La deep ecology di Arne Næss

12 Settembre 2023

Nel 1973, il filosofo norvegese Arne Næss (1912-2009) pubblicò sulla rivista che aveva fondato, Inquiry, il saggio The Shallow and the Deep, sintesi della relazione tenuta mesi prima a Bucarest, in occasione della terza Conferenza del World Future Research. Il testo, già apparso in traduzione italiana in Etiche della Terra. Antologia di filosofia ambientale (Vita e pensiero, 1998), si può leggere nel numero 46 che la rivista “Riga” (a cura di Franco Nasi e Luca Valera, edizioni Quodlibet), ha dedicato al promotore dell’ecologia profonda. Volendo prendere distanza dall’ecologia superficiale che si limiterebbe a lottare contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse, con l’obiettivo di conservare la salute e la ricchezza dei paesi sviluppati, Næss sviluppa un’ontologia modellata sulla lezione della psicologia della Gestalt. La realtà non è un comporsi di entità distinte e isolabili, ma è un “campo totale” in cui tutto ciò che esiste mantiene relazioni intrinseche con altri enti che contribuiscono a costituirlo. All’immagine canonica dell’uomo nell’ambiente, Næss sostituisce una visione complessa della realtà, in cui gli organismi sono nodi della rete biosferica e formano una costellazione intrecciata d’interazioni multiple. 

Dalla non separazione fra uomo e ambiente, partecipi di una comune gestalt, Næss trae il criterio di “egualitarismo biosferico, in linea di principio”, cioè dell’eguale diritto a realizzare le potenzialità da parte di ogni forma di vita, non solo individui, ma anche fiumi, montagne, ecc. Ne derivano l’esigenza di valorizzare la produzione primaria (agricoltura su piccola scala), il vegetarianismo, in base allo slogan “vivere leggeri e senza lasciare traccia”, di promuovere tecnologie dolci, di proteggere gli ecosistemi più che le singole forme di vita che non sono comunque, in linea di principio, mai da usare come mezzi. Næss non rientra fra i cosiddetti “profeti dell’apocalisse”, ma il suo ottimismo riguarda il XXII secolo; forse dovremo sprofondare ancora più in basso per poter cominciare, costretti dall’esigenza di sopravvivere, a risalire dal 2101, non solo in termini di sostenibilità ecologica ma anche di rapporti pacifici fra gli umani e di giustizia sociale. Quando si smarrisce il senso d’intima partecipazione con l’intera natura, a pagarne il prezzo è la qualità di vita dell’uomo stesso, a cui è negata la soddisfazione profonda che si può trarre dalla simbiosi con altre specie. Quest’idea unitaria della Natura Næss la sviluppò a 17 anni quando lesse in latino l’Ethica, ordine geometrico demonstrata di Spinoza; il Deus sive Natura del panteismo spinoziano evita il dualismo cartesiano fra materia e spirito, come spiegano i saggi raccolti in Introduzione all’ecologia (a cura di L. Valera, ETS, 2015). Il filosofo olandese del Seicento ispira anche l’approccio assiomatico su cui si è innestata la lezione che Næss ha appreso dalla frequentazione, fra il ’34 e il ’36, del Circolo di Vienna, dove ha sperimentato la tensione verso la chiarezza nella cooperazione sincera della ricerca. Ma, consapevole come Wittgenstein dei limiti del linguaggio, Næss riconosce l’impossibilità di dare un’unica definizione corretta di un concetto, in quanto nessuna parola esiste isolatamente, prende vita nel gioco complesso d’interpretazioni incrociate con cui gli interlocutori cercano d’intendersi. La comunicazione – spiegava nei corsi degli anni Cinquanta di semantica empirica negli Stati Uniti – non richiede una lingua condivisa; il che spiega perché Næss utilizzi spesso termini vaghi e generici, si serva del linguaggio quotidiano, contro le astrazioni dei “filosofi di professione”. Come sapeva il Gregory Bateson di Verso un’ecologia della mente (1972), la dote umana di distinguere enti garantita dal logos, cioè la facoltà di essere precisi su qualcosa che non sia relazione, ci ha allontanati dalla consapevolezza che tutta la realtà è essere-in-relazione. 

