Immagini simboliche / La metafora viva dell’alchimia

21 Marzo 2021

Ernst Cassirer lo aveva colto perfettamente: l’essere umano non è un animale razionale ma un animale simbolico; per noi, cioè, non è in alcun modo possibile accedere al reale senza l’intermediazione del simbolico che ne organizza l’esperienza. Ma che succede se proprio la più peculiare delle nostre caratteristiche si atrofizza, sino a farci temere di vivere in un mondo caratterizzato da un analfabetismo simbolico figlio di una sempre più diffusa e pericolosa tendenza alla letteralizzazione? Si tratta di una condizione più volte denunciata da James Hillman che invocava come antidoto il recupero della visione alchemica, nella quale Jung riconosceva una protopsicologia del profondo. 

 

 

Ecco perché il libro Jung e la metafora viva dell’alchima, curato da Simona Massa Ope, Arrigo Rossi e Marta Tibaldi, e con contributi anche di Stefano Carta, Clementina Pavoni e Nicole Janigro, uscito di recente per Moretti & Vitali (pp. 265, euro 20) appare quanto mai utile e attuale. Questa antica pratica, trasversale a tutte le culture, invita infatti l’essere umano a confrontarsi simbolicamente con ogni realtà, allo scopo di “trasformare il metallo vile della propria esperienza quotidiana nell’oro della riscoperta della propria identità più profonda” (Arrigo Rossi, p. 14). In questa prospettiva, “l’oro è l’illuminazione che libera dalle tenebre dell’incoscienza, di cui si fa carico, per le sue intrinseche qualità, la materia prima, opaca, caotica, plumbea; sono infatti emozionalmente pesanti e inintelligibili i materiali psichici grezzi, non ancora lavorati dall’elaborazione analitica, che tende a estrarre da essi l’oro della presa di coscienza e il senso delle cose dalla scorsa dell’apparenza” (Simona Massa Ope, p. 57) – viene in mente la funzione alfa di Bion. Ma non nell’ingenua illusione di poter cogliere la verità dietro l’apparenza, ma nella consapevolezza acquista che non può mai darsi un’unica interpretazione di una realtà viva e complessa e che il compito della ricerca consiste piuttosto nell’esercitarsi nella moltiplicazione di prospettive di senso, come accade in sogno e come insegna, sotto ogni aspetto, l’irriducibile paradossalità ed eccedenza di significato di ogni simbolo. Ed è proprio per questa sua straordinaria “riserva immaginale di intuizioni psichiche che, nella loro paradossalità, sono capaci di abbracciare la pienezza della vita in contrapposizione all’univocità, segno di debolezza e limitazione,” (ibid., p. 16) che gli autori scorgono nell’alchimia un’opportunità preziosa per esercitare un’ermeneutica simbolica che si rivela un esercizio dialettico, non solo con il testo, ma con se stessi e in particolare con quella “alterità che è in noi” che chiamiamo inconscio. 

 

 

Particolarmente interessante risulta in questo senso la rilettura che Stefano Carta offre della fase alchemica della nigredo, come stadio psicologico di profonda sofferenza e angoscia che può preludere, “deo concedente”, a una rinascita psichica che, tuttavia, non è guadagnata per sottrazione dal negativo ma, piuttosto, attraverso la sua integrazione nel rinvenimento del senso tragico dell’esistenza, nel significato nietzschiano del termine. Contro “l’aberrazione del moderno DSM-V” che persegue l’ideale di una “cura a ogni costo della depressione” (p.68), l’alchimia vede nella nigredo una fase certamente dolorosa ma straordinariamente feconda che può corrispondere “allo stato in cui l’esperienza della vita unilateralmente affogata e imprigionata nel suo aspetto materiale (l’esperienza, come si pontifica oggi: evidence based, fondata e crocifissa sui presunti fatti oggettivi, o l’illusione dell’io di bastare e di coincidere con se stesso) coglie l’insensatezza, l’illusorietà e la limitatezza della propria condizione e, acquisendo coscienza di sé, trova compimento nella realizzazione trascendentale della natura spirituale del corpo e corporea dello spirito, o della realtà per la quale ciò che è eterno si realizzerà nel tempo” (p. 89). Un processo che, tuttavia, non si compie da sé né ma richiede la personale presa in carico del soggetto, la sua messa in opera nel travaglio dello spirito, che può aprire le porte a una trasformazione nel segno di un nuovo stile di vita, più consapevole e meno identificato con l’io e i suoi attaccamenti. Una rinascita potenzialmente caratterizzata da valori nuovi, nella quale la gratitudine per la vita appare facilitata dal superamento dell’apparente cosalità e materialità della realtà. Quando, e se, questo avviene, si perviene allora alla fase alchemica dell’albedo, della quale si occupa il contributo di Simona Massa Ope, tutto giocato sull’analogia con la poetica della parola “che attraversa e interrompe l’opacità delle cose” con la “sua bianca luce metaforica”. Come l’alchimia la parola poetica “esprime il mistero senza dissiparlo” e stimola in noi una diversa forma di pensiero che “non è opera dell’intelletto ma dell’anima” (pp. 129-130). Le sue metafore vive svolgono una funzione analoga ai simboli vivi di Jung, hanno cioè carattere psicagogico, trasformativo e indicano la strada per un’ermeneutica simbolica che eserciti, ancora una volta, “a sorvolare sul letteralismo dei territori” della psiche (p. 157). Lo sguardo simbolico, infatti, non dipende dagli oggetti ma dalla nostra capacità di osservarli, di immaginarli altrimenti, di coglierne altri significati possibili. Quando ciò riesce si giunge a quella che, nel linguaggio alchemico, si definisce rubedo, la fase finale del processo caratterizzata non tanto dall’emersione di un materiale inconscio ma dal nostro modo di rapportarci ad esso. 

