Drammi per musica

10 Febbraio 2023

Lo inventarono, il melodramma, musica più azione teatrale, nella Firenze neoplatonica di fine Cinquecento, cercando di rinnovare la tragedia greca che, secondo il gruppo di artisti e intellettuali riuniti presso la Camerata di Giovanni de’ Bardi, era tutta cantata, in modi diversi a seconda delle sue differenti parti. Lo chiamarono inizialmente “dramma per musica”, anche se di drammatico, come lo intendiamo noi, c’era poco: solo la prima parte della storia, che poi con una peripezia volgeva verso l’obbligatorio lieto fine. I secoli successivi mutarono lo splendido oggetto in molti modi, fino alla commedia in musica settecentesca, alle tragedie romantiche, alle novecentesche e contemporanee opere destrutturate e moltiplicate, incroci di arti differenti.

Dopo Puccini il melodramma ha preso le strade più diverse, sempre con uno sguardo ai rapporti, consonanti o dissociati, tra parola (cantata), musica e azione scenica, con inserti danzati. Sempre attento a quel di più che la musica permette di estrarre dalla struttura narrativa dei testi, gli affetti, le passioni e le malattie dell’anima che brulicano nei loro substrati. Da molti anni, proprio per questa natura psichica, rituale, ‘primordiale’, ha invaso anche quello che un tempo si definiva teatro di prosa, provando a scardinarne le tradizionali gabbie. La musica, o meglio le musiche, e i suoni, compenetrano sempre più le azioni sceniche, costituendone un importante filo drammaturgico. 

Qui racconto due di questi moderni drammi per musica, per i quali possiamo recuperare il significato che comunemente diamo alla parola dramma, spostandolo verso quello di tragedia, se non fosse che spesso nel nostro mondo anche le situazioni più dolorose, ricche di contrasti, affetti, sofferenze, solo caricando i toni si possono definire tragedie, perché per lo più si dispiegano in tonalità di grigio senza possibilità di catarsi.

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Tutto brucia, ph. Vladimir Bertozzi.

1. Troia, ovvero La strage

Uno sfondo notturno, cupo. Rumoreggiare di mare, di risacca. Una cantante tatuata, incappucciata, imbraccia una chitarra come arma e inizia uno speech rock e rap, mentre lamenti di voci umane e suoni elettronici la punteggiano. “Questa era la città / ora c'è solo fumo. /Questa era la città / solo una distesa di macerie”. Buio, buio. Un essere umano come cane si aggira tra le carcasse, tra le rovine, tra la cenere di Troia distrutta. 

I Motus portano in tournée Tutto brucia (visto all’Arena del Sole di Bologna), lavoro ispirato alle Troiane di Euripide, la tragedia della regina Ecuba e delle principesse della sua corte ridotte a schiave o uccise, dopo che la città è stata conquistata con l’espediente del cavallo e bruciata dai greci.

Cenere, spettri di donne straziate, spade brandite, l’orrore per l’assassinio feroce del piccolo Astianatte, perché non continuasse la schiatta di Ettore. Musica continua, che scandisce l’orrore, la rabbia, che fa salire l’emotività dello spettatore. Silvia Calderoni dà corpo a varie di quelle donne violate, alta, allampanata, fragile (e carismatica) nel buio. I suoi lamenti, la cenere che sparge, le parole che lancia come per strapparsi le ferite che le segnano la carne, randagio nero che si aggira tra le rovine, si intrecciano con le apparizioni di un’altra figura morbida, mobile, segnata dal dolore con scatti e morbidezze senza enfasi, Stefania Tansini, il fantasma di Polissena e altre apparizioni. E noi quel campo violato presto lo sovrapponiamo, tra le risate e lo strazio, a un teatro di guerra più recente, la Siria e ogni altro luogo di distruzione. Di violenza innanzitutto contro le donne. 

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Tutto brucia, ph. Luigi Angelucci.