Pur avendo insegnato Filosofia a Oslo dal ’39 al ’54, e poi negli Stati Uniti, pur avendo dedicato molti scritti ai maggiori filosofi del Novecento, Næss non ha formulato un sistema; il suo obiettivo è stato la promozione di una coscienza ecologica, una “ecosofia” che sviluppi una percezione profonda del legame che ci connette al tutto. Nell’intervista concessa a Christian Diehm nel 2001 (raccolta in “Riga” con il titolo “Qui sto”, la formula con cui Lutero rifiutò di sottostare alle richieste papali), Næss dice di aver appreso da Kierkegaard a diffidare dei sistemi filosofici che vorrebbero imporsi come universali: ogni pensare sincero è espressione di un singolo che può cercarsi le premesse della sua sofia nei pensatori o nelle religioni con cui avverte maggiore sintonia. “Ho imparato a trascurare la necessità di visitare i grandi centri di filosofia, perché preferivo stare vicino alle montagne o sulle montagne”, scrive Næss, che è stato anche un alpinista di buon livello. Nel ’95 ha dedicato un libro – Hallingskarvet: How to Have a Long Life with an Old Father – alla sua relazione privilegiata con la grande montagna norvegese, fin dall’infanzia considerata un padre saggio e generoso (quasi un sostituto del padre biologico, morto quando lui aveva un anno). Nei pressi di Hallingskarvet, Næss costruì nel 1937 una baita nella località Tvergastein (dall’iniziale del luogo è derivato il nome di Ecosofia T attribuito al suo approccio), non lontano dalla baita in cui Ludwig Wittgenstein si rifugiò nel 1913. In quella casa, a millecinquecento metri di altezza, dove si giunge dopo tre ore di salita a piedi, Næss ha vissuto per lunghi mesi anche con la prima moglie e i figli piccoli. Vivere in un luogo estremo impone semplicità volontaria, concentrazione sull’essenziale, un’esistenza frugale che apre alla ricchezza e profondità dell’esperienza. Gianfranco Marrone propone una lettura sottotraccia del primo capitolo di Siamo l’aria che respiriamo (Piano B edizioni, 2021), dove il senso di appartenenza alla Persona-Luogo – quella topophilia con cui Yi Fu Tuan indicava la dimensione affettiva del rapportarsi all’ambiente – non si traduce in una mistica immersione nella natura, ma promuove un senso di partecipazione dove si smarriscono i tradizionali confini fra uomo e ambiente. 

In uno dei saggi raccolti in “Riga”, Peder Anker accomuna l’esperienza di Næss a quella di Aldo Leopold, che negli anni Trenta del Novecento sistemò una vecchia fattoria nel Wisconsin. Il fondatore dell’Etica della Terra invitava a “pensare come una montagna”, anticipando il “pensare come pensa la natura” che sarà di Gregory Bateson. La montagna non teme i lupi ma i cervi, che possono distruggere i germogli delle piante e rendere cedevole il terreno; occorre considerare la complessa rete di relazioni che s’intreccia in un ecosistema, senza privilegiare una specie, per poterlo salvaguardare. Anche Henry D. Thoreau (1817-1862) si era costruito una capanna sulle rive del lago Walden a Concord, in Massachusetts. “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto” (Walden, la vita nei boschi, 1854, Rizzoli). La lezione di “disobbedienza civile” di Thoreau sarà fatta propria da Gandhi, a cui Næss si richiama di continuo: l’aspirazione a un’esistenza autentica, la radicalità delle scelte umane e politiche, in nome di un attivismo militante e non violento, accomuna tre figure che hanno conosciuto l’esperienza del carcere. Næss è stato più volte arrestato dalla polizia nel corso di manifestazioni per la pace, contro il rischio nucleare, per la giustizia sociale e la responsabilità ecologica.  

