Antonio Prete, un’infanzia nel Salento
Ho portato l’ultimo libro di Antonio Prete, Album di un’infanzia nel Salento (Bollati Boringhieri, 2023, 140 pp.) in un viaggio lungo la costa Adriatica: lasciavo Milano per tornare a casa per Natale. Come Prete sono nata nella “Puglia piana”, terra di stupor mundi, nella larga pianura che lentamente va incontro al mare, e come lui in un giorno qualunque di settembre – iniziava una vita nuova – l’ho lasciata per trasferirmi a Milano dove frequento l’università. Fra queste due storie di dislocamento corre qualche anno di differenza, eppure il suo racconto dell’addio e della lontananza mi pare così simile al mio: “Si parte per tornare. Talvolta non si torna. Non si parte mai soltanto “per partire”: non c’è dunque un viaggio, in quelle partenze, ma separazione.” Diventare, nel distacco, alberi platonici con le radici piantate in cielo: questo si impara andando via. Invidiare le cicogne come Montale: “Anche senza volerlo mi disloco. / Invidio la cicogna che se va / sa dove va e dove tornerà”. E poi inventarsi, nel tempo, un modo per prendersi cura dei ricordi.
L’infanzia, terra amata dai poeti, il posto che occupa nella formazione e nella narrazione dell’identità e la rievocazione sognante e affettuosa del paesaggio del ricordo si intrecciano qui sapientemente fra mondo scritto e non scritto, in una struttura narratologica che privilegia il fluire della rimembranza e si organizza in forma di brevi racconti. Ciascuno asseconda l’emergere spontaneo del passato: al centro di ogni breve capitolo si collocano momenti, sguardi, movimenti di luce, suoni, odori, a comporre una tela che dice vita.
“L’infanzia è, nel suo etimo, l’al di qua della lingua”: nella parola latina infans si riconosce infatti il verbo fari (in greco φημί, fēmì), che contiene nella radice ‘fe’ il significato indeuropeo, antichissimo, del dire, parlare. L’infanzia è “l’alba del dire”, una confusa soglia dal cui sentiero “muovono le immagini che sfuggono alla prigione della dimenticanza. Raccontare l’infanzia è sostare su quel sentiero, per sorprendere il momento in cui un’immagine si sprigiona, si libera, e prende forma e suono.”
E così in questo libro Antonio Prete si mette in ascolto del ricordo, si fa narratore del suo passato, recupera un lessico famigliare, l’antico incanto agreste e autentico di una tradizione comunitaria che non c’è più; s’impegna a dare un nome alle cose, col suo rigore da filologo che associa il dire al sentire: sgorgano sulla pagina parole limpide, in un carosello di lingue che oscilla ogni tanto fra il dialetto salentino e l’italiano.
Gianni Celati ha spesso ripetuto che nutriva amore per l’esattezza del linguaggio – “Quando racconti non fai che chiamare le cose lontane perché vengano a te nel racconto”: per questo Verso la foce si chiudeva con quell’indicazione infinita, “Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo”. Allo stesso modo Prete, che con Celati ha condiviso l’amore per Leopardi e lunghe passeggiate in Pianura Padana, esplora la sua terra agganciando il ricordo al Tempo, ricama con pazienza ogni elemento dell’arazzo della sua storia. Per questo sulla pagina le piante hanno un nome e un profumo, e i paesaggi di campagna accolgono una rumorosa folla di ulivi e oleandri alla cui ombra “Gioco con altri bambini a tagliare con un coltellino le pale dei fichidindia, facendo le ruote e le assi e le stanghe per un carretto, o provo a fare anch’io una fionda, con il pezzo di tronco biforcuto e l’elastico”. Rifulge la luce del mare, nei giorni estivi dell’adolescenza passata ad esplorare i bassi fondali, “mentre i murici si sporgono fuori dalla loro casetta, i datteri si affacciano dai cunicoli rocciosi e subito si ritraggono se sfiorati, i ricci dondolano camminando buffamente nella sabbia e i banchi di scorfanetti rossi e grigioneri, di donzelle e pettini e vope guizzano tra spugne, posidonie e pavonie”: ogni creatura in questo affresco è richiamata con precisione amorosa, in un doppio movimento che è fedeltà alla parola, al mondo, al passato e alla narrazione, e contribuisce ad attivare la capacità immaginifica del lettore.
