Sii te stesso a modo mio

21 Giugno 2023

Quasi un mese fa una studentessa del Politecnico di Milano ha deciso di montare una tenda da campeggio in piazza Leonardo, fuori dalla sede della sua università, in segno di protesta contro il caro affitti: il suo gesto è stata la scintilla perfetta per un dibattito sociale e social che ha fatto riemergere uno spettro che pareva quasi sopito da un po’, quello del dito puntato contro i giovani. Non è mia intenzione entrare nel merito del significato della protesta, che pure riconosco come necessaria e legittima: vorrei però qui sottolineare come da molti anni a questa parte qualsiasi discussione cui prendano parte ragazzi e ragazze finisca per essere etichettata come pretestuosa, priva di fondamenta, frutto del più banale dei capricci: sembra quasi che per ogni giovane che provi a prendere parola ci sia sempre un adulto pronto ad esercitarsi in una ramanzina da manuale, perché «Ai miei tempi, caro, non ci si lamentava mica così». 

La situazione non mi sembra troppo diversa da quella di tre anni fa, quando a gran voce, sollevammo gli scudi collettivamente contro la didattica a distanza nei licei. Eravamo stanchi, approdavamo all’esame di maturità in un tempo sospeso, fittizio, rubato; in quella somma di sacrifici collettivi, il nostro era il meno degno di nota: al contrario, pareva quasi che in fondo ci stessimo guadagnando qualcosa. Ci circondava un coro unanime e duro, tristemente sordo alla denuncia di qualsiasi disagio. 

In questo mondo che spesso si dimostra incapace di accogliere le nostre istanze, comunque, abbiamo provato a diventare grandi, e ancora ci proviamo. Ma può essere interessante indagare il campo, e chiederci cosa sia successo, se e quando un filo si sia spezzato, o ingarbugliato, e se ci sia modo di restaurare un dialogo con gli adulti – padri, insegnanti, autorità, Stato.

In Sii te stesso a modo mio (Raffaello Cortina Editore, 2023) Matteo Lancini prova a disegnare le dinamiche della società in cui viviamo, partendo da una constatazione tanto amara quanto preziosa: «Abbiamo costruito una società che alimenta il valore del soggetto a discapito della capacità di comprendere chi si ha di fronte», abitata da individui incapaci di interessarsi all’altro «per quello che è, per come è fatto lui e per quelli che sono i suoi bisogni profondi». Lancini individua tre tipi di società: quella normativa, dominata dalla figura di Edipo e del Super-io, che è esistita fino al periodo dei conflitti che hanno attraversato gli anni Sessanta e Settanta; quella narcisistica, al cui centro pone la famiglia affettiva e relazionale (con uno slittamento verso l’istanza dell’Io); e, in ultimo, la realtà presente come ‘post-narcisistica’, individuando nel momento della crisi pandemica un nodo discriminante fondamentale.

La grande novità arrivata col tempo del ’68 e delle proteste giovanili è da individuare nella perdita di autorità paterna che invece caratterizzava la famiglia normativa: nei nuovi spazi «il ‘Devi obbedire!’ È stato sostituito dal ‘Devi capire!’» E al posto del conflitto «prende forma un nuovo canale sempre aperto, quello del dialogo». «Regole se ne danno ancora, certo, ma anziché essere imposte sono sempre motivate», perché lo scopo del rapporto educativo è cambiato: non «plasmare i figli secondo rigidi dettami» piuttosto «fornire loro tutte le risorse necessarie alla loro realizzazione». E però in questo quadro, all’apparenza confortante, si aprono le prime crepe significative: col passare del tempo «Il vuoto lasciato dall’autorità paterna è riempito da un calendario serrato di esperienze da spuntare» – la funzione organizzatrice un tempo raccolta dalla figura genitoriale è sostituita dal dominio dell’esperienza, che funge quasi da distrattore rispetto alla mancanza di solide basi. 

Nel tempo della performatività, come l'aveva chiamato Marcuse, i bambini vengono portati a comportarsi come piccoli adulti, ripresi e fotografati, sovraesposti sui social in un Truman Show perpetuo: «siamo all’anticipazione delle esperienze». Lo scenario è molto diverso rispetto ai tempi in cui la normatività non lasciava spazio all’autonomia, ma il problema non è meno cogente. Se prima era il Super-io a limitare il manifestarsi del Sé, nella famiglia narcisistica l’ideale dell’Io resta esigente. È proprio questa fretta di battere la vita sul tempo, rincorrendola affannosamente, bruciando le tappe, a dirci di un’abitudine molto diffusa presso i nuovi adulti: «Caricare i bambini di aspettative e ideali sulla loro vita presente e futura che l'arrivo dell’adolescenza costringe a ridimensionare, con il rischio di un crollo psichico». 