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Più che una visione globale, il filosofo norvegese ha cercato di testimoniare un modo di “essere al mondo”, uno stile di vita ispirato, ma non dedotto, dalla conoscenza ecologica. Pur essendo una “scienza sovversiva”, anche l’ecologia incorre nei limiti che sono propri, a suo parere, di ogni metodologia scientifica; implica separazione fra soggetto e oggetto, concentrazione su schemi astratti che frantumano le gestalt complesse, opera tagli della realtà, diceva Bergson, e questo si è tradotto nella “freddezza”, se non nella barbarie, dei comportamenti umani nei confronti della natura. C’è chi come Michel Serres ha tratto ispirazione dall’ecologia, scienza dei flussi e delle comunicazioni, per auspicare lo sviluppo di un’etica che valorizzi virtù come l’umiltà – il cui etimo rimanda all’humus –, la mitezza e la temperanza, principi in cui la lingua ripete saggiamente le componenti del clima che accentuano la biodiversità. L’approccio di Næss ha sullo sfondo l’esigenza di recuperare il “mondo della vita” quale dimenticato fondamento di senso delle scienze naturali, come proponeva l’Husserl della Crisi delle scienze europee. L’analisi che frammenta il reale non è ovviamente sterile sul piano cognitivo, ma la fonte originaria del nostro rapportarsi al mondo va cercata nei “processi spontanei”, nell’esperienza immediata di fronte alla natura. Come rileva il saggio di David Rothenberg, l’ecosofia T ha origine da “intuizioni” in cui gli aspetti emotivi, etici ed esistenziali restano originariamente indivisi. “Forse che il regno dell’esperienza, carico di valori, spontaneo ed emozionale, non è una fonte di conoscenza della realtà altrettanto autentica quanto la fisica matematica?”, scrive Næss in Ecosofia (RED, 1994). La tradizione fenomenologica, in particolare Merleau Ponty, ha insistito sul ruolo che il corpo, connesso all’ambiente, svolge in ogni forma di esperienza. Dolores LaChapelle, che ha promosso un approccio pedagogico sperimentale sulla base dell’ecologia profonda, richiama le indicazioni di James Gibson in The ecological approach to visual perception del 1979. La percezione non è riducibile al confronto fra organi di senso e oggetti, ma è una relazione fra l’organismo e un ambiente, che compongono un’unica gestalt. I nostri sensi sono sistemi esplorativi che si rapportano a significati dinamici presenti nell’ambiente, alle affordance, cioè agli inviti all’uso che emergono dal luogo e dall’atmosfera. È su queste basi che Andy Clark e David Chalmers, in un articolo comparso sulle pagine della rivista “Analysis” nel gennaio del 1998, hanno formulato la teoria della ‘mente estesa’. “La mente si estende al mondo”, la cognizione è incarnata e l’ambiente svolge un ruolo attivo nel guidare i processi cognitivi.

Uscire al tramonto per ascoltare gli alberi, sentire che anche le rocce sono dotate di vita, non significa proiettare sui fenomeni naturali le proprie emozioni, perché la realtà di un ente consiste negli infiniti modi di relazionarsi in cui sono incluse anche le prospettive del soggetto. La scienza classica distingueva fra qualità primarie e oggettive (riducibili a ordine e misura) e secondarie, come colori e odori, che implicano la percezione di un soggetto. Come suggeriscono i saggi di Giacomo Scarpelli e Gabrel Vidal Quiñones, quelle a cui Næss si rivolge non sono le prime, entia rationis, strutture astratte e scarnificate, ma quelle “terziarie”, come la tranquillità di un lago, dove l’esperire è carico di componenti emotive. È su queste basi che Næss si oppone alla separazione tra fatti e valori, all’argomentazione di matrice humiana, cara alla tradizione analitica, secondo cui non si possono trarre dalle leggi descrittive della scienza le prescrizioni dell’etica, pena la caduta nella fallacia naturalistica. Per Næss, restituire valore intrinseco agli ecosistemi è un corollario della prospettiva gestaltica dell’ecosofia, cioè di una visione globale e di per sé normativa. Quando si è operato il riorientamento gestaltico e si è modificato il nostro sguardo sul mondo fino a comprendere che “siamo gocce nel ruscello della vita”, possiamo evitare le basi atomistiche dell’etica e la difficoltà di compiere il salto dall’egoismo all’altruismo, e oggi all’ambientalismo. Roberto Bondì ricorda che, a differenza dell’anti-umanesimo di James Lovelock per il quale l’esigenza più impellente è “mantenere la Terra quale luogo adatto e confortevole per la vita”, anche a detrimento di quella “calamità” che sarebbe la nostra specie, Næss difende il valore dell’individualità, chiamata alla realizzazione del “Sé ecologico”. La norma fondamentale dell’ecosofia T mira all’espansione di sé: avendo interiorizzato le relazioni con il mondo, si giunge a promuovere un essere-insieme, un’identificazione con la natura che porta a massimizzare la varietà della vita. George Session (autore con Bill Devall di Ecologia profonda, Gruppo Abele, 1989) connette l’approccio di Næss all’ecologia trans-personale promossa da Warwick Fox, di cui il numero di “Riga” riporta un ampio saggio di rilettura in chiave psicologica dell’ecologia profonda. Il sé che si espande avverte come primari gli interessi delle altre specie, lascia che gli altri realizzino le loro potenzialità: la protezione della Natura diventa un gesto spontaneo, come la cura di sé. Per sfuggire alle pieghe e ai dualismi del pensiero dell’Occidente, a partire dalla distinzione fra l’uomo e la natura, Næss si richiama alle tradizioni dell’Oriente, al taoismo e al buddismo (su cui si sofferma il saggio di Elisa Cavazza). Ma essenziale per lui è stato l’incontro con la lezione di Gandhi già a partire dal 1931, un’influenza che si accentua nel dopoguerra quando – ricorda Giuseppe Ferrari – promuove forme di “giustizia riparativa” per tentare di sconfiggere l’odio fra collaborazionisti detenuti e parenti delle loro vittime. Il principio gandhiano dell’Ahimsa chiede di evitare di ferire i sentimenti o la dignità di qualunque essere, in nome di un senso di riverenza per la vita, di compassione (karuna), che sorge dal vedere se stessi negli altri viventi (advaita), dal realizzare sé come parte del Sé universale (Atman). 

