Mise en scène / Bertolt Brecht. Chausseestraße 125, Berlino
Dunque sarà stato qui, dietro questo portone, dietro questa facciata a due piani. Qui Bertolt Brecht avrà preso dimora nell’ottobre del 1953, dopo gli anni dell’esilio in Scandinavia e a Santa Monica, vicino a Hollywood, e dopo una serie di abitazioni a Berlino Est e dintorni. Paesaggio metropolitano asciutto, senza fronzoli. Accanto un cimitero storico che i turisti vengono ancora oggi a visitare. La strada che passa qui davanti prosegue fuori città. Porta un nome che è una tautologia, la parola francese per indicare una via selciata. Poco distante da qui restano alcuni solitari relitti del Muro. Naturalmente quello che i documenti ufficiali dell’epoca chiameranno “baluardo di protezione antifascista” era allora di là da venire.
Per il dopoguerra la casa è un vero lusso in una Germania, non solo orientale, che convivrà con le rovine dei bombardamenti ancora a lungo dopo l’anno zero. Apparentemente invisibile, la guerra s’insinua tra gli oggetti esposti in queste stanze. Ha il suo segno più vistoso nella magra biblioteca, fatta tutta di libri e di riviste dell’epoca tra il ritorno in patria e l’anno della morte. Si è preso anche i libri, l’esilio. Quelli rimasti, l’esposizione li ha sistemati in una sequenza per nulla casuale, a suggerire associazioni tra un campo del sapere e un altro. Volumi d’arte, filosofia classica tedesca, ma soprattutto i classici del marxismo in bella vista: le opere di Lenin e i volumi blu delle MEW (Marx-Engels-Werke) di cui le stamperie della DDR non sono mai state avare. Tutto è posizionato per essere riconosciuto dal visitatore sin dal suo ingresso al primo piano. La posizione decide qui del significato, niente è lasciato al caso. Così, dalle tre maschere giapponesi al ritratto di Lenin alla maschera funebre di BB, l’occhio è condotto a passare come in un crescendo dall’uno all’altro, guidato da una mano invisibile, in un movimento che evoca insieme oriente e occidente, storia e rivoluzione.
A questa messa in scena non sono certo estranee le condizioni del mondo nel 1956, l’anno in cui Brecht muore, né di quelli seguenti in cui Helene Weigel sarà l’amministratrice di ferro della memoria del marito, divenuta nel frattempo un bene d’inestimabile valore per la DDR. A questa messa in scena non ha esitato a metter mano Brecht stesso, e con passione, ben prima che arrivasse quella che si chiama la sua ora. La posizione della sedia di lavoro – la guida non manca di farlo notare – guarda il giardino del cimitero. Brecht amava dire che scriveva guardando la tomba di Hegel. L’aneddotica provvede alla costruzione di un’opera fatta solo delle tracce memorabili di una vita.
Qui sono già le avvisaglie di una memoria che si installa prima del tempo. Non aspetta il futuro perché il presente si congiunga a quella sua verità che si narra esclusivamente al passato. La letteratura accorcia i tempi. E una casa così trasuda letteratura. È una creazione, non meno di quanto lo siano i personaggi che calcano il palcoscenico del Berliner Ensemble poco distante da qui. Non meno di loro ha una sua verità. Del resto certe cose si dicono solo con il teatro. È, in un certo senso, una memoria ante festum. C’è già un’immagine di sé che nella asciuttezza della casa rispecchia l’etica della mise en scène brechtiana.
La casa diventa teatro, prima e dopo la morte. La casa è allora teatro per sempre. E anzi un teatro più vero: la morte dell’autore gli attribuisce un insuperabile sigillo di autenticità. È un teatro che si evoca per l’eternità, proprio a partire da ciò che gli manca e che è, al tempo stesso, onnipresente attraverso il nome del suo autore, evocato a ogni passo. Questa casa non per caso si chiama oggi Brecht-Haus: è un nome divenuto dimora, ma è anche una dimora nella quale non vive più nessuno. Solo i ricordi vi trovano alloggio, solo loro ne hanno il diritto. La casa non esiste per essere abitata, ma per assumere la funzione di rappresentare l’uomo la cui memoria pubblica s’incarna nelle stanze aperte al visitatore. Se una dimora mantiene suo malgrado l’impronta di chi ci ha vissuto, qui ci aggiriamo tra librerie intoccabili e poltrone su cui non ci si può sedere. È solo in forza dell’inabitabilità che può contenere ora i suoi fantasmi. Per uno strano paradosso è l’inaccessibilità che diventa il segno più certo della presenza del grand’uomo, là accanto a noi visitatori.
Il coup de théâtre lo si raggiunge con l’apertura della porta che dà sulla piccola stanza da letto, monacale. La guida, pure un po’ pressata dal prossimo gruppo di visitatori che già attende al pianoterra, non può terminare la visita senza citare le parole che si dice siano state le ultime: Lasst mich in Ruhe (lasciatemi tranquillo). Una dichiarazione sibillina che ci proietta nel silenzio di questo sabato pomeriggio berlinese. Sembra quasi un’esortazione perentoria a non profanare più del dovuto questi luoghi. A levarci presto dai piedi, lasciando le stanze al silenzio che è loro proprio. Il teatro è la vita. Non sarà certo la morte qui a mettere fine a qualcosa.
Che questa evocazione di spiriti non manchi d’effetto, lo dimostrano i miei casuali compagni di visita, tre iraniani che si qualificano come giornalisti. Che la biblioteca contenga poesie d’amore persiane o che nella cucina contadina al piano terra alcune maioliche sorprendano con le loro iscrizioni in arabo, tutto diviene segno. Possono orientarsi nella massa di cose attraverso le figure di ciò che è loro familiare. Qualcosa era già là da sempre ad attenderli. Precedendoli rende ora possibile la visita. Prima ancora che lo sapessero, prima anche che decidessero di venirci, qualcosa di conosciuto attendeva i miei compagni di visita, venuti da lontano in questo angolo di Berlino. Forse non è che un’immagine di sé che è possibile vedere riflessa in questa forma laica di evocazione degli spiriti. In ogni caso qualcosa arriva per parlare dalla distanza siderale che sembra separare epoche e culture. In un lampo tutto è là. Stanno già scendendo le ripide scale verso l’uscita e commentano con soddisfazione l’ora che abbiamo trascorso a casa di Bertolt Brecht.