Sulla scia delle abitudini già vive nella famiglia narcisistica, la famiglia postnarcisistica continua a proporre una precocizzazione esasperata, disegnando aspettative irreali, vuoti ideali di successo e popolarità. Negli spazi familiari – come nella società tutta – si manifesta oggi un’esasperazione del Sé, con conseguente difficoltà di avvicinarsi all’altro. È in questo inciampo che risiede il paradosso del nuovo imperativo educativo, Sii te stesso a modo mio: la famiglia postnarcisistica è sempre presente e allo stesso tempo inesorabilmente distante dal figlio, cui chiede di essere ricettivo rispetto alle proprie esigenze affettive, «una famiglia che ai giovani spesso chiede più che offrire».

È forse questa pretesa di vicinanza empatica a costituire l'altro grande inciampo della famiglia moderna: nell’epoca della fragilità adulta, che «deve proiettare fuori di sé le proprie contraddizioni e la propria povertà educativa», «gli adulti non riescono ad accettare il fatto che esistano dei bisogni specifici ed esclusivi del soggetto con cui di volta in volta si relazionano: si assiste a una sparizione dei bisogni dell’altro». In un perpetuo e instancabile tentativo di dialogo che mira a nascondere il mistero della differenza, l’adulto fallisce nella propria missione educativa negando all’adolescente l’esperienza dell’allontanamento da casa e del tradimento del padre. Per dirla con le parole di Massimo Recalcati (Elogio del fallimento, festivalfilosofia 2016) «La vita ha bisogno di aria, di appartenenza ma anche di superamento del limite della famiglia» e ancora «il figlio giusto è il figlio che sa essere eretico, che sa tradire in modo giusto il padre, riconoscendo il debito nei suoi confronti e non diventando il clone del padre».

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Dovrebbero essere, i genitori, saldi nella convinzione che i figli vengono al mondo per inciampare, per conoscere la deviazione dal tracciato, persino il dolore dell’errore. «È importante tollerare il dispiacere, la sofferenza, l’inciampo di queste ragazze e di questi ragazzi, senza guardarli come persone che sbagliano e hanno comportamenti errati» scrive Lancini, così come è importante che gli adulti siano identificati per evitare che gli adolescenti sovrappongano il loro orizzonte affettivo e mentale al proprio.

Troviamo forse qui una prima risposta alle nostre domande: è per queste ragioni, dunque, che il dibattito pubblico si è lentamente saturato di luoghi comuni – è la miopia dovuta all’esasperazione del Sé che rende l’adulto incapace di distinguere i contorni dell’adolescente, e lo fa sordo ai suoi bisogni. E ancora: è la stessa miopia a rendere l’adulto incapace di accettare che esistano strade alternative rispetto a quelle che ha tracciato e percorso. Le aspettative che genitori, insegnanti e adulti ricamano sulle vite degli adolescenti di cui sono in qualche modo responsabili rendono incomprensibile qualsiasi deviazione rispetto al cammino immaginato. Ma quanto dolore costa fare i conti con la delusione dell’aspettativa di chi ci educa? Quanto è faticoso rivendicare quel filo e tracciare la propria storia mentre chi ti ha insegnato la sua visione del mondo continua a ripeterti che stai sbagliando, che esiste un percorso più giusto e ne sei molto lontano? 

Lancini evidenzia come questo discorso si intrecci a una negazione delle emozioni dolorose da parte degli adulti: «Per riuscire nell’impresa occorre non solo accettare il fatto che è inevitabile che dolore e fallimento possano far parte della vita dei propri figli e dei propri studenti, ma anche riconoscere che per la crescita e lo sviluppo delle nuove generazioni […] incide molto di più il modo in cui questi accadimenti dolorosi vengono maneggiati affettivamente da mamma, papà e insegnanti.» È ancora Recalcati a rimarcare come il fallimento, l'esperienza della caduta, col suo bagaglio di dolore, coincida con la possibilità di ritrovare la propria verità: parafrasandolo, potremmo quindi dire che nel caso dell’adolescente solo attraverso il fallimento è possibile incontrare la propria voce. 