Næss richiama la distinzione kantiana fra le azioni compiute in obbedienza all’imperativo categorico, e le belle azioni, compiute non per dovere, ma per inclinazione. Non dobbiamo ricorrere a ingiunzioni morali, ma ad inviti esperienziali, ricorda Næss con un esempio significativo: “Se sei seduto vicino a un ruscello e vedi un piccolo animale che sta per caderci dentro e fai un piccolo movimento con il dito per aiutarlo, in maniera completamente spontanea, senza pensarci affatto, direi che per un momento ti sei identificato con lui”. Forse Næss aveva presente quanto scriveva Mencio, il saggio confuciano, nel IV secolo a. C.: chiunque veda un bambino sul punto di cadere in un pozzo è colto da un violento sgomento e si precipita per salvarlo. Il sentimento d’insopportabilità di fronte al dolore dell’altro non deriva da calcolo o riflessione, la reazione è spontanea come se non fossi io il padrone della mia iniziativa; è l’esistenza stessa, attraverso di me, che insorge in favore dell’altro, il che testimonia che l’uomo inclina al bene come l’acqua tende sponte sua verso il basso. Non c’è bisogno di comandamenti o di precetti in campo morale, basta estendere la reazione d’intollerabilità al di là noi stessi, lasciare che si propaghi in cerchi sempre più larghi, fino a includervi i viventi non umani. Si tratta, in altri termini, di sviluppare le inclinazioni già implicite nella nostra natura, fino a farne un habitus, un ethos, una disposizione interiore nel senso di Aristotele.  

Il nucleo saliente del pensiero attivo di Næss è la convinzione che una compiuta maturità umana conduca inevitabilmente a un livello elevato d’identificazione positiva con tutte le forme viventi. Si tratta di consentire al nostro ‘io ecologico’ di uscire dai confini della pelle per sperimentare emozioni forti che aumentino la libertà e la potenza (conatus) con cui tutti gli esseri dispiegano la propria natura. Anche qui gioca la lezione di Spinoza, il quale concepisce la conoscenza come un insieme di atti cognitivi di comprensione e amor intellectualis: siamo grandi quanto lo sono i nostri amori, diceva Spinoza. Nell’introduzione riportata in “Riga” alle sue Selected Works (Springer, 2005), il novantaduenne Næss scriveva: “possiamo aumentare la nostra libertà e il nostro senso di connessione con il mondo attraverso il rafforzamento e l’intensificazione delle nostre emozioni positive”. Il rapporto primario con il mondo non è di conoscenza, ma di connivenza (l’etimo latino indica l’intendersi “con un cenno degli occhi”), direbbe il sinologo François Jullien: quel rapporto “infantile” che ci mantiene in tacita intesa con le cose, quando i sensi e l’intelligenza non sono dissociati, quando ovunque intorno a sé ci sono “compagni” con cui intrattenersi. 

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