Sul palco di uno stabile in crisi / Deflorian-Tagliarini: “Quasi niente” a Roma

9 Ottobre 2018

“Ma quanto sarebbe più facile se questo fosse quel teatro con una trama, / una di quelle trame che sostengono la vicenda, / quelle trame dentro cui ti puoi immedesimare” dice a metà di Quasi niente LQ, la quarantenne, guardando il pubblico dritto negli occhi. Nell’ultimo lavoro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini – con cinque strepitosi attori, in scena a Roma all’Argentina per Romaeuropa Festival fino a domenica 14 ottobre – poco prima C, il cinquantenne, aveva raccontato del palazzo dei suoi, supercontrollato contro ladri e aggressori, un vero moderno fortilizio di sicurezza, dove una sera si sente un rumore ripetuto da una casa. “Qualcuno ha chiamato la polizia, che ha sfondato la porta dell'appartamento / da cui provenivano i colpi. / Hanno trovato una donna che da ore sbatteva la testa contro il muro”.

Solitudine. Un tarlo interiore che corrode. Una sensazione di non trovarsi mai al proprio posto, un posto che non c’è. Paura degli sguardi degli altri, paradossale perché qui siamo in teatro. LQ, all’inizio, provenendo da uno spazio posteriore del palcoscenico, interiore, chiede agli spettatori di girarsi dall’altra parte. Di non guardare (o forse di guardarsi dentro).

 

Ph. Luca Del Pia


Quasi niente è l’ultima creazione meravigliosa di Deflorian-Tagliarini, una compagnia che da qualche anno sta esplorando in modo radicale il nostro stare disagiato nel mondo, esibendoci su palcoscenici inospitali a raccontare la realtà e il rapporto malato che abbiamo con essa, l’indifferenza, il vuoto, il pericolo continuo di crollo e di isolamento mentre la vita continua e la sofferenza sociale cresce. Lo ha fatto in spettacoli come Reality, l’universo troppo pieno di cose e memorie di una donna sola, in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, che partiva dalla crisi greca per raccontare profondi disagi quotidiani, in Il cielo non è un fondale. In questo penultimo lavoro il tema era il rapporto tra la figura e lo sfondo, uno sfondo che sfochiamo abitualmente fatto di miseria, emarginazione, quello che attraversiamo nelle nostre città, che ci mette a disagio o che ignoriamo. Durante la lavorazione Deflorian ha fatto vedere a Tagliarini Il deserto rosso di Antonioni, il film della depressione (mai nominata) di Giuliana, la pellicola che inizia con figure sfocate di paesaggi industriali e di persone in attività, con il primo fuoco centrato sulla protagonista, interpretata da una magnifica Monica Vitti.

Qualcosa è scattato, tanto che nei crediti dello spettacolo si legge “liberamente ispirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni”. Della pellicola rimangino alcune citazioni, che si intersecano con memorie personali e brani raccolti da scritti letterari e filosofici.

 

Ph. Claudia Pajewski.


All’inizio i cinque personaggi, definiti da una sigla che ne indica l’età, e la generazione, dai trenta ai sessanta, sono immobili dietro un velatino che li stacca dalla parte anteriore del palco. Una membrana che li allontana e li sfuma dal pubblico, dal luogo dell’esibizione, dalla comunicazione, dalla memoria. Separati. Spaesati nel vuoto. A uno a uno verranno in avanti, al mondo, un mondo ugualmente deserto, con pochissimi oggetti: e si narreranno, racconteranno storie, maschere, ansie, parole della loro generazione, del loro personaggio ma anche dell’attore che lo interpreta e di Deserto rosso, in uno slittare continuo di piani che crea quella fluidità imprendibile nella quale siamo immersi, sempre fuori posto, spostati, magari non di molto, da una realtà grigia o dolorosa, che acquista felicità quando si intinge di ricordo, che si sfarina nei pensieri, nelle azioni impossibili, in quel battere la testa contro il muro, in un volersi ritrovare in una facile trama di teatro, ma soprattutto di vita, con un senso che scacci i troppi fantasmi. 

Qui il teatro diventa il gran teatro del mondo barocco, lente d’ingrandimento e metafora, cannocchiale che continuamente avvicina e allontana da quell’enorme teatro interiore aperto nelle generazioni nate dopo la guerra dal benessere (apparente), dall’inconsistenza, dalla prestazione. Una prestazione d’opera ansiogena perché offerta al padrone più esigente, sé stesso, che chiede continuamente di essere all’altezza, di colmare i vuoti, di rendersi sempre pronti, sempre disponibili. Dice LQ: “Almeno mia madre lo faceva per qualcun altro. / Io lo faccio solo per me stessa, /per essere pronta a fare tutto. […] Mi porto il lavoro a letto. / Mi comando a bacchetta, / sono peggio di qualunque proprietario terriero, datore di lavoro, direttore, superiore”. Il lavoro penetra in ogni momento della vita, come sa chi abbia letto La società della stanchezza di Byng-Chul Han o semplicemente viva nella situazione di precariato diffuso, di sospensione comune. 

