Rachel Cusk: tra letteratura e vita
Quando ho compiuto diciotto anni ho imparato a guidare e preso la patente. Non ero particolarmente portata, all’inizio, e per questo ripetevo, sola nella mia macchina, sempre lo stesso percorso: da casa alla libreria più vicina, e viceversa. Ho comprato in quel periodo tantissimi libri, e mi pare che in quel tragitto si annidasse il barlume di una ricerca, e forse persino di un desiderio, che legava la mia andatura incerta alla lettura, e alla letteratura. Cosa ci lega alla necessità di scrivere, di leggere? Perché camminiamo, guidiamo, raggiungiamo una libreria, apriamo la porta, cerchiamo un libro tra gli scaffali? Cosa, nelle nostre vite, si annoda al bisogno di raccontare e farci raccontare? Ci ho pensato leggendo il primo testo raccolto in Coventry di Rachel Cusk (Einaudi Stile Libero 2024, 215 pp., traduzione di Anna Nadotti e Isabella Pasqualetto); il racconto si intitola “La guida come metafora” e osserva – un po’ come in certi passaggi scritti da Georges Perec – i guidatori nella zona di campagna dove vive l’autrice, vicino al litorale: “Nel posto in cui vivo, c’è sempre qualcuno che guida lentamente”. Il racconto della guida è pretesto per dire qualcosa d’altro, simbolo: l’osservazione non è mera osservazione, ma registra in qualche modo una postura, un modo di stare al mondo, una metafora, appunto, che gioca col gusto della narrazione: “Obbediscono alle regole della strada in modo così solerte e sussiegoso che il loro comportamento diventa un elemento di distrazione, come attori che mettono a repentaglio una scena di gruppo richiamando costantemente l'attenzione su di sé e sul proprio ruolo. È come se, per loro, la strada non fosse una realtà condivisa, bensì una sorta di finzione, un’occasione per rendersi visibili indossando una maschera.”
Il tema della guida diventa il pretesto per riflettere sulla vita, formalizzato in un testo che ha il tono della letteratura: “Per quanto mi riguarda, non ho mai pensato di non guidare. Se non avessi imparato, la mia vita avrebbe senz’altro preso una piega un po’ diversa: credo che non sarei potuta venire a vivere qui, per esempio. […] “Quando guardo alla mia storia di guidatrice, comincio a vederci un’analogia con la storia delle mie scelte, di tutte le cose che ho fatto succedere e che da sole non sarebbero accadute.”
Qual è il senso di questo movimento del pensiero? “Mi ritrovo a chiedermi quale sia la natura della storia che ne è venuta: il suo rapporto con la verità è opaco.” Dire del narrare, dunque, mentre si narra.
“Di nuovo a casa, un giorno, dopo una curva lungo una delle strade deserte della zona, mi sono imbattuta in un’auto sportiva ribaltata sul ciglio della strada. […] L’uomo indossava ancora gli occhiali da sole; il cappello a larga tesa della donna era in mezzo alla strada. L’incidente probabilmente era appena successo, ma nessuno se n’era accorto e non c’era nessuno.”
La scena con cui Cusk chiude il saggio è un dipinto. L’incidente è ormai avvenuto, nessuno guarda: nessuno è la parola che chiude un saggio popolato di guidatori e guidatrici più o meno lenti, spesso curiosi, affaccendati nel gran teatro della litoranea. Resta sulla scena l’io narrante: è di passaggio, fuori e dentro; solo chi scrive è lì, lo racconterà poi – c’è una storia da raccontare, un’andatura da seguire – e un giorno chiuderà un testo intitolato “La guida come metafora” con la parola nessuno.
Cusk abita con grazia il confine osmotico fra vita e letteratura, e riporta il modo in cui scrittura e osservazione del mondo sono in contaminazione perpetua – e felice, perché il passaggio dal mondo scritto a quello non scritto è sempre un miracolo da salutare con gratitudine. Tale confine rispecchia l’andamento della raccolta: nella prima sezione Coventry ospita saggi somiglianti per certi versi agli elzeviri del Signor Palomar che osserva la superficie riflettente delle cose (“Sulla maleducazione”, “Del metter su casa”); nella seconda sezione raccoglie saggi in forma speculativa a partire da argomenti letterari e non (da Bourgeois a Fitzgerald, passando per la vita di San Francesco); la terza sezione è occupata dal racconto di alcune opere letterarie, libri che in qualche modo hanno sicuramente influenzato formazione e scrittura di Cusk. Nel testo dedicato a D. H. Lawrence (di cui viene menzionato L’arcobaleno) Cusk scrive “Ma Lawrence aveva l’amara consapevolezza che gli veniva dall’esperienza, sapeva che l’originalità e la verità saranno sempre e comunque respinte dall’opinione comune. Era all’individuo che lui si rivolgeva, perché è come individui che leggiamo.”
