Cucina per diletto: un romanzo di formazione
Si sa: viviamo in un mondo governato dagli specialisti. Siamo tutti esperti di qualcosa di molto piccolo e molto preciso, ipercompetenti in un qualche campo che riduce progressivamente la sua area in favore di altri soggetti che, nel dettaglio, ne sanno e fanno meglio di noi. Al lavoro produciamo una sola e singola cosa; nel tempo residuo ne consumiamo moltissime altre; una volta ogni tanto ci viene richiesto di esprimere il nostro parere di cittadini. A tutto il resto pensano gli specialisti, ai quali deleghiamo gran parte delle faccende di cui pure avremmo potuto occuparci personalmente, con minore bravura ma altrettante opportunità. Alla salute pensa il medico, alla psiche lo strizzacervelli, ai pasti l’industria alimentare, all’intrattenimento le major hollywoodiane, al corpo il personal trainer… Sembra perfino che esistano agenzie, appunto, specializzate nello spedire qualcuno a far visita ai nostri genitori anziani e soli. Per non parlare delle innumerevoli app del telefonino, che fanno benissimo un sacco di roba al posto nostro.
Si tratta, a ben pensarci, della realizzazione certosina di quel principio della divisione sociale del lavoro di cui Adam Smith e tanti altri dopo di lui hanno predicato la (dubbia) razionalità. Dubbia perché, come in molti stanno cominciando a notare, la specializzazione diffusa mina il senso di responsabilità, crea dipendenza, genera profonda ignoranza. Più ci specializziamo nel nostro minuscolo orticello, meno sappiamo di quel che, oltre la staccionata, lo trascende. Con buona pace di chi, sempreché esista ancora, deve e vuole gettare uno sguardo d’insieme sul mondo e domandarsi: cosa ci sta succedendo? L’esperto, diceva Ortega y Gasset, è un ignorante istruito: figura ormai dominante, come abbiamo avuto modo di considerare, sia nei grandi scenari dell’economia e della politica sia in quelli, più piccoli ma non meno importanti, dell’esperienza quotidiana.
Riemerge così, sotto mentite spoglie, quella figura del dilettante che nei salotti settecenteschi europei andava per la maggiore e che i poeti romantici, opponendola al genio, hanno dileggiato con estrema pedanteria, consegnandocela come patetico pittore della domenica (lo spiega bene Andrea Mecacci nel suo recente libro sul Kitsch uscito dal Mulino). Oggi che il genio, a parte qualche mitologia mediatica, s’è pressoché dissolto, il dilettante torna a essere personaggio positivo di contro allo strapotere ottuso dello specialista. Il dilettante è uno che, non sapendo di nulla in particolare, conosce di tutto un po’, e sa anche come passare da un campo all’altro, da un’expertise all’altra, incrinando un gran numero di steccati e indicando pletore di re nudi. Il dilettante è fuori posto, dà fastidio, irrita: e questo perché traduce a più non posso, creando accessibilità e opportunità, intravedendo percorsi nuovi senza perdere il senso delle circostanze, mantenendo cioè quello che una volta si sarebbe chiamato, molto semplicemente, tatto.
Tutto questo per segnalare l’apparizione in libreria di un testo che, al di là delle dubbie mode gastromaniache del momento, va salutato con ironica attenzione e accigliata curiosità. Si tratta dell’ultimo libro di Michael Pollan, divulgatore d’eccezione, intitolato niente più e niente di meno che Cotto, e uscito da poco, come i precedenti Il dilemma dell’onnivoro e In difesa per cibo, da Adelphi (pagine 506, € 28). Pollan, editorialista del Nyt e docente di giornalismo a Berkeley, sa scrivere, e benissimo. Non lavora sullo stile di per sé ma sul modo sagace in cui la forma espressiva riesce articolare i contenuti, in un connubio in cui lo storytelling, al modo degli antichi miti, si fa interpretazione pensosa del mondo e, viceversa, la riflessione sulle cose passa sapientemente per il tono affabulatore. Diciamolo subito, a mo’ d’esempio non esclusivo: le trenta pagine sulla dadolata di cipolle sono poesia pura, perché gravide di teoria e di dubbi, di esemplare esperienza vissuta che si fa, inesorabilmente, modello d’interpretazione del resto del mondo.
