La seconda casa, di Rachel Cusk 

22 Agosto 2023

Non so quanto possa essere fruttuoso parlare in termini canonici di trama a proposito dell’ultimo romanzo di Rachel Cusk, La seconda casa (Einaudi Stile Libero 2023, traduzione di Isabella Pasqualetto) perché forse, come scriveva Woolf in Tra un atto e l’altro, «Non preoccupatevi della trama: la trama è nulla.» Non preoccupiamocene troppo, dunque, forti dell’intuizione di Woolf, che Cusk deve aver molto a cuore (anche solo per certi guizzi della sua prosa): sorvoliamo la palude velocemente per provare a sciogliere nodi e questioni che attraversano questo suo ultimo romanzo. La palude, dicevamo – M, la protagonista, è una scrittrice, abita con suo marito Tony in una casa non lontana dall’oceano e vicina a una palude, nei pressi di una radura. Ha una figlia, Justine, che si trasferisce da lei con il suo compagno Kurt. La seconda casa che dà il nome al titolo è la dépendance situata poco lontano dal corpo abitativo principale. È, nei fatti, una residenza per artisti, dove la signora M decide di ospitare L, un pittore dai cui quadri resta significativamente colpita durante una mostra parigina. 

L’incontro con L e con la sua arte si situa nelle prime pagine del romanzo, in una posizione significativa perché già innervata dai grandi picchi della prosa di Cusk. Emblematico in questo senso è proprio l’incipit: «Una volta, Jeffers, ti ho raccontato di quando incontrai il diavolo su un treno di ritorno da Parigi, e di come, dopo quell’incontro, il male che solitamente giace indisturbato sotto la superficie delle cose affiorò, riversandosi su ogni parte della vita». Un lampo, poi la notte – aveva scritto Baudelaire a proposito della sua passante parigina: la visione del diavolo su un treno, con i suoi occhi gialli, anticipa quello che è successo a Parigi la mattina prima di partire, in tono lirico, quasi apocalittico; non è un caso forse che le stesse immagini bibliche chiudano quasi circolarmente l’opera, presentandosi in modo significativo nei murales che L dipinge nella seconda casa, in un raptus creativo che appare isolato ma che può a questo punto acquisire nuova luce: con la sua compagna Brett, L imprime sulle pareti le figure di Adamo ed Eva – la responsabile del male assoluto, tentata dal diavolo trasformatosi in serpente. La voce narrante si riconosce nella descrizione brutale di Eva, una «puttana castratrice» a cui L disegna orrendi baffi e una pancia cascante: «Era di me che parlavano, era me che dipingevano – Eva ero io!» Solo qualche istante prima, infatti, L aveva finalmente deciso di dipingere un ritratto di M; in apertura, M racconta di essere stata catturata dal dipinto scelto per la pubblicità per la mostra parigina di L: un autoritratto, descritto in una lunga, bellissima èkphrasis, la prima testimonianza della convivenza fra arte e parola che attraversa il romanzo. 

«A prima vista non c’è una ragione particolare per cui le opere di L debbano calamitare l’attenzione di una donna come me, o forse di qualunque donna», spiega M, perché «i dipinti di L emanano una libertà fondamentalmente e sfacciatamente maschile fino all’ultima pennellata». 

Fin qui ho cercato di proporre un accostamento fra due luoghi cruciali del romanzo, uno posto in apertura e l’altro in chiusura, basandomi sulla presenza di un momento quasi epifanico in cui M si identifica con un personaggio ritratto da L: nell’ultimo caso il parallelismo è autorizzato dalle parole della voce narrante stessa, ma quale gioco di specchi sorregge il primo? Sfiorando un altro dei nodi fondamentali di questo testo – la femminilità, la percezione e la rappresentazione di sé – Cusk formula una risposta che riporto, perché vorrei rifletterci ancora: «Quell’aura di libertà maschile appartiene anche a gran parte delle rappresentazioni del mondo e dell’esperienza umana, e come donne ci abituiamo a tradurla in qualcosa che possiamo riconoscere. Ci armiamo di dizionari e la decifriamo, alcune parti le ignoriamo perché non si incastrano o non riusciamo a capirle, altre perché sappiamo che non ci spettano e voilà! Eccoci partecipi. È un caso di travestitismo, e a volte di personificazione.» Solo dopo questa parentesi, al termine della quale M confessa di non essersi mai sentita femminile (e di aver capito che «tutto sarebbe stato più bello se fossi stata un maschio») ci viene svelato che il dipinto, comunque (per inciso, tra due virgole), era un autoritratto. Per riavvolgere il filo attraverso parole di Woolf, già evocata: «Per tutti questi secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi, dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo».

