Un altro giorno di morte in America

11 Ottobre 2018

Ogni giorno negli Stati Uniti sette bambini e adolescenti muoiono per colpi di arma da fuoco. Sono così tanti che fanno notizia i casi più mostruosi, i più insensati. Gli altri scivolano via nell’indifferenza generale, vittime di una guerra data per scontata. In un libro che è un pugno nello stomaco – Un altro giorno di morte in America (352 pp, add editore, trad. Silvia Manzio) – Gary Younge, giornalista e scrittore inglese a lungo corrispondente del “Guardian” dagli Stati Uniti, scava in quel silenzio per restituirci una manciata di volti e storie preziose.

Il suo racconto ruota a intorno a un giorno scelto a caso, il 23 novembre 2013. Dieci ragazzi perdono la vita per un colpo accidentale, un omicidio premeditato, una sparatoria: il più piccolo ha nove anni, il più vecchio quasi venti. Per un anno e mezzo Younge ricostruisce le loro vite spezzate, incontra i genitori, i parenti, gli amici, intervista esperti, esplora luoghi e scenari. 

 

In un reportage narrato nel suo faticoso farsi, l’obiettivo si allarga dalla dimensione privata a quella pubblica e dà corpo al ritratto di un Paese che non può o forse non vuole prendersi cura dei suoi figli. 

Gary Younge ha lo sguardo fresco di chi arriva da fuori e la rabbia di chi è toccato nel profondo. Se non ci si rinchiude in una bolla, il passaggio da spettatore a attore è inevitabile per chi vive in un altro paese. C’è un momento in cui i temi caldi smettono di essere astratti e li senti come tuoi.  

In questo caso, la spinta è ancora più immediata. Younge è inglese, originario delle Barbados. Finché l’inflessione britannica non lo tradisce, lo scambiano per afroamericano. Per i suoi figli bambini, nati e cresciuti in America, ciò apre una prospettiva drammatica. In una società profondamente razzista come quella statunitense, essere neri e giovani è una condizione che si rischia di pagare con la vita. 

“Gli adolescenti americani – scrive Younge – hanno diciassette più probabilità di essere uccisi da una pallottola rispetto ai loro omologhi degli altri Paesi ad alto rischio. Nel Regno Unito ci vogliono due mesi perché le armi da fuoco uccidano un numero di ragazzini equivalente a quello che negli Usa muore in un giorno”. E se i ragazzi sono afroamericani il pericolo si moltiplica e diventa quattro volte superiore alla media nazionale, dieci volte quello dei giovani bianchi. 

 

Il risultato è che “le armi da fuoco sono la principale causa di mortalità tra i neri sotto i 19 anni e la seconda per la stessa fascia d’età in generale preceduta solo dagli incidenti stradali”. È abbastanza perché Younge si metta al lavoro per rivestire di carne e sangue i numeri gelidi della statistica. 

L’esplorazione di quel 23 novembre prende il via da Grove City, una tranquilla cittadina dell’Ohio. Alle sette e mezza di mattina qualcuno suona alla porta dei Dixon. Jaiden, nove anni, corre ad aprire. L’ex di sua madre gli spara in faccia e il bambino muore sul colpo.

Dopo aver tentato di sparare a un’altra donna e ferito un agente, l’uomo è ucciso dalla polizia nel parcheggio di un Walmart. “Era un sociopatico”, dirà chi lo conosceva. In passato aveva già minacciato la famiglia. Tutti lo sapevano ma nessuno gli aveva impedito di avere un’arma a disposizione. 

L’ultima vittima di quel giorno ha 18 anni. Si chiama Gustin Hinnant, vive a Goldsboro, North Carolina. È un adolescente come tanti. Odia le regole, fuma marijuana, fa lo sbruffone sui social e sogna di sfondare nel mondo del rap. A stare in casa si annoia, preferisce passare le serate con i ragazzi all’angolo. Fanno parte di una gang ma per lui sono solo amici.

 

È questa frequentazione a condannarlo. Lo trovano riverso sui sedili anteriori della Cadillac appena ricevuta in regalo dal padre, freddato da un colpo di pistola. Il giorno dopo doveva trasferirsi dalla madre e cambiare vita. Si scoprirà che la pallottola non era destinata a lui ma al giovane sul sedile accanto. Uno della gang. Gustin invece non era affiliato e lo sapevano tutti.

