Caro diario. Nanni Moretti e il signor Palomar

11 Agosto 2024

Nella prima scena la penna scrive: Caro diario, c’è una cosa che mi piace fare. Corre sul foglio e disegna la traiettoria, scandisce il ritmo dell’io – I, eye: un gioco di parole è il gioco dei mondi dietro ogni narrazione, soprattutto cinematografica. L’occhio che vive è l’occhio del regista Moretti – eye – ed è anche l’occhio che guarda, l’Io – I – che scrive di sé, nella forma del racconto diaristico. 

Ho guardato i film di Nanni Moretti disponibili in streaming per la prima volta nell’inverno dei miei vent’anni, due anni fa. Sono quasi tutti film usciti in sala tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta (Caro diario nel 1993): io non ero nata e nessuno me li ha mai raccontati, in realtà. Non saprei dire a questo punto come sia arrivata al cinema di Moretti, ma so che è un universo in cui ancora rimango.  Forse a un certo punto si diventa grandi, e si cercano film che sappiano dire uno stato nuovo, un modo d’essere. In una delle prime scene di Caro diario Moretti è al cinema, e sullo schermo un attore sentenzia: “Siamo invecchiati, siamo inaciditi, siamo disonesti nel nostro lavoro; gridavamo cose orrende, violentissime nei nostri cortei e ora guarda come siamo tutti imbruttiti.” La voce fuori campo di Moretti glossa: “Voi gridavate cose orrende e violentissime e voi siete imbruttiti; io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne.” Mi sono chiesta – e continuo a chiedermi – se saremo un giorno splendidi quarantenni anche tutti noi.

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Mi interrogava di Caro diario la capacità di lasciare aperte questioni, il tempo dei lunghi silenzi sulle scene, certi balli scoordinati del protagonista. E così ho continuato a guardarlo ancora, in certe sere pigre e fredde in cui avevo bisogno di un film che mi rassicurasse in qualche modo, che fosse lento, accogliente, e che però continuasse a farsi scoprire, osservare, svelare in modi nuovi. C’è sempre un dettaglio che sfugge e si palesa poi, ed è pure questa una piccola forma di meraviglia. Addentrandomi nella filmografia fino al Sol dell’Avvenire (2023) mi è sembrato di osservare un movimento inverso al dipanarsi di una matassa: piuttosto s’è formato uno gnommero in cui tutto si tiene e resta in dialogo aperto. Ricorrono nella produzione cinematografica tanti dei temi (singoli oggetti, a volte) già rintracciabili in Caro diario e che intessono così un dialogo che si fa via via più denso, e nei rimandi sembra arricchirsi e non esaurirsi mai. L’ossessione per i ritagli, per gli appunti, per certe scarpe più o meno comode (in Caro diario il bersaglio sono le calzature di Jennifer Beals, l’inarrivabile protagonista di Flashdance). L’iconica Vespa, esposta al Museo del Cinema di Torino, diventa nell’ultima pellicola (e nel poster della sua versione francese, Vers un avenir radieux) un ironico monopattino elettrico, al passo con il nuovo tempo della società. A ben guardare servirebbe in effetti un’enciclopedia Moretti, una sorta di lessico cinematografico che tenga traccia di ogni filo di questo tessuto sempre aperto, modificato e modificabile, desacralizzato e messo in discussione; oppure una Wunderkammer in cui esporre coperte di lana colorate, sabot, diari, ricette mediche, ritagli di giornale e altri memorabilia: la casa di un cinema che sa legarsi alle cose.

Caro diario si divide in tre Capitoli: il primo s’intitola In Vespa, e intreccia l’esplorazione della città semideserta al mormorio del pensiero. Doppio è il vagabondare dell’uomo che indaga, chiede, interroga i passanti, talvolta si allontana senza aspettare risposta, e riprende a vagare: nella penna che dice “Caro diario” e nel rombo della Vespa girovaga che ridisegna la topografia di Roma – Garbatella, Spinaceto, Casal Palocco – spingendosi fino a Ostia, nel luogo in cui è stato ritrovato il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini. Roma, che ad agosto è vuota, è l’altra grande protagonista di queste lunghe scene piene di luce estiva, vivide negli irripetibili colori dei suoi quartieri.