Dire il mare, in questa luce
“I soggiorni sul mare definiscono, nel calendario dell’infanzia, un tempo di luce.” Il racconto del mare è sempre, nella parola di Antonio Prete, racconto di luce. E forse lo è in un senso che si fa vicino all’idea di Daniele Del Giudice, che in un saggio intitolato proprio In questa luce sosteneva l’esistenza di una differenza radicale e profonda fra la “luce in cui viviamo e vivranno” e “la luce del passato”: “non più metafisica, non più estetica, ormai un elemento antropologico, forse l’elemento della più radicale mutuazione antropologica in questo secolo che volge alla fine”; la luce del mare blu, vivo e identico fra infanzia e presente, sfugge a qualsiasi mutazione genetica tipica del secolo dell’iper-visibilità e dell’iper-riproducibilità tecnica: resta fieramente e vividamente autentica. Torna così nella danza della memoria la sua prima apparizione, in quel lembo di terra ionico che prende il nome di Santu Sidhru (Sant’Isidoro): “risale a quell’estate la doppia sensazione di attrazione e di paura suscitata dalla vista del mare, dal contatto con le sue acque?” Il mare diventa la siepe, protettore anch’esso di un infinito oscuro, e però allo stesso tempo straordinariamente immaginoso. Un orizzonte, forse (esattamente come la Pianura, che pure è assenza del mare, e può conservare nell’aria “Il tempo del possibile”): d’altronde in greco solamente un accento divide la parola arco ‘βιός’ dalla parola vita ‘βίος’. La stessa idea pulsante si nasconde dietro l’arco che è l’orizzonte, ai confini del mare e delle terre, e l’arco che è un cammino, una vita. Entrambi vengono qui revocati nella parola: fra l’orizzonte e il dire si incastra la poesia.
Il cerimoniale del gioco, il cerimoniale del narrare
S’odono talvolta fra le pagine le risate di bambini che giocano insieme. Eccoli poi insieme nella foto di classe in bianco e nero, che li ritrae in abitini “un poco arrangiati, poveri e puliti”: un tempo altro affollato di storie uniche: con grande tenerezza Prete si appresta a richiamare nel ricordo ogni vita, ogni individuo, e così racconta dei “camminamenti di un altro compagno”, delle storie familiari dietro ciascuno (“alcuni mi suggeriscono di colpo altre figure: padri contadini, o fabbri, o muratori, o venditori di verdure agli angoli delle strade”). Se è vero che L’io è il miracolo del tu, come ha scritto Jabès, che Prete ha tradotto, non difficilmente la storia dell’io diventa storia dei tu che l’hanno abitato. “Certi volti di compagni sono la soglia di un immaginare che porta con sé luci vespertine, giochi serali, inseguimenti (…) e soprattutto partite di pallone, dovunque ci sia un largo per immaginare una porta”.
È qui che il racconto del tempo antico del gioco si fa straordinariamente vicino alla rievocazione dei primi incontri con l’arte del narrare.
Compare così sulla soglia la figura della nonna materna, Ciseppa, che era solita raccontare storie in versi, filastrocche e proverbi. Anche nel ricordo, la narrazione è un tessuto femminile, e la narratrice è donna, come Sheherazade: “Sui miei dieci anni ricordo che avevo cominciato a trascrivere su un quadernetto a quadretti dalla copertina nera e dai bordi rossi alcune di quelle storielle e di quei proverbi.” Fra i tanti l’autore ricorda questo: La notte ti Natale parla an grecu ogne animale; e spiega poi che nella notte santa “Uscivamo, noi bambini, nell’orto e ci mettevamo ad ascoltare le voci del cane, del gatto, degli uccelli, delle galline, delle lucertole, dei grilli, voci che pronunciavano parole greche, e per questo dovevamo tenerle a mente.” L’innocenza infantile, colta ancora nella sua radice etimologica legata alla parola, al dire antico, greco (quasi segreto, magico, apotropaico) si lega a doppio filo alla descrizione del cerimoniale del racconto.