Lo sguardo su Lawrence non è innocente: la sua figura aleggia sull’ultimo romanzo della scrittrice canadese, La seconda casa (Einaudi 2023, traduzione di Isabella Pasqualetto); come indicato in chiusura, il testo deve molto a Lorenzo in Taos di Mabel Dodge Luhan’s, memoir del tempo che l’autrice ha passato con D. H. Lawrence a Taos in New Mexico. La seconda casa riscrive Lawrence come pittore, trasformandolo nel personaggio L: un omaggio che si chiarifica leggendo Coventry: “Ecco perché Lawrence era uno scrittore, e perché leggerlo resta un atto sovversivo, trasformativo, che cambia la vita.”
Coventry
“Di tanto in tanto, per offese reali o presunte, mia madre e mio padre smettono di parlarmi. In Inghilterra c’è una curiosa espressione per indicare la cosa: si dice «essere mandati a Coventry».”
Ci vuole pazienza per mandare qualcuno a Coventry, perché è una punizione fatta di silenzi: non ce ne si accorge subito, è un processo di esclusione dal dialogo quasi impercettibile e per questo crudele. Ma stare a Coventry significa imparare ad abitare una condizione di outsider: “Le storie funzionano solo – o cosí ci è sempre stato detto – grazie alla sospensione dell’incredulità. Ma a me non è mai stato chiaro se l’incredulità sia qualcosa che altri sospendono per noi, o se ci si aspetta che siamo noi stessi a sospenderla. […] Essere mandati a Coventry è forse un esempio di tale cospirazione: sarebbe difficile mandare a Coventry qualcuno che rifiuta di credere di essere lí, né piú né meno com’è difficile combattere con un pacifista. Gran parte del mio stare a Coventry, ora me ne rendo conto, sta nella mia disponibilità a riconoscere e accettare la condizione di reietta. Sospendevo la mia incredulità e cosí facendo compromettevo, in un certo senso, il mio rapporto con la realtà.”
Nel chiudere quest’incursione dentro, fuori e attorno alla cittadina inglese distrutta dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, Cusk racconta di un progetto di ricostruzione della cattedrale di Coventry intrapreso da alcuni artisti, nell’immediato dopoguerra: “Pare che la gente guardasse con sospetto la concezione modernista della nuova cattedrale: quando ciò a cui eri abituato è irrimediabilmente perduto, è difficile credere in qualcosa di nuovo. Tuttavia decisero di sospendere l’incredulità. Le nuove cose presero forma, divennero realtà. Ciò che bisognava cambiare, fu cambiato, allo stesso modo in cui erano state distrutte le vecchie cose: non dal tempo, ma dalla volontà umana.”
Cosa chiede un narratore al suo pubblico se non la sospensione dell’incredulità, sulla soglia dell’opera letteraria, nel gesto – antico quanto l’umanità – della stipula di un patto narrativo? Cose nuove prenderanno forma, occuperanno spazio nella realtà, il mondo si moltiplicherà, altri ne nasceranno ancora.
Scrittura femminile
Cosa è la scrittura femminile?, si chiede Cusk – scrittura di temi del femminile – maternità, vita domestica, matrimonio, corpo della donna? Lo fa alla luce della sua produzione letteraria, senz’altro, ripercorrendo strade di pensiero che l’hanno impegnata a lungo: in Il lavoro di una vita (Einaudi, traduzione di Anna Nadotti) dialogava idealmente con Rich, autrice di Nato di donna (ripubblicato da Mondadori di recente, con un’introduzione di Nadia Terranova) – “Cusk smette di chiedersi cos’è una donna se non è una madre, e inizia a chiedersi cos’è una donna se è una madre”, aveva scritto Isabella Pasqualetto per doppiozero.