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In uno dei testi raccolti in Palomar, Italo Calvino immaginava il signor Palomar in città e lo collocava in alto, in terrazza, luogo d’elezione per osservare il brulichio della vita romana. Non a caso il personaggio prende il nome dal famoso osservatorio astronomico posto su una collina nei pressi di San Diego, in California. Quel racconto si conclude così: “Così ragionano gli uccelli, o almeno così ragiona, immaginandosi uccello, il signor Palomar. «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, – conclude, – ci si può spingere a cercare quel che c'è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile».” Al contrario del signor Palomar, Moretti decide di ancorare il suo sguardo al mezzo di trasporto Vespa: è nel movimento che prova a conoscere la superficie delle cose e quello che c’è sotto – dentro, attorno – arrendendosi al tempo lungo del silenzio. Nell’osservare un geco sul suo terrazzo, Palomar si chiede “Com'è il sonno per chi ha gli occhi senza palpebre? Neanche il signor Palomar sa staccarsi di lì. Resta a fissarlo. Non c'è tregua su cui si possa contare.”

Non è un caso forse che il libro che ha segnato i miei ultimi anni di liceo e questo film che invece è il primo della maturità si parlino in un modo così sottile, eppure così significativo. Due personaggi che coincidono in inconoscibile misura con l’autore-regista, meditabondi, lenti nel loro incedere, incapaci di afferrare davvero la realtà, eccentrici nel senso più etimologico del termine (o addirittura: centrifughi), e capaci di uno sguardo altro, laterale, che sappia sollevare un certo velo nella realtà delle cose e illuminare un’altra strada (quella sbagliata, forse, ma l’importante è percorrerne una: in Vespa, a piedi, con lo sguardo).  

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“Caro diario, sono felice solo in mare, nel tragitto tra un’isola che ho appena lasciato e un’altra che devo ancora raggiungere”, mormora il protagonista con la testa poggiata sulla sua valigia, gli occhi chiusi. In questa scena Moretti è su un traghetto diretto ad Alicudi – l’isola senza strade, che “accoglie soltanto chi la pensa come lei”. E chissà poi a quali isole sta pensando, se Panarea, Stromboli o un’altra ancora, un’isola che non c’è, l’isola fra un tempo e l’altro del nostro stare qui, fra i capitoli del Diario vero. Il secondo capitolo del film, Isole, attraversa le Eolie, e ripercorre ancora un percorso vagabondo, frammentato: Moretti e l’amico Gerardo cercano un posto silenzioso in cui lavorare, ma in un modo o nell’altro si trovano invischiati in un fragore dal quale non riescono a sfuggire. 

Ma è l’ultimo il capitolo, Medici, più dichiaratamente autobiografico: un altro percorso, dunque, costellato di incontri con medici più o meno convincenti. L’approdo –  la diagnosi di un linfoma di Hodgkin. Tutto è vero, niente è inventato, persino le ricette mediche sono autentiche. “I medici sanno parlare ma non sanno ascoltare”, concluderà l’io narrante alla fine. Saper parlare, saper guardare (dirà nel primo capitolo “Mi riduco sempre a guardare, che è anche bello ma è un’altra cosa”) e imparare ad abitare i silenzi per ascoltare. 

Nell’ultima scena Nanni Moretti guarda in camera, per la prima volta e molto a lungo. Beve un bicchiere d’acqua. La canzone in sottofondo dice “Era la vita che già avevo immaginato / ma diversa nel finale”: è Fiorella Mannoia che canta Inevitabilmente (Lettera dal Carcere): tutto si tiene, anche nel finale, immaginato e diverso – è qui che stiamo, nello gnommero dei finali possibili.

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