Moratoria per il Tiramisù
Il ristorante Le Beccherie di Treviso in cui è stato inventato il tiramisù, vero e proprio vanto della pasticceria italiana, ha chiuso i battenti. Il fatto era stato annunciato da tempo, con parole di cordoglio commoventi e sentite. Quelle del proprietario innanzitutto, il signor Campeol, che spiega come fare ristorazione guidati dalla passione anziché dalla ragione oggi equivalga a condannarsi: comanda il marketing e il cibo spazzatura.
Gli fa eco il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, che ribadisce come la perdita di un luogo come quello significhi parecchio: “scompaiono gusti e sapori che esprimono la qualità del territorio”. Ma la notizia non è questa. Sta poche righe più sotto, negli infiniti post che ormai seguono ogni articolo. Ovviamente spietati e ovviamente non sempre a tema. Anche perché lo sventurato patron, parlando del crollo della clientela, ha osato menzionare per primi politici e aziende, lasciando per ultima la “gente comune”. Chiaro che il web non poteva perdonargliela. Come è altrettanto chiaro che qualcuno avrebbe guardato Tripadvisor, comunicando a tutti posizioni in classifica, pro, contro e recensioni varie. E insomma, ce n’è per tutti i gusti.
La prima cosa che si mette in discussione è l’origine del tiramisù. C’era da aspettarselo, soprattutto parlando di questo dolce i cui problemi di attribuzione sono noti agli esperti. Non viene fuori solo l’altra grande favorita, Venezia, ma anche Siena e un certo numero di cuochi, situazioni e ristoranti nonché date e link a fonti assortite che neanche gli esegeti biblici. La caccia alle origini è un passatempo entusiasmante, soprattutto quando si ha a che fare con la cucina. In particolare quella italiana, in cui non soltanto ci sono pochissime certezze, ma l’assimilazione di pseudo verità è talmente profonda da diventare in un attimo Vangelo. Che sia perché il cibo si ingerisce e digerisce? Fatto sta che il pomodoro è italiano, non c’è verso. La pizza anche. Gli spaghetti pure. I tortellini? Ma non scherziamo!
Non è solo cosa nostra. Se volete fare davvero arrabbiare un belga, ditegli che le patatine fritte sono di origine francese. Per non dire delle ricette che, con la loro complessità, portano tutto ciò al parossismo. Un avvitamento che da sempre ha una sola, possibile via d’uscita: la nonna. Mi meraviglio come tra i post di cui sopra non abbia mai fatto la sua comparsa il nume tutelare della ragion gastronomica. Fateci caso, quando la diatriba impazza viene fuori qualche vecchina a sistemare tutto. I più arguti lo sanno e lavorano di prevenzione, sparandosi subito una nonna a inizio discussione. Davanti a lei tutto si ferma. E poi, se c’è un ambito in cui la carta nonna va giocata quello è proprio il tiramisù.
Già, il tiramisù. Bisogna entrare nel merito, perché la morte annunciata non è quella di un capostipite qualunque. In quanto dolce il tiramisù ha una sociologia alquanto singolare. Intanto si tratta appunto di pasticceria, che non può essere assimilata alla cucina in generale. Cuochi si diventa, pasticceri si nasce, potremmo dire parafrasando Brillat-Savarin.
Sono due mestieri diversi, tanto che nei più importanti ristoranti del mondo, da El Bulli a El celler de can Roca, guarda un po’, in cucina c’è sempre una coppia creativa (in entrambi i casi fratelli). Non è un problema di difficoltà di un’arte rispetto all’altra, non sempre almeno, ma di impostazione: nella pasticceria tutto è più scientifico, preciso.
Il dolce non perdona, e la gente lo sa. Per questo si va a comprarlo fuori. È un rito, spesso maschile, quello della gita in pasticceria. Se capita che un brasato fatto in casa sia valido quanto uno mangiato al ristorante, lo stesso non succede con un babà o con un bignè. Eccetto, per la verità, in un caso: proprio il tiramisù. Già, il dolce di cui parliamo è uno dei pochi che si possa ragionevolmente fare in casa, con risultati variabili è chiaro, ma che non troppo di rado arrivano a un buon livello. Il mondo è pieno di cinture nere di tiramisù.
Quelli che “come lo faccio io…” ma che poi, in un modo o nell’altro, lo fanno davvero. È anche uno dei primi dolci che si impara a fare, uno di quelli più veloci e, in fondo, dei più sicuri. Diciamocelo, anche se la crema al mascarpone non è vaporosa come dovrebbe, l’insieme è ancora mangiabile. Se una torta margherita non è vaporosa diventa un mattone, non ci sono mezze misure. Il tiramisù è un dolce flessibile, che regge bene alle varianti. Se al posto del mascarpone metto lo zabaione va ancora bene; se nella crema metto dentro delle fragole anche; se inzuppo i savoiardi più o meno non fa troppa differenza, se uso il decaffeinato non è un dramma e via così.
Non sto insinuando che tutti i tiramisù sono uguali, per carità, voglio solo dire che è difficile che non siano mangiabili. La fortuna del tiramisù consiste nell’essere un dolce componibile, modulare come una cucina di Ikea. È l’unione di tanti semilavorati, alcuni dei quali, come è noto, posso anche scegliere di comprare già pronti. Ed ecco il punto: se acquisto savoiardi già fatti posso ancora dire che il prodotto finale è il “mio” tiramisù. Sta qui la vera flessibilità di questo dolce, nel modo in cui si determina chi ne è l’autore. Non è un caso che nei ristoranti, indipendentemente dal loro livello, quando arriva la carta dei dolci il tiramisù risulta sempre essere “di nostra produzione”, magari accanto a surgelati e preconfezionati vari che la dicono lunga sul talento dello chef. La questione è puramente culturale, come è ovvio.
Tiramisu à la Ducasse
Basta andare nella vicina Francia per scoprire che il tiramisù è cosa serissima, da preparare con moltissima attenzione e soltanto al ristorante. Insomma, dal nostro punto di vista, il problema non sono i politici, la crisi, il territorio, Tripadvisor o che. Con buona pace del povero signor Campeol, il problema è proprio il tiramisù. È da lui che bisogna ripartire, forse, per tenere in piedi il ristorante.