Speciale
Jane Eyre
Nel famoso pezzo comparso sull’Espresso nel giugno 1981 Italiani, vi esorto ai classici, Calvino proponeva quattordici definizioni possibili di ‘classico’. L’ho riletto nel tentativo di sceglierne una che potesse in qualche modo dare forma al mio rapporto con il libro di cui vorrei scrivere, ma sono inciampata già sulla prima: se è vero che «Un classico è un libro di cui si sente dire di solito ‘Sto rileggendo’ e mai ‘Sto leggendo’», precisa Calvino «questo non vale per la gioventù, età in cui l’incontro col mondo, e coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro». La tesi dell’autore è in effetti solida, perché più avanti precisa che «le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita». Eppure sono certa che lo spazio di questi miei vent’anni sia già stato attraversato da un modesto numero di libri che definirei ‘classici’ secondo il canone calviniano, tutti letti nella stessa gioventù che continuo ad attraversare e che in qualche modo hanno contribuito a plasmare. Ho letto Jane Eyre all’alba del secondo anno di università, in un novembre piovosissimo in cui le giornate s’inceppavano nei tramonti delle quattro; l’ho rifatto nel tempo del solstizio d’estate, per riavvicinarmi ai sensi che vi avevo cercato, attraversare sottolineature e cercarci dentro spiragli e riverberi, perché «D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima», aggiungeva Calvino, e di ricollocazione, anche, aggiungerei, allo stesso tempo rispetto al sé che ne ha condotto la scoperta e rispetto al testo: d’altronde, definizione numero undici: «Il tuo classico è quello che non può esserti indifferente e ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui».
Il mio testo di riferimento è pubblicato da Feltrinelli e tradotto in italiano da Stella Sacchini: le è valso, nel 2014, il Premio Babel per la traduzione. Mi pare significativo e anche un po’ doveroso annotarlo, perché il lavoro di traduzione di un classico dev’essere un gran bel viaggio e a Sacchini la traversata è riuscita egregiamente.
Jane Eyre è un libro che racconta la storia di una vita, assecondando le logiche del romanzo di formazione ottocentesco. Aderisce in larga parte alle regole della narrazione realistica (seppure con inserzioni di elementi che attingono alla tradizione gotica finzionale). È evidente anche che Brontë si situi a metà strada fra il suo desiderio di innovazione del canone e l’orizzonte d’attesa dei lettori a lei contemporanei: riesce abilmente a forgiare una protagonista da una parte conforme ai topoi dominanti (quello del fanciullo di umili origini dotato di grandi abilità, come nel caso di Oliver Twist e David Copperfield) inserendo nella trama elementi originali: primo fra tutti il genere.
Jane è orfana, vive con la zia e i cugini ma viene ben presto affidata ad una scuola di carità, la Lowood, un ambiente rigido e austero che pure in qualche modo le pare più accogliente di casa Reed, luogo in cui era sottoposta a continui maltrattamenti. Al termine degli studi diventa una stimata insegnante e trova impiego presso la famiglia Rochester a Thornfield Hall, dove è istitutrice della figlia del padrone di casa. A Thornfield Hall si diramano alcuni fra i nuclei più interessanti del romanzo – l’amore per Rochester e l’oscura scoperta del suo precedente matrimonio con Bertha, una donna misteriosa segregata in soffitta che più avanti si renderà responsabile di un terribile incendio nel quale la casa di famiglia andrà bruciata e Rochester perderà la vista. Il romanzo si chiude su un’allegra scenetta familiare: Jane riesce a sposare Rochester e insieme hanno un figlio, «So cosa significa vivere completamente per e con colui che amo più di ogni altra cosa al mondo. Ritengo la mia felicità perfetta, una felicità che le parole non riusciranno mai a spiegare, perché sono tutta la vita di mio marito e mio marito è la mia.» Jane è ormai adulta e matura, e ci appare in tutta la sua ottocentesca luce, adesso un po’ più flebile: l’ending è di certo happy, dopo una serie di faticose peripezie, e aderisce del tutto al canone dominante, quello dell’idillio piccolo borghese.
Sciolti i nodi della trama, mi propongo di scegliere alcune strade, selezionandole fra i possibili itinerari di lettura. D’altronde i classici più di tutti sono libri plasmati dallo sguardo di chi legge – per questo, in fondo, potenziali miniere di significato; vorrei rimanere nell’ambito del racconto della femminilità e dei legami fra personaggi femminili: credo abbiano segnato in maniera significativa le mie letture, e in qualche modo riescono a ricostruire il mio personale percorso all’interno del romanzo. Sarebbe interessante, in effetti, attraversare le parole di Brontë ancora, magari fra qualche anno, per annotare il variare delle impressioni: il valore di un classico, per tornare a Calvino, si definisce nel corso del tempo.