Il ragionamento romanzesco di Pollan prende avvio da quello che viene definito paradosso della cucina: più si parla, oggi, di arte culinaria nei media, meno le persone stanno ai fornelli. Si passa più tempo davanti lo schermo a veder la gente spadellare e spiattellare che non in cucina, chez soi, a spadellare e spiattellare. Hanno calcolato che negli Stati Uniti, in media, il tempo passato per preparare da mangiare è di 27 minuti al giorno: meno di quanto non duri, esclusa la pubblicità, una qualsiasi trasmissione televisiva sedicente gastronomica. Fra l’altro, quel che si modifica molto rapidamente è il concetto stesso del cucinare o, per meglio dire, delle azioni che si compiono per preparare i pasti. La maggior parte delle persone, per esempio, oggi chiama ‘cucinare’ cose come tirar fuori la cotoletta di pollo dal surgelatore e sbatterla per trenta secondi nel microonde, oppure spalmare il burro di arachidi sul pane tostato. Ma anche questi gesti, alla fin fine, possono essere eliminati dalla nostra giornata tipo perché non necessari, dato che l’industria alimentare, già da un po’, non si occupa soltanto di manipolare le materie prime (fornendoci pesce a forma di bastoncini preventivamente panati o ravioli già ripieni di ricotta e spinaci) ma ha l’obiettivo ben più ambizioso di offrirci pasti pronti di tutto punto, spuntini confezionati dove, per esempio, il sandwich di prosciutto e maionese con cetriolini sottaceto è accuratamente accompagnato dalla lattina di soda e dal muffin tempestato di ‘golose’ gocce di cioccolato.
In un mondo dove i media straparlano di cucina sino all’esasperazione, proponendoci stuoli di chef-artisti come modelli esemplari per la nostra banale vita quotidiana, l’atto del cucinare è divenuto totalmente superfluo, nel senso precipuo di non indispensabile per la sussistenza personale e familiare. Le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, incarnate dall’industria del cibo, sono arrivate a un punto tale di expertise da avere del tutto cancellato dai nostri doveri d’ogni giorno il predisporre da mangiare. C’è qualcuno – ben più bravo e rapido di noi – che lo fa al posto nostro, lasciandoci un sacco di tempo libero per far altro (che poi significa, al netto dei consumi mediatici, lavorare di più). Accade così, per perversione della storia, che la nota catena americana di fast food KFC, per vendere le sue tonnellate di pollo fritto low cost a milioni di stomaci globalizzati, nelle sue campagne pubblicitarie si erga a difesa delle casalinghe statunitensi, non più costrette, grazie ai suoi pasti pronti, a cucinare per tutta la famiglia. Un fast food femminista non ce lo saremmo aspettato: ma è figlio iperlegittimo del liberismo economico.
Avrete compreso dove va a parare il ragionamento di Pollan: se la cucina non è più un dovere quotidiano, faccenda domestica che opprime da millenni il genere femminile, diventa occupazione per festosi dilettanti: sganciata dai doveri casalinghi, e perciò indirizzata ad altri intenti e altri valori, come quello della socializzazione, della salute, del rispetto dell’ambiente, dello spessore esistenziale ed etico del tempo proprio e altrui. Il dilettante, riflessivamente, si diletta, ma, se cucina, lo fa mettendo in atto uno dei gesti antropologicamente più ricchi di senso della specie umana – il passaggio dalla natura alla cultura –, non soltanto divertendosi ma procurando piacere agli altri: che sono poi, quasi sempre, le persone che ama. Cucinare è atto transitivo ma soprattutto trasformativo: modifica le materie prime, reimposta le relazioni sociali, migliora chi se ne occupa. Dilettarsi in cucina – come Pollan dichiara d’aver imparato a fare con estrema soddisfazione – non è insomma occupazione sbarazzina per signore sfaccendate, ma gesto energico di chi intende riprendersi in carico il gusto, e la connessa responsabilità, di nutrirsi e nutrire, facendo, alla lettera, di necessità virtù.
Inizia qui, dichiarata la posta, il libro vero e proprio di Pollan: quasi cinquecento dense pagine in cui si svolge un avventuroso romanzo di formazione, l’euforica storia di un apprendistato culinario che, ripercorrendo i quattro elementi cosiddetti aristotelici (fuoco, acqua, aria, terra), passa in rassegna le corrispondenti tecniche di cottura: l’arrostitura, la bollitura, la panificazione, la fermentazione. L’epica, molto spesso, ha meglio sulla spiegazione scientifica. Da cui le lunghe tirate sui barbecue di maiali interi in North Carolina, riproposti ironicamente al Rockfeller Center di Manhattan. O le digressioni, già ricordate, sulla cipolla ridotta a dadini, attività modesta ma indispensabile per qualsiasi pietanza che vada cotta in casseruola. O, ancora, i racconti sulla lunga attesa per ottenere il lievito madre necessario per la pasta di pane. Per non parlare della filippica sull’arte del preparare la birra o il formaggio, frutto di tecniche raffinate nel trattare i processi di fermentazione delle sostanze naturali, molto vicini, si ricorda, ai processi mortiferi. Tutto si fa allora piacere del testo, pura gioia di lettura: unica attività oltre il sesso, secondo Roland Barthes, completamente sganciata dal funzionalismo sociale. Insieme alla cucina, aggiunge adesso, sensatamente, Michael Pollan.