 

Ph. Luca Del Pia.


“Io non sono guarita e non guarirò mai” dice ancora LQ, una Monica Piseddu che con il suo parlar quotidiano, con i suoi sguardi che sembrano trattenuti ti scortica, seduta nella sua poltrona rossa, citando una battuta di Monica Vitti. Qualcuno sempre usa le parole di qualcun altro per dire qualcosa su di sé. 

Con tre canzoni Francesca Cuttica, T, la trentenne, una vera rivelazione, ridisegnerà per voli e sbalzi d’anima, i paesaggi. “Cerco spazi di disagio esistenziale / per tornare a immaginare/ come essere normale / ritornare elementare”, canta, accompagnata dalle schitarrate fuori scena di Leo Cabiddu. E quella voce dolce da bambina adulta, non tanto amareggiata ancora da diventare roca ma già disincanta, senza orizzonti e in cerca di futuro, scava crepacci, mentre Benno Steinegger, IQ, il quarantenne, dopo essersi pure lui raccontato si avvicina alla poltrona rossa, la esplora, la impugna, la fa girare vorticosamente, vorticosamente. 

In scena, di qua dalla membrana, con la poltrona rossa, isola, rifugio, luogo della introspezione e della memoria, ci sono solo un vecchio comò, che sarà rovistato, poi grattato come per scorticare il proprio malessere, che si riempirà alla fine di oggetti e di foto, e un armadio un po’ sfasciato, che attraverserà la scena, rimembranza delle vecchie cose da abbandonare del Giardino dei ciliegi, luogo per rintanarsi dal peso dei ricordi e della solitudine. 

Slitta continuamente questo spettacolo, tra la confessione e la rappresentazione, tra il film di Antonioni e il disincanto raccontato magari con le parole di Buono a nulla  di Mark Fisher, una riedizione politica e contemporanea dell’“essere zero” di Jakob von Gunten, romanzo di quel poeta dell’assenza e dello stupore che fu Robert Walser. Legge S, la sessantenne (quasi sessantenne, dice lei), Daria Deflorian, e intanto gli altri fanno o provano a fare la verticale in vari punti della scena. Alberi, antenne del disagio.

 

Ph. Luca Del Pia.


Sembra a volte allo spettatore di non stringere nulla in mano e nel cuore, e ti accorgi che tutto quello che avviene, disincanti, deviazioni, fughe, ti circonda come una nuvola della quale sei tu il vapore, perché sei tu, oggi, vuoto, in cerca di una realtà indefinibile, da ritrovare o da evadere nel sogno, nell’utopia che le renda sostanza. 

Anche Antonio Tagliarini, C, il cinquantenne, e Daria Deflorian, S, si confessano e si esibiscono, con quel risonante stile ormai affinato di creazione in creazione, tra il disarmato, la concessione al comico che scivola verso il ridicolo del lapsus, dell’inciampo, la confessione in leggerezza lievemente ansimante per celare un malessere che rode in profondità.

Maschere, maschere compaiono in continuazione, riflessi in specchi dell’altro personaggio più giovane o più avanti negli anni, il film, la letteratura, per provare a squarciare i sipari. Per guardare negli occhi, pur senza una trama, sapendo, come Giuliana nel film, che quel disagio angosciante che ti separa dalla vita non si può tagliare come un ramo secco. Un male così malato che “neppure ti allaga”, “neppure ti allarga”, come la realtà: “C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cos’è, nessuno lo dice”. Forse bisognerebbe solo andare via, vivere anonimamente in una stanza d’albergo. Portarsi, dalla vita precedente, solo due valigie, quasi niente.

Spariscono, a uno a uno, i cinque, tornando dietro la membrana. La nebbia a poco a poco li copre, come in una delle più belle scene del film di Antonioni. Non si vedono più. Non si vede più. “Tu ti chiedi cosa devono guardare i tuoi occhi, / io mi chiedo come vivere. / È la stessa cosa”.

 

Ph. Luca Del Pia.


A Roma

 

Quasi niente, nelle meravigliose penombre che restringono e moltiplicano gli spazi, disegnati entrambi da Gianni Staropoli, testo e regia di Deflorian-Tagliarini, con il contributo essenziale di Francesco Alberici e con i costumi di Metella Raboni, ha debuttato negli edifici spaziali del Lac di Lugano per il bel Festival internazionale del teatro diretto da Paola Tripoli e da Carmelo Rifici, responsabile di LuganoinScena (giovedì su “doppiozero” Maddalena Giovannelli racconterà il festival). Arriva per Romaeuropa Festival all’Argentina di Roma (lo stabile capitolino è uno dei produttori, insieme al Metastasio di Prato, a Emilia Romagna Teatro Fondazione e a molti importanti festival europei). 