Intanto R.Y.F (Francesca Morello) lancia le sue schitarrate, canta i testi suoi e dell’attivista femminista Ilenia Caleo, trasportando ancora più vicino a noi, dentro di noi, la tragedia andata in scena nel 415 a.C., scritta da Euripide come reazione a interventi punitivi di Atene contro alleati che l’avevano abbandonata durante la Guerra del Peloponneso.

Daniela Nicolò e Enrico Casagrande, che firmano ideazione e regia, puntano sugli effetti forti, per rendere lo strazio qualcosa che ci entri dentro a fondo. Sottraggono a Euripide i conflitti dialettici con i vincitori, depauperando il testo, o piuttosto reinventandolo lasciando voce solo alle donne vinte, tra sventolare di bandiere nere, rotolamenti nel fango, lanci di cenere, negli ambienti sonori di Demetrio Cecchitelli, palpitanti insieme agli strappi di chitarra e agli insinuanti, continui, contrappuntistici interventi live electronics governati al mixer da Casagrande.

La storia arriva a noi, con un elenco di nomi di vittime femminili che sanno dei disastri, delle guerre che oggi ci circondano nel mondo. Certe volte il pedale patetico è spinto fin troppo in fondo, e la ricca veste musicale in questo aiuta a muovere, commuovere, ad abbandonare ogni distanza, ogni ragionamento, ogni brechtismo, chiedendo all’adesione sentimentale di diventare sdegno politico. Qui siamo solo nei deserti della distruzione, della rovina, con i vincitori ridotti a ombre lontane, tra le vittime, tra le donne violate, abusate, private dell’identità, del rango sociale. Troppo facile e unilaterale? Ma indubbiamente efficace, in linea con lo spirito dei nostri tempi (e del melodramma), che vuole com-patire, soffrire insieme, partecipare, cambiare.

Le autrici, alla fine, saltano oltre il cupo senso di impotenza di Euripide: “No, no, no, non è giusto morire… / Fanculo i vostri fottuti eroi / Noi non vogliamo morire /Siamo qui per restare / E combatteremo / Abbiamo attraversato / il mare infuocato / Non vi approfitterete più di noi / La nostra lingua è ora una spada / E saremo la vostra spina nel fianco” canta, sempre in inglese, R.Y.F. 

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Tutto brucia, ph. Luigi Angelucci.

Lo ribadisce al microfono Silvia Calderoni, cane, performer che si denuda, figlia violata e mater dolorosa, regina detronizzata che usa il fondale come un grande mantello, evocando, con la danzatrice, fuochi che incendiano con neon che nella performance hanno assunto diversi colori, il ruolo di spade, di nascondigli, aprendo, per squarci, il cupo buio: “E tra duemila anni ancora / il nostro nome sarà su tutte le bocche / e quando non saremo che atomi e fiato / voi maledetti non potrete fare niente, niente / contro questa memoria / che vi consuma / perché saremo tutto, / e saremo ovunque / capaci di prendere qualsiasi forma / e andare …”. Volontarismo? Speranza? Illusione? Impegno politico ed esistenziale? L’ultima parola che dice Silvia-Ecuba, uscendo, trascinandosi dietro il fondale-mantello, è: “Vuoto”.

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Have a Good Day!, ph. O. De Carlo.

2. Il codice a barre, ovvero La merce

“Dorme tranquilla la panna / le uova in riga vestono / pigiami di calcio…”. È una dolce ninnananna quella che accoglie il pubblico, quando si è sistemato di fronte a dieci cassiere, in divisa azzurra di ipermercato, che scansionano codici a barre con beep continui. Un pianoforte verticale in un angolo, alcuni boys magazzinieri e addetti alla sicurezza intorno. 

Bologna, invasa da Arte Fiera e Art City nel primo fine settimana di febbraio, riserva a un bello spazio di periferia, gli ariosi, modernissimi Teatri di Vita, una performance lituana, Have a Good Day!, uno di questi nuovi drammi per musica, questa volta non proiettato sul mito ma su figure centrali del vivere odierno (già mitiche?), i beni di consumo e quelle piazze non-luogo dove si celebrano i rituali rutilanti del desiderio, dell’adescamento delle merci, della vendita generale, dell’induzione di bisogni, dell’acquisto, dello sperpero.