Così prossimi sono il gesto affabulatorio della nonna prima e quello della mamma poi, rievocata mentre parla con la campagna serale intorno, “con la luna che sale sopra gli ulivi” (come non pensare alla Luna muta del tanto amato Leopardi?), la storia della famiglia e il ricordo di un antico momento di gioco condiviso. Esiste forse, quindi, un filo che lega la ricomposizione del passato nella narrazione, la rievocazione della notte santa degli infanti – i due cerimoniali, quello della scrittura e quello del gioco perduto?
Le storie nella Storia
“Quel che era accaduto intorno, nella primissima infanzia, quel che era accaduto e accadeva intorno, finita la guerra. L’ombra di quel tragico poteva lambire i sensi di un bambino, la sua immaginazione, ma arrivava, quell’ombra, come attenuata, del tutto nebulosa, dissipata nel vago.” Antonio Gramsci amava la Storia “perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti piú uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo”, come contenitore brulicante di vita, mosaico di piccole storie. L’infanzia di Antonio Prete conserva qui il marchio vicino e ancora roboante degli anni della Seconda Guerra mondiale, che riaffiora nel ricordo filtrata dallo sguardo bambino, nelle conversazioni adulte, sfuggente e drammatica al tempo stesso. I bombardamenti – quello del vicino aeroporto di Leverano, nel luglio ’43 – i suoni delle sirene, la corsa verso i rifugi anti-bomba, le voci rievocate, un coro tragico eppure umano. Ritrovo così nelle parole di Prete gli unici ricordi che fanno parte della memoria collettiva della mia famiglia del Sud: mia nonna parlava della paura delle bombe allo stesso modo, con gli occhi di una bambina nata nel ’34; mio nonno paterno, invece, nato nel ’32, aveva ben presente il colore delle divise dei soldati americani che si erano stanziati in un luogo poco fuori dal centro abitato che tutti chiamavano ‘boschetto’. E mi è sembrato così duramente difficile attraversare questo racconto intimo e personale, lirico e vicino, “Strisce chiare nel cielo, d’improvviso” in un tempo che fa ancora i conti con la presenza del tragico bellico: solo qualche mese fa, a proposito del conflitto in Medio Oriente, Antonio Prete sceglieva queste parole: “ogni corpo individuo, con un suo nome, con una sua storia, con i suoi legami e i suoi desideri, è vittima della distruzione.” La storia delle storie, ancora e sempre, storia di nomi che tornano a perdersi nella violenza ripetuta di un tempo smarrito.
Pensiero meridiano, pensiero poetante
Franco Cassano, padre del Pensiero meridiano, è autore di uno straordinario elogio della lentezza che suona così: “Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando sono forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo.” Sulla copertina dell’ultima edizione Laterza (2021) del Pensiero meridiano campeggia, stupendo e maestoso, il mare. Pare proprio che in Album di un’infanzia nel Salento Antonio Prete si prenda il tempo lento necessario per dare nomi “agli alberi, agli angoli e ai pali della luce”, in un cammino di pensiero che in qualche modo si fa cammino di strade, crocevia di esistenze, mosaico di storie nel non-tempo della Storia.
Antonio Prete è un raffinatissimo studioso di Giacomo Leopardi, e a proposito della poesia leopardiana ha parlato di Pensiero poetante: pensiero che è animato dal soffio della poesia, e cioè dall’ala dell’immaginazione. E così mi pare che con Album di un’infanzia nel Salento sia giunto all’elaborazione di un Pensiero poetante che sia, allo stesso tempo, meridiano: pieno di luce marina, vivida, azzurra, lento, capace di assegnare un nome al vivente, e di spingersi sulla soglia, in limine, del conoscibile. Una raccolta di poesie del professore si intitola Tutto è sempre ora (Einaudi, 2019): la frase è la traduzione di un verso di Eliot che condensa molto bene il sentire che attraversa queste sue pagine, “Quel che viene da lontano ha un suo nitore, forse perché la mente possa cogliere un senso, e ha, allo stesso tempo, come un suo sbriciolamento, perché l’incertezza del luogo e del tempo insidiano la stessa forma dell’immagine”. Il tempo è carne, ma il tempo non esiste: “Gli anni, correndo, si svuotano dei giorni e delle ore. Diventano d’aria”: and all is always now, avrebbe detto il poeta.