evelina Santangelo, Alessandra Sarchi, Chiara Valerio – con le quali ha imparato, dice, “un tempo di rassegnazione e amore” in cui ha abitato la scrittura di questi racconti. A dimostrazione del fatto che la scrittura delle donne non nasce nel vuoto, ma si nutre dei rapporti e delle relazioni con le altre, dalle quali mai si smette di imparare e per le quali, talvolta (sempre?) si scrive, e si rinasce. Come scriveva Patrizia Cavalli, scelta per l’esergo di un racconto in Mosca più balena: “Nascere ancora, molte volte / ma non del tutto nata, / accanto a molte madri, nuove madri”. Ecco Valeria Parrella, ecco le scrittrici, figlie di Shahrazād: racconteranno ancora, diranno sempre. Le aspetteremo con curiosità e gratitudine.