Mi sembra quindi che tutto si tenga: M è Eva, nel suo ritratto promesso e mancato che si rivela poi tremendo; ma è anche L, in un tentativo di identificazione che passa per una forma di castrazione della sua femminilità. 

È opportuno quindi aggiungere qui un altro tassello: ci troviamo a metà romanzo, L è da poco arrivato nella seconda casa e intrattiene la sua prima conversazione con M. Le chiede, ad un tratto, se ritiene che suo marito Tony possa posare per lui: la proposta genera in M un subbuglio emotivo emblematico che si trasforma in protesta: se proprio vuole dipingere qualcuno, che dipinga lei. Ma L è netto: «Non riesco a vederti per davvero», risponde. M individua in quell’affermazione la domanda che si lega alla sua esistenza, e più avanti riporta l’episodio alla mente per affiancarlo al tema dell’identità femminile. L’occasione è ancora una volta un confronto con L, che ghignante le chiede perché giochi a fare la donna. La domanda, osserva M, «mi descriveva alla perfezione»: «credo che nessuno me l’abbia mai mostrato». «Non è questione di mostrare, è questione di essere autorizzata» risponde L. «Forse sei tu che non mi autorizzi». È in questo scambio di battute più che in ogni altro che si dipana il senso della relazione fra M e L – incastrata in un conflitto che per M si rivela spesso doloroso, eppure, in modo misterioso, ai suoi occhi necessario. L è per lei più di uno specchio: è il suo sguardo, il desiderio del suo desiderio, a definirla, è da lui che vuole essere guardata. 

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Ma c’è di più: è in queste domande di senso che gravitano intorno alla necessità di guardare, guardarsi ed essere guardati che si annida una delle riflessioni cruciali del romanzo, riguardante le possibilità che hanno immagine e parola di descrivere il reale.

Riavvolgo il filo che mi ha portata a parlare di femminilità per insistere su un altro nodo: in un confronto con L, il pittore stabilisce una relazione dicotomica fra arte e letteratura, attribuendo ai padri la capacità di generare artisti e artiste e alle madri quella di generare scrittori e scrittrici: in quanto bugiarde, le madri «ti riempiono di linguaggio». Le capacità letterarie sono dunque legate alla menzogna, secondo il punto di vista di L. E forse è per questo che non gli interessa essere intero o completo: «ho sempre immaginato che fosse come essere inghiottiti». Al contrario, M, che scrive, pubblica libriciattoli, a detta del pittore, avverte il bisogno di arrivare alla verità, «e poi scavare e scavare fino a portarla dolorosamente alla luce – altra qualità canina.» La verità di cui M parla in questo frangente riguarda il segreto che costituisce la distanza fra due persone: dove le riflessioni su vita e attività culturale si intrecciano diventa evidente come il legame conflittuale fra M e L mostri, su un piano di senso più ampio, il modo in cui scrittura e arte interagiscono con la vita.

Ancora, se Tony rappresenta per M l’amore che fluisce a lungo e poi si staglia sullo sfondo, giganteggiando placido, visibile a distanza, capace, come il linguaggio, di fermare il tempo «perché esiste nel tempo, è fatto di tempo, e tuttavia è eterno – o può esserlo», L è la scheggia impazzita: «anche un’immagine è eterna, ma non intrattiene rapporti col tempo: non può che disconoscerlo, perché sarebbe impossibile analizzare o comprendere tutte le transazioni del tempo da cui scaturisce l’attimo infinito dell’immagine». Il rapporto con L evoca il rapporto inquieto con l’indefinito – con l’altro, e con l’altra lingua. In altre parole, con la sua «malia dell’abbondanza» il richiamo di L è «il richiamo primordiale di un mistero, di un vuoto», di una vertigine nella quale la scrittrice si interroga, si cerca, e prova a ridisegnare una mappa del sé e del reale, della palude (o della radura, se vogliamo, che simbolicamente è lo spazio che divide la casa dalla seconda casa). Con la sua riluttanza all’idea di essere controllato, visto per intero, con quel desiderio di stare fuori, «come i bambini nelle sere d’estate che non rientrano quando vengono chiamati», L è portatore di un nucleo di armonia inspiegabile e incomprensibile, una sensazione «di parità con tutte le cose, ma anche la capacità di sopravvivervi. Era immune dai colpi fatali.» 