 

 

Ce ne parla Mari Tibaldi che riprende alcune delle pagine più suggestive di Jung su “l’esperienza del compimento” intrecciandole alle sue personali esperienze nella stanza d’analisi e a più recenti studi di neurobiologia. La rubedo costituisce il compimento del processo come sintesi creativa delle due fasi precedenti quale sforzo consapevole, individuativo, estetico nel senso più profondo del termine, che mira alla totalità dell’essere umano e che coopera alle sorti del cosmo, di cui si riconosce espressione. Una completezza che Jung, come ci ricorda Tibaldi, differenzia totalmente dalla perfezione, non solo irraggiungibile ma persino sterile. La realizzazione dell’oro filosofico alla quale la rubedo fa riferimento appare dunque come la possibilità di realizzare l’integrazione di sé con lo spirito vitale che abita tutte le cose e che ci trascende, aprendo anche alla pratica analitica nuovi scenari di senso. 

 

 

Il più celebre esempio alchemico della nostra innata capacità di osservare simbolicamente ogni realtà è senza dubbio incarnato alla “pietra filosofale”, alla quale si dedica il saggio di Clementina Pavoni, che ha il merito di ricostruire la centralità di questo tema non solo nella teoria di Jung ma anche nella sua personale vicenda biografica. Le sue sculture, i suoi dipinti e i suoi sogni, ne sono una vivida testimonianza che ritorna costantemente nelle sue narrazioni. Appare evidente che “le pietre per Jung non sono rovine, ma materia viva e presente, elementi importante per creare e costruire” (p. 222), capaci di ridestare il bambino che era stato e le sue funzioni eto-poietiche, potremmo dire con Foucault. Quando Jung chiederà a Sabine Spielrein di “custodire la sua anima”, le consegnerà del resto un sasso che portava con sé dai tempi dell’infanzia. E fu per esercitare “una particolare professione di fede in pietra” che Jung eresse una torre nella casa di Bollingen, ed è proprio alla pietra, non meno che al libro rosso, che ritenne di dovere la sua rinascita, “l’autorealizzazione dell’inconscio”. (pp. 227-228). 

 

Non dovrebbe stupirci che l’immagine del lapis costituisca per Jung la metafora viva del lavoro su di sé che anima la materia e incarna lo spirito: “la storia della nostra esistenza”, osserva Nicole Janigro, “è in fondo un racconto per immagini”. Il nostro essere soggetti visivi ci offre la possibilità, ben spiegata da Cristopher Bollas, di vivere “un’esperienza dell’essere e non della mente, radicata nel coinvolgimento totale del Sé e non oggettivata dal pensiero rappresentativo e astratto” (p. 234) in maniera analoga a quanto Jung sostiene di quella immaginazione poetica alla quale affida le più importanti intuizioni psichiche del lavoro analitico e, più in generale, su di sé. Come Freud, osserva Janigro, anche Jung temette di essere troppo artista e troppo poco scienziato (quantomeno agli occhi di quanti chiedevano a questa nuova disciplina di accreditarsi nel mondo delle scienze positive). Ma specie il libro I tesori dell’inconscio. C. G. Jung e l’arte come terapia svela come il ricorso all’arte costituisse per Jung un metodo terapeutico grazie al quale invitava le sue analizzanti a esprimere le loro immaginazioni e a riconoscere il carattere non esclusivamente passivo delle immagini, che Jung aveva già sperimentato con la pratica dell’immaginazione attiva. 

 

Analogamente con la produzione artistica, piena di simboli archetipici, il paziente crea le condizioni non solo per familiarizzare con il proprio mondo inconscio, ma apprende, per usare le parole dello stesso Jung, “a rendersi indipendente per auto-creazione, a non dipendere più dai suoi sogni o dal sapere del suo terapeutica” per apprendere che “nel dipingere per così dire sé stesso può plasmare se stesso, perché quel che dipinge è fantasia operante, che opera in lui”. (Jung, Pratica della psicoterapia, cit. a pag. 243). Una pratica terapeutica che Janigro assimila a Vita? o teatro? di Charlotte Salomon, ebrea berlinese che non conosceva Jung al quale tuttavia appare vicinissima per la sua capacità di “raccontare e rappresentare n una sistemazione armonica elementi personali e collettivi, intimi e storici, inconsci e archetipici” con “la struttura di un montaggio mito-biografico” (p. 245), rivelando quel punto di congiunzione tra l’arte e la vita che permette la fioritura e lo sprigionamento di entrambi.

Ecco perché un buon programma di alfabetizzazione simbolica può partire da questo libro collettaneo e dai molti stimoli che sa suscitare, non certo come dizionario alchemico e riserva di immagini simboliche ma come opportunità per familiarizzare con la nostra capacità di scorgere aspetti e potenzialità simboliche in ciò che esiste, questione fondamentale non solo per i singoli individui ma per la società e per l’avvento di quella che alcuni hanno chiamato una democrazia del profondo. 

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