Grande spazio di riflessione è lasciato poi all’ambito didattico: anche i professori sono adulti che educano, e non sfuggono al meccanismo della fragilità. Sono adulti che hanno bisogno di essere amati, riconosciuti, confermati. «La convinzione e il sollievo di aver svolto al meglio il proprio mandato educativo sembrano essere sensazioni che si ricercano anche a scuola», e che trovano corrispondenza nel linguaggio muto di voti, note, sospensioni e bocciature – tutti strumenti che mal si coniugano con la necessità di dare senso e significato che invece dovrebbe attraversare lo spazio scolastico. Per restituire alle aule la loro funzione di palestra di democrazia e ambiente di crescita libero e stimolante Lancini propone strategie alternative al voto, spesso mortificante e mai imparziale (da un punto di vista strettamente ‘ontologico’, perché «ad assegnarlo sono insegnanti, persone che valutano in base al proprio metro di giudizio»). Nei voti manca il respiro altalenante della formazione, la sovrapposizione fra numero e percorso è impossibile: «oggi un brutto voto definisce il valore dello studente non solo in quanto tale, ma anche come persona». Ne risulta un ambiente asettico, mortifero, poco collaborativo e solidale, in cui la logica della performatività si fa ancora più asfissiante, e spesso non lascia vie d’uscita. Sarebbe per questo utile valutare un sistema di giudizi personalizzati, perchè «uno studente è più disorientato di fronte a un numero asettico che di fronte a un feedback articolato e a un commento approfondito sul proprio rendimento.» Si tratta naturalmente di uno sforzo di complessità, ma non è difficile immaginare quali potrebbero essere i risvolti positivi dell’adozione di valutazioni descrittive: primi fra tutti, l'eliminazione della competizione con i compagni e l’allontanamento dello spettro del fallimento legato al brutto voto: «Le ricerche dimostrano come sussista uno stretto legame tra un elevato benessere scolastico e un rendimento altrettanto positivo».

Si potrebbe forse obiettare che un sistema senza voti privi gli studenti dell’esperienza della frustrazione che pure permea il resto della vita. Ma come notato da Lancini i voti «fanno più male che bene», e d’altronde, aggiungerei, elaborare un sistema di valutazione articolato non significa tessere lodi scriteriate, piuttosto ingaggiare un confronto educativo, suggerendo allo studente come orientarsi nel campo del sapere.

Le esigenze di rinnovamento didattico si sommano a quelle di un ripensamento in senso più ampio, diremmo ‘strutturale’ dell’istituzione scolastica. Il discorso di Lancini tocca un nodo importantissimo, quello del ruolo di Internet, contro cui è stata ingaggiata una vera e propria «guerra santa». È paradossale, nota Lancini, pretendere che ragazzi e ragazze vivano ‘fuori dalla rete’, in condizioni di ascetica disconnessione, quando «Internet è il palcoscenico su cui ogni cosa accade e viene discussa, l’ambiente elettivo della politica e della cultura». Paradossale e grottesco, direi, perché anche in questo ambito ogni ramanzina ha un sapore inutilmente passatista e reazionario. La proposta che viene avanzata è interessante e merita attenzione: «Le scuole dovrebbero essere sempre aperte e connesse ventiquattro ore su ventiquattro, come succede in tutte le case, e consentire, a chi lo desidera, di restare a scuola fino a sera». Bisognerebbe in qualche modo annullare lo scarto fra il mondo della scuola e il mondo reale, fare degli edifici scolastici ambienti più accoglienti, promuovere l’utilizzo di internet qualora la rete possa «favorire il raggiungimento di obiettivi evolutivi, formativi e culturali». Le ragioni della proposta sono di due ordini diversi: combattere la povertà educativa, che secondo Lancini è anche tecnologica, ed educare a un uso consapevole di internet. Anche le possibilità di «creare un continuum tra reale e virtuale», integrando in aula l’uso dell’intelligenza artificiale e della realtà aumentata (già lo scorso anno due studenti discutevano la loro tesi ‘nel metaverso’) costituiscono rilevanti spunti per un dibattito – valutarne l’attuabilità potrebbe essere interessante, purché si tenga sempre ben presente l’importanza della componente ‘umana’ (e umanistica) del processo creativo e di apprendimento.

È indubbio che il ritratto dell’adulto postnarcisistico proposto da Lancini sia assolutamente impietoso, ma è molto accurato nel suo essere sferzante. La conclusione a cui si approda è radicale ma tutto sommato del tutto praticabile: è necessaria un’educazione all’emozione per gli adulti, «una alfabetizzazione emotiva» concreta, non solo linguistica, che sottolinei l’importanza di provare «a pensare la mente del figlio e dello studente», a tollerarne la differenza, a rispettarne il segreto. «Bisogna limitare gli interventi stereotipati e guardare noi stessi da fuori e i nostri figli e studenti da dentro, per quello che sono, come individui unici, con proprie emozioni, bisogni e obiettivi». Accettare il proprio mandato di educatore è fatto complesso, ma è arrivato il momento di agire: le esigenze di ragazzi e ragazze non possono essere ignorate ancora, né svilite ulteriormente. Sarebbe bello, penso, se il messaggio lanciato da Lancini fosse accolto dagli adulti, nelle famiglie e nelle istituzioni, nel segno di un nuovo patto di corresponsabilità che sia concreto e politico: «Facciamo finalmente qualcosa per loro: cambiamo noi».

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