Per M è importante raccontare l’esperienza: solo ciò che ha potuto riscontrare in prima persona, resistendo alla tentazione di ingigantire alcune cose, di falsificare in nome della narrazione o di confezionare un modo di guardare col quale il lettore possa identificarsi. «Ciononostante credo esista una capacità più comune di leggere la superficie della vita e le sue forme, che scaturisce o si evolve nella capacità di rapportarsi con le opere dei creatori e comprenderle»: ci si sente vicini a un fluire creativo quando si avverte una simpatia fra i principi dell’arte e la «trama della vita». «The texture of Life» è un’espressione molto felicemente tradotta in italiano, in effetti, e ci permette di osservare la scelta di una parola che contenga esplicitamente la radice latina textus: le storie, per antonomasia, sono intrecci, ma qui si sta parlando di principi «dell’arte o di un particolare artista», e poco più avanti verrà citata «la mia ossessione per L», il suo modo di guardare la palude capace di replicare i fenomeni percettivi e luminosi dei suoi dipinti. 

Vorrei avviarmi alla conclusione convocando un tema molto caro a Cusk, già presente in Il lavoro di una vita (Einaudi 2021, traduzione di Anna Nadotti) – quello della maternità. Come notava Isabella Pasqualetto su Doppiozero, in quel testo Cusk «parla delle difficoltà, dei pianti delle madri e di quelli dei figli, parla del complicato arruolamento nel ruolo dell’ortodossia genitoriale, smette di chiedersi cos’è una donna se non è una madre, e inizia a chiedersi cos’è una donna se è una madre.» Calza a pennello il parallelo con un tassello del romanzo di cui stiamo parlando: «[…] da quando [Justine] è venuta al mondo dandomi l’impressione di volersi piazzare esattamente al mio posto, anche se c’ero già io». 

In La seconda casa, M è madre di Justine, una ragazza adulta che convive con il compagno Kurt: «aveva ventun anni, l’età in cui una persona comincia a mostrare la sua vera natura, e lei per molti aspetti si stava rivelando del tutto diversa da come l’avevo immaginata». È in questo frangente che M osserva come i genitori non capiscano granché dei figli, «perché non li vediamo per quello che sono». Si dipana lungo queste pagine, carsico come un fiume silenziosissimo che lascia le sue tracce, la riflessione sull’essere madre e donna, e sul rapporto con la figlia, donna anche lei, altro da sé («temevo di aver commesso qualche errore fatale riguardo alla femminilità di Justine, o di aver fatto a lei ciò che era stato fatto a me»). 

Ho cercato di dimostrare come Cusk non aggiri la complessità: al contrario sa metterla in parola, in una prosa abbondante e sempre precisa, puntuale, che raduna i fili e compone un quadro organico capace di generare domande nuove. A Isabella Pasqualetto, sua traduttrice italiana, va il merito di essere riuscita ad attraversare la sua lingua pittorica, assecondandone i baluginii e le capriole di luce: ogni descrizione paesistica ha poco da invidiare ai dipinti di L, «The green glittering water, and the worn slanted stone walls of palest beige, and the early sun shining on them and on me as I moved through them, made such a buoyant element that I became weightless»; la parola riesce così a farsi portatrice del miracolo del guardare, attraversando su un secondo livello di significato, come in un cerchio concentrico, il grande tema del romanzo – quale solco divide immagine e linguaggio? Quale verità esiste per l’arte? Perché la esigiamo?

Se Italo Calvino in un famoso articolo sul Menabò proponeva la letteratura come sfida al labirinto del reale, Cusk analizza una forma di convivenza di linguaggi – quello visivo e quello letterario – capaci di cogliere scorci diversi, che sanno farsi carico della sfida alla radura, dove la radura è il labirinto che ci tocca attraversare. La buona notizia implicita è questa: possiamo ancora contare sul racconto come tentativo di ‘guardarci interi’, e non è poco: «qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza», scriveva il poeta.

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