Di qua un bambino, di là un giovane inquieto. A prima vista le due storie hanno in comune solo la tragedia finale. Eppure la guerra che in America miete vittime fra i ragazzini si snoda anche sul filo di quest’estraneità che a molti fa gioco accentuare. 

Mentre Younge scrive (il libro è uscito in inglese nel 2014) è fresco nella memoria il massacro dei bimbi dell’elementare Sandy Hook. Gli “angeli”, come li chiamano tutti: le vittime più pure e innocenti della follia. 

 

 

Eppure, ci ricorda Younge, quest’enfasi è un meccanismo retorico, una “scorciatoia empatica”. Può riuscire più facile identificarsi con un bambino che con un adolescente ribelle. Ma non esistono vittime migliori di altre: nessuno merita di morire, per quanto la sua vita sia caotica.

Non è ovvio come può sembrare, non in America. Lo stereotipo del giudizio morale colpisce infatti senza pietà la comunità afroamericana. È qui che si registra la  maggiore incidenza di crimini violenti e, come ci mostra Younge nei capitoli più appassionanti di questo libro, le spiegazioni sono sotto gli occhi di tutti. Guardarle però richiede coraggio

I ragazzi crescono in quartieri durissimi, dove le armi sono moneta corrente come le droghe e le gang. “La maggior parte dei negri ha una pistola e non ha paura di usarla”, twitta Kenneth Mills-Tucker, 19 anni, ucciso a Indianapolis da un proiettile vagante. È un dato di fatto più che uno scherzo, in una realtà dove veder morire un amico è la norma e non l’eccezione. 

Si resta uccisi per un diverbio, come succede a Stanley Tucker, 17 anni, in una stazione di servizio a Charlotte, North Carolina. Per il colore sbagliato, come Gary Anderson, 18 anni, freddato perché indossa una felpa rossa simbolo di una gang. O perché si passeggia con un’amica in una zona malfamata, come accade a Samuel Brighton a Dallas. Il suo assassino l’aveva scambiato per un altro.

Le famiglie fanno ciò che possono per tenere i ragazzi lontani dalla strada. Ma, scrive Younge, “essere poveri è un lavoro duro”. Quando per mettere il cibo in tavola si fanno le notti o i doppi turni, quando si è genitori single, quando la rete sociale è scarsa o nulla, tenere i figli sotto controllo diventa un lusso. In questa situazione è facile imboccare la via del sistema giudiziario, per gli afroamericani spesso senza ritorno.

 

Le alternative scarseggiano. In una società sempre più classista e plutocratica le opportunità non sono per tutti. E quel che si perdona a un adolescente bianco di buona famiglia, è inammissibile per un ragazzo nero o ispanico. E comunque “i neri poveri che fanno bene non se la passano meglio dei giovani ricchi che fanno tutto male”. Non si tratta di fare sconti. Non sono né il razzismo né la povertà a premere il grilletto, puntualizza Younge, ma fingere che non ci siano è ignorare la realtà.

La propensione alle armi da fuoco non è però un’esclusiva della comunità afroamericana. È una passione che percorre l’intero paese. Ovunque, nelle metropoli come nelle aree rurali, le armi sono accessibili e accettate. Sono parte dell’identità, tradizione, svago e necessità. È il mito della frontiera, il Vangelo del secondo emendamento nutrito dalla paranoia della paura che l’Nra-National Rifle Association rilancia alla minima occasione.

 

Il risultato è che gli incidenti sono all’ordine del giorno. Fra le cause di morte infantile le armi da fuoco sono al quinto posto, dopo gli incidenti stradali, l’annegamento e gli incendi e la cifra è probabilmente per difetto. “Stavamo solo giocando”, dirà il bambino che il 23 novembre ha sparato Tyler Dunn, 11 anni, a Marlette, Michigan. Suo padre aveva in casa decine di armi, lui le ha mostrate all’amico. Peccato ci fosse un colpo in canna. 

Un altro giorno di morte in America non è un libro sul controllo delle armi da fuoco o sulla questione razziale, né offre facili soluzioni. È una lettura densa di dati e spunti, ricca di indicazioni bibliografiche, da cui si esce con un senso di rabbia e impotenza. È la cronaca di una guerra che si combatte fra disperazione, rassegnazione e un mare d’indifferenza. Dove le armi da fuoco sono la norma, un altro mondo sembra impossibile. 

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