Milano, Fondazione Pini / Elisabetta Benassi. Lady and gentlemen

10 Ottobre 2021

La nuova mostra di Elisabetta Benassi a Milano inizia in un vestibolo della bella palazzina ottocentesca che ospita la Fondazione Pini, a cui si giunge per un’ampia scala. La stanzetta è svuotata, c’è solo un leone di marmo nell’angolo, che vigila sui visitatori, un televisore al centro e due poltroncine d’epoca per assistere comodamente a un video. Si tratta di un documentario del 1975 realizzato in occasione della visita di Andy Warhol a Ferrara in occasione della sua storica mostra a Palazzo dei Diamanti.

Perché “storica”? Non solo per l’importanza della serie che Warhol vi espose in prima mondiale, ma anche per il significato che l’episodio segna per altri versi. È noto che Benassi lavora fin dall’inizio su figure, materiali e eventi storici. Il modo in cui lo fa è uno dei grandi interessi della sua opera. Ebbene, qui si tratta di un intreccio estremamente significativo: Warhol aveva ricevuto una committenza per un ciclo di opere nuove dal gallerista torinese Luciano Anselmino per una cifra assolutamente rilevante, anzi la più alta che l’artista avesse mai ricevuto fino ad allora, ovvero 900mila dollari dell’epoca. Questo è il primo tema della mostra: il rapporto arte/denaro, non scontato quanto si pensi, perché siamo proprio nel momento in cui questo rapporto matura nei termini della (post)modernità che Warhol probabilmente più di chiunque altro ha incarnato e incarna: la chiamava Business art, come si ricorderà, e segna l’assunzione della questione denaro nei meccanismi stessi dell’arte a questo punto elevati, come si comincerà a dire, a “sistema”.

 

Sala 1, Elisabetta Benassi, ph Andrea Rossetti.


Non è tutto, naturalmente. L’evento si intreccia ad altre questioni. Una si vede al centro del documentario, la cui parte maggiore è dedicata a una tavola rotonda tenutasi il giorno dopo l’inaugurazione tra Warhol, Bob Colacello, Franco Farina, Janus e Anselmino, in cui i due critici insistono a più riprese chiedendo all’artista della sua posizione politica, anche perché hanno saputo che sta lavorando a un’altra serie nientemeno che sul simbolo della falce e martello, che esporrà nel gennaio del 1977 da Leo Castelli dando adito a un famoso commento del filosofo Arthur Danto (vedi Andy Warhol, Riga 33, Marcos y Marcos, 2012). Warhol si sottrae a una risposta diretta, cioè sì o no, giocando con l’amico Colacello come faceva spesso nelle interviste, facendo rispondere a lui. Warhol in effetti rappresenta proprio questa domanda: come si fa a rispondere in termini di impegno politico oppositivo in un sistema? Non siamo proprio nel punto di impossibilità? Di lì a pochi anni l’opposizione crollerà drammaticamente con il caso Moro, poi inizierà il postmodernismo della società dello spettacolo compiuta, del simulacro baudrillardiano, della ragion cinica sloterdijkiana e via dicendo. Il “business” significa tutto questo.

 

Sala 1, Elisabetta Benassi, ph Andrea Rossetti.


Situazione complessa dunque, che è la premessa, ovvero l’entrata, appunto, alla apparente semplicità, invece efficace sintesi delle opere che troviamo nelle altre stanze. Dico “sintesi”, perché qui sta la posta in gioco formale del modo di fare arte di Benassi che anticipavo. Ebbene, prima di completare il quadro della situazione, si dirà che il resto della mostra è composto da una serie di assegni, nove, che si vedono sparsi nelle altre sale della Fondazione. Ecco dunque il tema del danaro reso esplicito. Per ora farò notare soltanto l’efficacia della sintesi esprimibile con il gioco di parole segno/assegno, che dice bene come il denaro abbia sostituito il segno e che il segno è diventato a sua volta denaro, rapporto tra valore d’uso e valore di scambio, nonché tra valore simbolico-linguistico e valore economico-sociale, ormai rovesciati o integrati.

 

Sala 4, ph Andrea Rossetti.


Ma c’è un ulteriore tema della mostra, anzi due e più, ancora non enunciati. La serie di opere di Warhol in questione nella mostra di Ferrara è infatti una serie particolare, Ladies and Gentlemen, il cui argomento è il travestitismo. L’idea pare sia stata di Anselmino, ma Warhol l’aveva già trattata nei suoi film. Peraltro proprio dopo la mostra uscirà il libro La filosofia di Andy Warhol con dedica proprio ai travestiti, che Warhol chiama impropriamente drag queens, che incarnano un “lavoro doppio”, scrive Warhol, con cui cercano di assomigliare alle femmine, cioè propriamente “diventare l’imitazione di quella che era la fantasia della donna che ti eri fatto all’inizio”, giro di frase che dice bene il groviglio del gioco dei rovesciamenti che è in ballo anche a livello di immagine.

 

Sala 2, Elisabetta Benassi, Installation view, ph Andrea Rossetti.


