Il podalirio e il nano Morgante

4 Aprile 2015

Quando intorno alla metà del 1500 Cosimo I commissionò un ritratto del nano Morgante a Agnolo di Cosimo detto il « Bronzino » nessuno poteva immaginare la bizzarria che il Bronzino stesso avrebbe partorito dalla sua fervida creatività e dal pennello coltivato nella bottega fiorentina del Pontormo. Per intenderci, il nano Morgante non era che il più popolare dei buffoni della corte pittiana di Cosimo e quello quindi che passò alla storia. Altri si erano cimentati nel ritrarre questo buffone di corte amato dal Signore mediceo; tra questi, lo scultore Valerio Cioli che lo scolpì grasso e con addome batraciano seduto come un Bacco su di una testuggine nella fontana del Giardino di Boboli detta appunto “del Bacchino”. Il Vasari stesso, lodando l’arte del Cioli, parla di un’opera invero realistica e ci narra che “mai è stato veduto un altro mostro così ben fatto”. Naturalmente, il Vasari usa un linguaggio oggi inaccettabile, ma mi pare doveroso citarlo proprio per sottolineare come il nano Morgante sia stato un personaggio invero originale in quella corte fiorentina manierista.

 

Ma torniamo al Bronzino e al curioso ed originale ritratto del nano Morgante che oggi si ammira in una saletta della Galleria degli Uffizi a Firenze. La peculiarità di questo ritratto sta nel suo doppio, cioè dipinto sia sul recto che sul verso, per cui occorre girare intorno al dipinto per vederlo nella sua completezza. Il ritratto di fronte rappresenta il nudo nano intento a sorreggere un gufo con la mano destra, a mo’ di uccellatore, con una ghiandaia in volo alla sua sinistra; l'altro mostra il nano nudo dal di dietro, ora con la civetta sulla spalla sinistra e la ghiandaia catturata e a testa in giù nella mano destra.

 

Agnolo Bronzino, Nano Morgante, 1552, Uffizi, Firenze

 

Trovandomi dunque in una fredda domenica d’inverno agli Uffizi e ammirando questa opera d’arte del tutto originale, non potei evitare di ascoltare la spiegazione che la guida recitava a memoria e senza sentimento particolare, come si usa oggi, per un gruppo di turisti. Appresi così che, in sostanza, nell’ambito della discussione di quei tempi sul “paragone delle arti”, qui il Bronzino voleva mostrare il primato della pittura sulla scultura potendo egli dipingere un ritratto osservabile da più prospettive e addirittura con la possibilità di bloccare in due immagini distinte due istanti successivi della vita del nano Morgante come rivelato dai due tempi successivi della caccia alla ghiandaia. Mi avvicinai. Guardando attentamente il dipinto sulla faccia anteriore, notai qualcosa di inatteso: per coprire i genitali del nano nudo il Bronzino ebbe l’idea di sostituire con una farfalla la tradizionale foglia di fico. La cosa mi fece sobbalzare: mi avvicinai per vedere di che si trattava e immediatamente mi resi conto che il nostro manierista aveva ritratto con ottimi risultati un podalirio, ed un secondo era stato dipinto a fianco della gamba destra del nano. Guardai a lungo la tela per accertarmi che si trattasse davvero di due podalirio, e così era. Appresi solo più tardi, cercando lumi sulla ragione delle due farfalle proposte dal Bronzino nel ritrarre il nano Morgante, che era stato solo un restauro recente ad averle riscoperte, dopo che per due secoli erano state nascoste da una copertura in foglie di vite che aveva trasformato il nano originale in un Bacco intento a mescere vino. Stranezze legate alle censure ipocrite dei secoli passati, pensai con un certo disgusto.

 

Agnolo Bronzino, Nano Morgante, 1552, particolare

 

Per quale motivo Agnolo Bronzino scelse il podalirio tra le centinaia di specie di farfalle che volano in Italia centrale non lo sa nessuno né lo so dire io che di farfalle m’intendo. Questa specie, tuttavia, è sicuramente tra le più attraenti e visibili, grazie alle grandi dimensioni, alle sue ali eleganti e allungate bianco-giallastre a strie nere e festonate di blu al bordo inferiore dell’ala posteriore dalle quali si dipartono due codine lunghissime precedute da un piccolo ocello giallo e blu nel punto in cui le code emergono dall’ala per prolungarla in quel sottile filamento. Mi ricordo quando la vidi per la prima volta nel giardino degli zii e dei miei nonni. Avrò avuto nove o dieci anni e mi trovavo in vacanza estiva in quel paese che sta a metà della valle del torrente Cervo e che anticamente era chiamato Cacciorna. In mattinata ero solito alzarmi, starnutire per una buona mezz’ora per via dell’allergia ai pollini che a quei tempi non mi era ancora stata diagnosticata, e poi scendere a fare colazione in giardino, seduto su una vecchia panchina nel mezzo delle verdure che mio nonno coltivava e delle piante da frutto. Mangiavo la mia brioche intingendola nel caffelatte in silenzio e di buona lena, ma tenevo d’occhio attentamente l’aiuola fiorita di elicrisi e margherite multicolori poiché vi erano molte visitatrici già di primo mattino. Si trattava, per lo più, di candide cavolaie e di qualche maniola bruna, roba comunissima e di nessun valore, pensavo, che consideravo una malvagia distrazione poiché non è infrequente per l’occhio anche addestrato confondersi a prima vista e poi irritarsi per il riconoscimento di quello che non si voleva davvero vedere.