Jane Eyre è un libro attraversato da libri: si apre, infatti, con una scena di lettura – un panneggio di stoffa scarlatta si scosta e illumina un mondo – Jane legge in disparte La storia degli uccelli d’Inghilterra di Bewick mentre i cugini, dai quali la vediamo separata sin dall’inizio (simbolicamente, si direbbe, il suo è già un universo altro) sono riuniti attorno alla loro mamma nel salottino. Jane è esclusa «dai privilegi destinati soltanto ai bambini felici e contenti»; verrà poi raggiunta dal piccolo John che la colpisce alla testa: scopriremo che è sua abitudine vessarla e adottare comportamenti violenti nei suoi confronti, per poi sfuggire ai rimproveri della mamma, agli occhi della quale l’opinione del figlio ha decisamente un valore altro rispetto a quella di Jane.
Questo primo episodio ben descrive il tentativo di Brontë di tratteggiare un personaggio femminile diverso da quelli tradizionali, in un’epoca in cui le donne iniziavano a leggere ma faticavano, paradossalmente, a conquistare uno spazio nel panorama degli scrittori (le prime opere, Jane Eyre inclusa, sono pubblicate sotto lo pseudonimo maschile Currer Bell). Ne risulta che Jane è, quasi tanto quanto Charlotte, una pathfinder, una pioniera, forse, più emblematicamente: una cercatrice di percorsi. La sua ricerca è attraversata dagli sguardi preziosi che incontra nella letteratura di cui si nutre, che contribuisce a dare forma alla sua coscienza e a irrobustire la sua voce: «Ogni immagine raccontava una storia, spesso impenetrabile per il mio intelletto ancora immaturo e per i miei sentimenti non del tutto formati, eppure sempre carica di un profondo interesse.»
Pur essendo in un’evidente condizione di subalternità – è una bambina ed è orfana, e quindi in qualche modo privata persino della sua identità biologica, è esclusa dai piccoli paradisi familiari e abituata a subire le ingiurie dei suoi coetanei – Jane rivendica con fermezza la sua posizione, rispondendo alle accuse che le vengono rivolte sin dalle prime pagine; lo fa quasi sempre in ragione di ciò che legge, forte della voce dei libri, collegando i suoi discorsi a ciò che ha imparato: “«Cattivo, crudele!» Dissi «Sei un assassino, un negriero, un imperatore romano!» Avevo letto la Storia di Roma di Goldsmith e mi ero fatta un’idea di Nerone, Caligola e via di seguito. Poi avevo stabilito tra me e me dei paragoni che non avrei mai immaginato di poter esprimere ad alta voce.»”
Se per Jane il libro è dunque rifugio e strumento attraverso cui emanciparsi, lo stesso non può dirsi per la prima amica che incontra a scuola, Helen Burns, una ragazzina di quattordici anni che trova brillante, intelligente, fonte rigogliosa di eloquenza: «Parlarono di libri: quanti ne avevano letti! Quant’era grande il fardello delle loro conoscenze! E quanta familiarità con i nomi e gli autori francesi!» Ma il tifo si insinua nell’istituto di Lowood, e presto Helen diventa una delle quarantacinque ragazze colpite dal morbo. Il dolore della separazione, che Brontë inquadra in un capitolo di impressionante verosimiglianza, si intreccia al grande tema che segna l’amicizia fra le due ragazze: l'educazione cattolica. È proprio in punto di morte che Helen dà prova di grande fede, «Morendo giovane mi risparmierò grandi sofferenze. Non avevo le qualità né l’ingegno per farmi strada in questo mondo». Helen è convinta di meritare la morte perché riconosce di essere propensa ad esercitare la sua immaginazione perdendosi negli universi delle storie: è un’attività che non è consona a una donna, la sua colpa è l’immaginazione (questo potrebbe essere un omaggio, neanche troppo velato, all’Introduzione che Mary Shelley scrive per il suo Frankenstein, storia immaginata del suo ingegno di donna).