Sul tema del travestitismo si innestano gli altri temi. La serie commissionata comportava infatti anche una edizione di serigrafie che Anselmino avrebbe presentato nell’autunno dello stesso anno nella sua galleria a Milano e per la quale aveva chiesto una presentazione in catalogo a Pier Paolo Pasolini. Pasolini, che è autore diverse volte chiamato in causa da Benassi – le sue prime due opere che la resero famosa erano già due video in cui la si vedeva in moto con un sosia dello scrittore in uno e giocare a calcio con lui nell’altro (Time code e You’ll never walk alone, del 2000) –, come si ricorderà venne assassinato il 2 novembre di quell’anno, episodio dunque sotteso all’evento in causa, che fece slittare la mostra milanese all’anno seguente in un clima decisamente cambiato anche in questo senso in cui il testo suonava come una sorta di testamento. Scriveva, sempre con la profondità e inesorabilità delle sue interrogazioni: “Ci può essere una divisione storica nell’universo in cui viviamo? Può scorrere una linea divisoria tra gli uomini? E in particolare nelle loro coscienze? Una rivoluzione marxista può, prima, separare il “tutto unico” attraverso quella opposizione fatale e totale che è la lotta di classe e poi trasformarlo fino a farlo sparire?” Queste sono le domande che costituiscono il messaggio che l’Europa manda all’America, il messaggio della quale invece “implica unitarietà, omogeneità, compattezza.

 

Sala 2, Assegno Warhol, ph Andrea Rossetti.


Ed è per questo ancora più misterioso”. Poi paragona i travestiti di Warhol a dei “dignitari bizantini in un’abside stellata ravennate”, ma ne svela la “doppiezza”, il “dramma oppositorio”, concludendo: “La rappresentazione del mondo esclude ogni possibile dialettica. È, al tempo stesso, violentemente aggressiva e disperatamente impotente. C’è dunque, nella sua perversità di ‘gioco’ crudele, astuto e insolente, una sostanziale e incredibile innocenza”.

Nei termini di Pasolini, la posta in gioco resta questa difficoltà di definire le possibilità di pensiero e di azione di fronte al cambiamento epocale in atto.

 

Sala 4, Elisabetta Benassi, Installation view, ph Andrea Rossetti.


Torniamo alla mostra. Gli assegni hanno a loro volta diverse particolarità. Innanzitutto costituiscono una collezione speciale di Anselmino, che se li faceva firmare dagli artisti con cui lavorava: c’è quello di Warhol, quindi Giorgio de Chirico, Man Ray, Christo, Allan Kaprow, Christopher Makos, Alexander Jolas, e uno anonimo, o forse non identificato. L’idea di Anselmino, il ricco mercante dell’operazione Ladies and Gentlemen, è stata che fossero assegni di cifre irrilevanti, un dollaro, un franco, cinquanta lire; o, al contrario, ma con uguale risultato effettivo, quello anonimo ha indicato come cifra “senza limiti”. Quello che conta dunque è di fatto la firma. D’altro canto, dove c’è assegno in arte c’è sempre una riflessione non solo sul denaro ma appunto anche sulla firma, ovvero sull’autorialità, sull’identità, sull’autenticità, sull’unicità. Ebbene tutti gli assegni in mostra non sono in realtà gli originali, ma sono copie fatte fare all’acquarello da esperti esecutori, non da Benassi stessa.

 

Sala 2, Elisabetta Benassi, Francesca Rossi.


Naturalmente, però, la sua firma c’è. Duplice, intanto perché ce n’è uno, di assegno, aggiunto agli altri “storici”, firmato appunto da lei, e significativamente lasciato in bianco; inoltre perché Benassi firma l’intera operazione.

Il suo assegno naturalmente non è stato richiesto da Anselmino, morto nel 1979 a soli 36 anni. L’intrusione è però proprio il centro dell’esposizione, che infatti, come si sarà notato, si intitola Lady and gentlemen, una lady tra i gentlemen, con piglio anche femminista, ma indica anche il senso dell’operazione, ovvero l’entrare dentro la “storia”, non il citarla, farla vivere nella rielaborazione, non rimemorarla, insomma farla diventare “opera”, fare opera con la storia, e non quella più nota, quella monumentale, ma quella che senza cessare di essere marginale, acquista una paradigmaticità che ne fa un altro centro. Questo modo di fare arte oggi per me è un modo originale, che vale come una forma nuova tutta da far valere – per usare i termini qui in causa.

 

Sala 2, Assegno Man Ray, Francesca Rossi.


Un ultimo dettaglio: gli assegni sono curiosamente esposti in strani contenitori che si rivelano essere dei mini-frigoriferi con fronte in vetro, bella metafora, mi pare, dell’insieme di vetrina e conservazione, dunque dell’insieme stesso dell’operazione, questo conservare che è un tenere a disposizione per continuare a farne altro. L’ultimo frigorifero, quello che contiene l’assegno di Benassi, è aperto, con una penna incastrata nello sportello: naturalmente è perché lei è l’unica artista viva dell’insieme, e la penna sta a suggerire che l’assegno deve ancora essere intestato, ma indica anche appunto che l’operazione è aperta, è un’apertura.

La mostra, che dura fino al 17 dicembre, è a cura di Gabi Scardi e accompagnata da un piccolo catalogo, edizioni Nero, che contiene un testo in forma di lettera di Emanuele Trevi.

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