Nel rintracciare l’esistenza di una genealogia di pensiero, indicando De Beauvoir e Woolf come punti di partenza di un discorso intorno alla scrittura femminile, Cusk si chiede quale sia, nel XXI secolo, il valore di questa etichetta. “Credo comunque che la «scrittura femminile» di per sé non ricercherebbe un’equivalenza nel mondo maschile. Sarebbe una scrittura portata a esprimere una differenza, non a negarla. Quando una donna nel XXI secolo si mette a scrivere, probabilmente si sente piuttosto asessuata. Non vuole né esprimere né negare: vuole solo essere lasciata in pace. Non è nemmeno escluso che nutra una certa ostilità verso il concetto di «scrittura femminile».”
Cusk accomuna le riflessioni contenute in Una stanza tutta per sé e Il secondo sesso osservando come “Sia Woolf che De Beauvoir sostengono che nessuna donna – nemmeno con una stanza tutta per sé – avrebbe potuto scrivere MobyDick o Guerra e pace, perché «è la civiltà nel suo insieme a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna»; e alla donna è mancata non solo una stanza, ma anche una letteratura tutta per sé.” L’assenza della genealogia è rintracciata come nodo fondamentale; d’altronde, osservava con straordinaria precisione Woolf, la letteratura non si produce nel vuoto, e l’ingegno ha necessità di ancorarsi a una tradizione. Ma l’assenza di testi scritti da donne è un tema che nasconde una profondità altra, che chiama in causa un’idea di differenza: “Per metà silenzio, per metà enigma: le parole «scrittura femminile» non connotano semplicemente una letteratura fatta dalle donne, bensì una che emerge e prende forma in un insieme di condizioni specificamente femminili. Un libro non è un esempio di «scrittura femminile» solo perché è scritto da una donna. Può diventare «scrittura femminile» quando non avrebbe potuto essere scritto da un uomo.”
Ecco dunque che il discorso si riallaccia idealmente alla teoria della differenza, “Perciò, l’uguaglianza può essere raggiunta solo attraverso la differenza”. Scriveva Hélène Cixous in Il riso della Medusa: “Il faut que la femme s’écrive: que la femme écrive de la femme et fasse venir les femmes à l’écriture, […] Il faut que la femme se mette au texte — comme au monde, et à l’histoire, — de son propre mouvement.” La scrittura femminile per Cixous rivendica il proprio diritto d’essere, attraverso il gesto di ‘mettersi al testo – e al mondo, alla storia’ con un movimento proprio, altro, radicalmente diverso dal maschile: “Può diventare «scrittura femminile» quando non avrebbe potuto essere scritto da un uomo.” E forse il vero suggello di questo discorso è rintracciabile nelle riflessioni di Cusk attorno alla scrittura – femminile, ma mai esibita – di Ginzburg, “L’accettazione del suo essere donna è stata fondamentale per la sua nascita come artista […] si trattava dell’accettazione di sé necessaria a parlare con la propria voce.”
Quanto alle condizioni materiali di vita delle donne, “Woolf ammette che una scrittrice potrebbe aver bisogno di distruggere tutto – la frase, la sequenza, la forma stessa del romanzo – per creare la propria letteratura. E si chiede inoltre se un legame situazionale tra la vita delle donne e il loro lavoro, lungi dall’ostacolarla, possa essere necessario alla scrittura; se, in altre parole, Orgoglio e pregiudizio sia un romanzo impeccabile proprio perché Jane Austen lo scrisse dietro la porta del salotto di casa.”
Ancora, nella scrittura scorre la vita: e torniamo dunque al punto dal quale abbiamo preso le mosse. La parola scritta sulla pagina riflette sul mondo che si dipana là fuori, oltre la porta; e insieme riflette quel mondo, come specchio inesauribile (qualcuno, un Palomar, guarda il mondo come specchio), luna dalla quale s’osserva la terra. Talvolta una Rachel Cusk si nasconde dietro la porta del salotto di casa e scrive senza sosta, dando vita a pagine che catturano pezzi di mondo e qualcosa in più, inventando la letteratura. È all’individuo che si rivolge: come individui noi la leggiamo.
(Vorrei a margine soffermarmi sul lavoro di traduzione di questo libro: la prima voce italiana di Rachel Cusk è stata Anna Nadotti, che ha tradotto la trilogia di Resoconto e Il lavoro di una vita. Nadotti ha poi passato il testimone a Pasqualetto: lo raccontano in questo dialogo, “Dal punto di vista esistenziale e culturale, quando hai fatto tante cose la cosa più bella da fare è lasciarle fare ad altri, magari accompagnandoli per un tratto”: per questo la lingua di questo testo è frutto di un lavoro generoso, è storia di dono, collaborazione e fiducia – valori che danno inconsciamente forma alla nostra idea di letteratura.)