Sono sedute in alto, in riga, le cassiere, e racconteranno per poco meno di un’ora, cantando, le loro vite, lo splendore abbacinate di oggetti, detersivi, profumi, bevande, cibi allineati sugli scaffali e la schiavitù cui legano. Cantano a cappella, senza musica, o con inserti liquidi del pianoforte, cui sono delegati anche alcuni intermezzi. 

Si inizia quando il supermercato chiude, si addormenta (“Dorme tranquilla la panna…”), lullaby per una cantante matura, di voce profonda, punteggiata dalle altre con interventi in unisono o in controcanto. Si riprende con uno squillante risveglio, in cui le merci, i codici a barre, gli sconti iniziano la loro survoltata giornata. Ogni brano ha uno stile musicale, con rapporti diversi tra soliste e cori, voci squillanti o profonde, frenetiche, duetti e altri gruppi vocali, indiavolati ritmi stravinskijani e momenti riflessivi, litanie, cori e ancora cori, parti parlate e insiemi scanditi. Quando è l’ora di digitare, 1,2,3,4,5,6… fino a 10, e poi indietro al contrario, le voci si inerpicano in scale ascendenti e discendenti, con sonorità pentatonali, esatoniche, orientaleggianti. Sembra di sentire momenti di Madama Butterfly di Puccini. In altri punti siamo dalle parti della canzone folk, di quella popolare, di Britten o delle dissonanze novecentesche. 

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Have a Good Day!, ph. O. De Carlo.

L’ironia è la prima cifra che colpisce, con l’amore per le merci e con quella cura nella concertazione del canto che in certi momenti ricorda i contrappunti bestiali alla mente di Banchieri, con lirismo o nervose accensioni, utilizzati per esaltare un mondo prosaico, nel quale pure siamo immersi. A poco a poco, sempre con accenti (e atmosfere luministiche) differenti, arrivano stilettate, che rovesciano la felice esuberanza delle merci: ascoltiamo la storia della madre che vorrebbe raggiungere il figlio emigrato in Inghilterra, ma non guadagna abbastanza; la laureata in storia dell’arte che, come le amiche, non ha trovato lo sbocco professionale che cercava e sogna di lasciare quel lavoro stressante e mal pagato; la cassiera che se perde il primo autobus, prima dell’alba, fa tardi al lavoro; quella che vorrebbe fuggire dai beep e ritirarsi in un antro, lontano da tutto, a pizzicare un gufo… 

I Teatri di Vita compiono in questo 2023 trent’anni di attività e li celebrano, così come fanno da quando sono nati, investendo sull’incrocio tra le arti, sul teatro contemporaneo civilmente impegnato, sullo sguardo curioso a panorami stranieri. 

In Have a Good Day! si tratta di alienazione e reificazione per contrasti. Cantano con accenti dolci e malinconici o con rabbia le dieci cassiere, caratterizzate come la forestiera, l’ottimista esaltata, la sfrontata che si dà le arie, la nuova arrivata, la madre dell’emigrato, la studiosa d’arte, una mamma sola, quella che canta la ninna nanna ai prodotti, quelle del duetto del risveglio delle merci.

Questa opera lirica contemporanea, che suona il supermercato, è stata prodotta da Operamanija e portata a Bologna da Mambo, Museo d’arte moderna di Bologna, in collaborazione con varie istituzioni culturali lituane. Il concept è di Vaiva Grainyté (libretto), Lina Lapelyté (composizione e direzione musicale), Rudilé Barzdžiukaité (regia e scene). La musica qui procede per moti e affetti contrari: ci porta dentro e ci distanzia, ironicamente, ci seduce e ci obbliga a guardare dietro usi, luoghi e loghi della vita quotidiana, rivelandoli, dietro le maschere seducenti, alienanti, assillanti, invasivi: in definitiva mostruosi.

L’ultima immagine, da Tutto brucia, è una fotografia di Luigi Angelucci.

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