Domenico Starnone. L’autobiografia erotica di Aristide Gambìa

20 Dicembre 2011

Aprendo una pagina a caso del nuovo romanzo di Domenico Starnone, pubblicato da Einaudi (p. 460, E 20), con una copertina di rara eleganza, ci sono buone probabilità di imbattersi in parole oscene, in descrizioni puntuali che disegnano il sesso senza troppe concessioni al linguaggio metaforico o soltanto allusivo.

Si tratta dunque di un libro pornografico? No, se per pornografia intendiamo uno scrivere finalizzato unicamente alla produzione di uno stato di eccitazione sessuale attraverso un’esibizione che nulla lascia alla fantasia e all’ambiguità. Ambiguità che è invece la chiave per comprendere questo romanzo, la cui struttura, che crea cornici e confini incerti, permette al racconto di procedere su più binari, architettati ad arte perché gli eventi scorrano paralleli alla loro critica, in uno sdoppiarsi di prospettive e punti di vista che consente la messa a tema, nel testo, delle scelte stesse del romanzo (in primis lessicali).

L’autobiografia erotica di Aristide Gambìa, questo il nome del protagonista, editore di libri scolastici di discreto successo, si propone di raccontare la vita di un uomo attraverso le tappe della sua vita sessuale: esplora le relazioni erotiche tra uomo e donna, percorre il mutamento sociale e politico di quest’area dell’esperienza lungo gli anni della sua maturazione, registra la portata di alcune conquiste, siano di comportamento (una nuova disponibilità) o di linguaggio, e indaga il complicato intreccio delle diverse fasi della vita e il rapporto con la memoria di esse.

Nella prima parte è descritto l’incontro con Mariella Ruiz, una donna dal linguaggio prepotentemente volgare che, tra continue allusioni che però si traducono in altrettante sottrazioni, irrompe dal passato nella vita del cinquantottenne Aristide Gambìa e lo mette di fronte a un punto di vista impensato e spiazzante su un trascorso sessuale comune. È questo incontro a costringere il protagonista a un percorso a ritroso attraverso le memorie della propria vita erotica.

 

Si apre così la seconda parte del romanzo: l’ormai settantenne editore compila dei quaderni destinati alla donna incontrata più di dieci anni prima nei quali appunta le sue memorie, dal linguaggio dialettale osceno imparato nell’infanzia, all’adolescenza con i suoi riti di iniziazione, al passaggio all’età adulta, con due matrimoni, tre figli, e una libertà sessuale conquistata dopo una prima fase di castrazione borghese, durante la quale le parole del sesso erano parte di un linguaggio impronunciabile.

Domenico Starnone affianca in questa seconda parte alla voce diretta di Aristide Gambìa quella di una donna molto più giovane, che potrebbe esserne, e chissà che lo sia davvero, la figlia, che ritrova per caso il quaderno-diario dell’anziano editore e non resiste alla tentazione di leggerlo.

Nella parte finale, l’autore, in una sorta di appendice, guida il lettore nei percorsi della propria testa, mostrando la genesi del romanzo e confondendo ulteriormente le carte in tavola.

 

Affascina la struttura del libro, ma soprattutto si rivela funzionale alla riflessione sul linguaggio poiché consente la costruzione di una distanza essenziale per quel tentativo di restituire anche all’italiano, pornografico nella sua assenza di fantasia, la purezza originaria del napoletano: le parole dialettali fessa o pucchiacca, per quanto gravide di umori e cariche di una potenza sessuale molto più esplicita dell’italiano fica, hanno la stessa verginità, e potenza, del rutto de La Ricotta pasoliniana. Recuperare le parole nella loro nudità e alcune espressioni nella loro crudezza, significa arricchirle di uno spazio di ambiguità e immaginazione che ci si è dimenticati potessero contenere; significa liberarsi dal peso dell’educazione borghese e restituire loro la possibilità di farsi metafora, pur non essendo esse stesse metaforiche, grazie al modo in cui sono presentate e alla rete di mediazioni che è la struttura stessa del romanzo a porre.

 

È come se Domenico Starnone invitasse il lettore a prendere coscienza di un’intima resistenza e insieme lo conducesse con maestria a farci i conti, a sorridere del proprio sentirsi in obbligo di interrogarsi sulla scelta di un certo uso della scrittura e del linguaggio e a superare i vincoli che vi sono sottesi.

Ecco perché l’eleganza di alcuni dettagli non stona né sorprende, ma pare perfettamente in linea con la volontà di varcare una soglia: attraverso descrizioni prepotenti e incarnate anche al di fuori dei confini del sesso, il tentativo perfettamente riuscito è quello di mostrare gli uomini e le donne nella loro nudità non soltanto fisica.

 

È facile ovviamente pensare che l’ambiguità possa essere portata al paradosso: nella parte finale parla davvero Starnone? Siamo fuori dalla cornice della finzione? O anche: si tratta di un romanzo o di un’autobiografia del desiderio liberato?

 

p.s. A proposito delle ambiguità create dall’autore: voi come vi siete comportati a pagina 383? Perché io ho chiamato la libreria, chiedendo se fosse tutto a posto così.

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