 

 

Ma un mattino di una giornata di giugno, serena e tiepida come se ne vedono poche nel Biellese altrimenti piovoso e umido, vidi qualcosa che davvero volevo vedere. Era una maestosa creatura bianco-giallastra grande come una mano che veleggiava pacificamente intorno agli elicrisi, un po’ come un aliante, e a cui bastava un veloce battito d’ali ogni secondo e mezzo per compiere giravolte e acrobazie che non avevo mai visto in vita mia. Era un volo nobilissimo, pensai, non come quello delle banali cavolaie che si muovono irregolarmente zoppicando un po’ e in tutte le direzioni, sfiorando il suolo e poi alzandosi in modo caotico. Questa enorme farfalla invece se ne stava in alto, a due metri da terra, per poi circuire prudente i fiori da cui era stata attratta con traiettorie precise e rotonde sino a posarvisi sollevandosi sulle lunghe zampine e suggendo avidamente il nettare per qualche secondo. Poi riprendeva il suo veleggiare e di nuovo si posava e suggeva. Lo spettacolo durò parecchi minuti.

 

 

Io ero immobile di fronte alla bellezza inconsueta della specie che mi stava di fronte, sileziosa e regale. Ne scorsi le lunghe codine che partivano dall’ala posteriore e non ebbi alcun dubbio: era il podalirio che il mio Martello edizione 1960, la inseparabile guida tascabile di quell’età giovanile, presentava a pagina 39 insieme a un’altra stupenda e rara farfalla che doveva rimanere un mito per molti decenni, in quanto la trovammo solo nelle valli del Cuneese molti anni dopo. Di questa specie parlerò un giorno. Ma torniamo al podalirio di Andorno Cacciorna. Mi avvicinai prudente come un felino tenendomi basso per non attirarne l’attenzione e farla fuggire: la vidi così nella sua bellezza incomparabile e che rivaleggiava solo con quella del macaone, suo parente stretto appartenente anch’esso alla famiglia dei papilionidi, da sempre considerate le più prestigiose farfalle esistenti per i loro colori e bellezza inarrivabili. Come il macaone, anche il podalirio faceva parte del gruppo di specie che Linneo inserì nella sua prima lista in nomenclatura binomia del 1758 – duecento anni dopo che il Bronzino la dipinse nel suo ritratto bizzarro del nano Morgante – utilizzando nomi provenienti dalla mitologia greca. Stando a ciò che ci tramanda Omero, infatti, i due figli di Asclepio, Podalirio e Macaone, entrambi divenuti medici, furono preziosi alleati degli Achei nella guerra di Troia. Come gli Achei ritornarono in Grecia sui loro velieri che sfruttavano le brezze egee dopo la vittoriosa campagna di Troia, così il mio primo podalirio, forse disturbato dalla mia presenza, a un certo punto si involò rapido sfruttando un venticello leggero, e presto superò il muro di cinta del giardino scomparendo alla mia vista in direzione, pensai a quei tempi, del mare e di terre lontane, forse tropicali.

 

 

Pochi anni dopo, ne vedetti molti di podalirio nelle radure xeriche e fiorite che attorniavano la vecchia ferrovia del paese in cui ero andato a vivere con la mia famiglia. Lì, in quelle radure che mi ricordavano la savana, trovai anche la sua pianta nutrice, il prugnolo, e cercai i bruchi del podalirio sulle sue foglie. Ne trovai: erano verdi e con il capo massiccio, con alcune sbiadite strie longitudinali chiare; li allevai per la prima volta riuscendo a seguirne la metamorfosi a crisalide brunastra e poi a splendida imago che mi nacque in tarda estate con grandissima soddisfazione giovanile. Il podalirio è in realtà una farfalla diffusa che si osserva un po’ ovunque e si riconosce facilmente grazie all’aspetto unico tra le specie europee. Negli ultimi anni, quella che si pensava ne fosse una sottospecie tipica della penisola iberica, Iphiclides feishtamelii, è stata riclassificata dagli esperti come bona specie, ovvero come specie a se stante. Vidi anche questa anni dopo, intento a rubacchiare mandorle mature nelle campagne del Penedes in Catalogna, mentre stava delicatamente veleggiando sotto ai mandorli carichi di frutti. Più bianca del podalirio e con le strie nere forse più contrastate, le assomiglia da vicino e può confondere chiunque, se non fosse che, dove c’è il podalirio, il feishtameli non c’è e dove c’è il feishtameli il podalirio non vive. La cosa è strana: infatti che si tratti di due specie distinte non è poi così sicuro e non mi stupirei se, un giorno, studi genetici approfonditi ci diranno che le due farfalle sono più imparentate di quel che paiono ora.

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