Ciò che colpisce degli ultimi scambi di battute fra Helen e Jane, oltre alla straordinaria, genuina tenerezza, è proprio la lucidità del discorso teologico di Burns. Jane avanza le sue osservazioni, formula domande incalzanti: l’amica è certa di andare incontro a Dio, sicura nella sua fede di una vita dopo la morte. È una logica che Jane fatica a comprendere, e per questo forse si ancora al corpo dell’altra in un lungo abbraccio, augurandole, semplicemente, una buona notte. Il confronto fra le giovani poggia su basi intellettuali e ricorda in qualche modo quello fra Simone e Zaza in Le inseparabili (Ponte alle Grazie), il testo in cui De Beauvoir ricostruisce il legame con l’amica Elisabeth Lacoin, scomparsa giovanissima a causa di un’encefalite: «Lei non lo ha mai saputo: ma dal giorno in cui l’ho incontrata, è stata tutto per me.»
L’ultimo legame che vorrei mettere a tema è quello fra Jane e Bertha Mason, the mad woman in the attic, la pazza rinchiusa nella soffitta. È la prima moglie di Rochester: vive segregata a Thornfield Hall, controllata a vista dalla governante Grace Poole. In qualche modo, nella relazione possibile fra Jane e il suo padrone, lei è l’altra donna. Sono sue le urla che interrompono la quiete di una notte di luna piena e splendente (la descrizione assume i tratti tipici del gotico inglese): «il silenzio, la sua pace furono squarciati in due da un suono brutale, graffiante, stridulo, che riempì da cima a fondo tutta Thornfield Hall». La donna ci viene presentata attraverso un violentissimo scontro con suo fratello, Mr Mason, che rimane brutalmente ferito. Qualche capitolo più avanti è la voce di Jane a fornircene un’assurda descrizione: «Una figura si muoveva avanti e indietro. Così, a prima vista, era impossibile capire di cosa si trattasse, se di una bestia o di un essere umano: sembrava trascinarsi carponi e si muoveva a scatti e ringhiava come certi animali selvatici, ma era vestita e in testa aveva una massa di capelli neri striati di grigio, scarmigliati come una criniera, che le copriva il viso». La descrizione è ferina e impietosa, Bertha è una creatura, non le è assegnato nemmeno lo statuto di essere umano. La subalternità femminile si unisce alla condizione di colonizzata, come in molte delle prime descrizioni dell'altro straniero: da questa prima descrizione si intuisce facilmente che il corpo di Bertha è selvatico, e dunque non conforme a uno standard europeo e bianco. D’altronde, è proprio Rochester a definirla monstrum: è pazza e viene da una famiglia di pazzi, «idioti e lunatici da tre generazioni. Sua madre, la creola, era pazza e pure alcoolizzata!» E Bertha imitò sua madre in tutto e per tutto. Rochester ha un passato che si intreccia con la grande storia coloniale britannica e Bertha ne fa parte: gli spazi che la donna occupa nel romanzo – in cui è chiamata per nome pochissime volte – sono dominati dallo sguardo del potente colonizzatore e non lasciano spazio alcuno al suo lato umano. Da questo punto di vista, Jane Eyre è un testo perfettamente rispondente alla logica imperialista del suo tempo: una storia ottocentesca, borghese, che culmina con il matrimonio fra un ricco possidente e una donna bella e intelligente: non c’è spazio in questa fiaba per la voce della colonizzata, pazza e relegata nella sua condizione di subalternità. Sarà compito di Jean Rhys recuperarne storia e origini per dare vita al suo Il grande mare dei sargassi, romanzo del secolo scorso che accoglie le vicende di Bertha Mason prima dell’incontro con Mr. Rochester.
Un sorriso, dunque, chiude il romanzo: Jane Eyre si apre nel segno della violenza e della prevaricazione in un ambiente che avrebbe dovuto assomigliare a una famiglia, e si conclude con una scena dai toni tenui, finalmente distesi, che regnano nella famiglia che Jane ha costruito: l’atmosfera cupa lascia spazio alla realizzazione dell’ideale sogno ottocentesco, quello di una felicità di coppia simbiotica. Il prezzo da pagare è, in fondo, una nuova subalternità, forse meno esplicitamente violenta e forzata. Ma nuove strade ci saranno, e i grandi romanzi del secolo scorso – altri classici, in fondo – ce l’hanno mostrato. Il mondo degli studi sulle scritture femminili è incredibilmente affascinante, e offre campi di indagine sempre nuovi e interessanti: percorrerne la storia à rebours può essere utile per illuminare il presente – e anche, in fondo, un certo passato rimosso.
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