Approda a Roma in una situazione incandescente, dopo una lettera di artisti, operatori e critici che domandavano chiarezza sui nuovi scenari del teatro stabile. Scrivevano i firmatari: “Chiediamo innanzitutto un processo di trasparenza riguardo alla delicata situazione in cui si trova oggi il Teatro di Roma, il Teatro Nazionale della nostra città, a causa delle dimissioni del direttore Antonio Calbi, in virtù del nuovo incarico a dirigere l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (Fondazione Inda)” (la lettera integrale si può leggere su “Teatro e critica”). Subito dopo l’appello, Calbi ha rassegnato le dimissioni e la direzione pro tempore è stata affidata al presidente del Consiglio d’amministrazione Emanuele Bevilacqua, che ha manifestato il proposito di emanare un bando per un nuovo direttore, perché il progetto triennale disegnato da Calbi possa essere portato a termine e sviluppato. 

E questo effettivamente chiedeva il documento, firmato da artisti romani di primo piano, molti dei quali emigrati altrove per la difficoltà o addirittura l’impossibilità di operare in una città che non dà spazio ai luoghi alternativi e che nel suo teatro stabile si è finora dimostrata non sufficientemente attenta a fermenti creativi riconosciuti a livello nazionale e internazionale. Si legge nell’appello: “Roma sta attraversando un momento difficile e insidioso: quasi tutti gli spazi indipendenti, più o meno atipici, che hanno ospitato la creatività e la sperimentazione, hanno chiuso o stanno chiudendo. Una rete di spazi associativi, teatri off e realtà multidisciplinari, abitati e condivisi negli anni da quella comunità di artisti e di pubblico che ha dato vita alla scena contemporanea di questa città. Registi, drammaturghi, attori di fama nazionale e internazionale che hanno spesso prodotto i propri lavori fuori dal territorio regionale e che, a Roma, sono stati intercettati proprio da questa scena informale. Il Teatro di Roma, l’istituzione teatrale principale della città che per vocazione e missione dovrebbe essere uno degli interlocutori principali della scena contemporanea, pur dialogando con il mondo dell’innovazione teatrale, non ha saputo diventarne l’epicentro, come molti auspicavano”.

 

Ph. Claudia Pajewski.


In particolare India, lo spazio contemporaneo voluto da Mario Martone agli albori degli anni 2000 e mai valorizzato, avrebbe dovuto essere ripensato e affidato alle importanti energie locali, costrette spesso a provare e a debuttare in luoghi di fortuna o lontano dalla città, che sembra aver sprecato e dissipato le forze di una scena indipendente. Una scena, ricordiamo, che ha generato creatività come quelle di Roberto Latini, primo firmatario del documento, Massimiliano Civica, Timpano/Frosini, Fabrizio Arcuri e l’Accademia degli Artefatti, Ascanio Celestini, Deflorian-Tagliarini, Lucia Calamaro, Lisa Ferlazzo Natoli, Giorgina Pi, Andrea Cosentino, Veronica Cruciani e molti altri, in quella che il compianto Nico Garrone definì felicemente in anni ormai lontani la “non-scuola romana”, un insieme di esperienze differenti, tutte votate a una vera ricerca e proiettate verso un rinnovamento della scena.

Si legge ancora: “Un Teatro Nazionale non può essere un’istituzione di retroguardia. Deve saper guardare al presente e indirizzare il futuro. Ha pertanto bisogno di una figura che possa disporre di una carica che duri nel tempo e che le consenta di rafforzare e restituire quella progettualità generativa e di respiro europeo che si addice a un Teatro Nazionale. Deve saper alternare tradizione e innovazione, mettendo in connessione le varie anime e culture della scena che vivono parallelamente in una città importante come la capitale d’Italia. Costituendo il centro nevralgico di un intero sistema, come fortemente voluto dalle Istituzioni in questi anni, il Teatro di Roma ha il dovere di svolgere questo processo attraverso un meccanismo di assoluta trasparenza e in tempi che non paralizzino inevitabilmente le attivitaà del Teatro stesso”.

 

Ph. Luca Del Pia.


Ribadisce uno dei critici che hanno aderito all’appello, Attilio Scarpellini, che il nuovo direttore dovrà riadattare il progetto triennale. Un nuovo ruolo, per lui e per altri dei firmatari, può giocare proprio India, in un’idea che non divida gli spazi in palcoscenici di serie A e di serie B, come è stato finora (Argentina e India), “ma sviluppi un progetto in cui teatro più istituzionale e teatro contemporaneo non siano separati da confini marcati. Non c’è una grande scena e una scena minore. Il discrimine diventa la qualità: e però ci vuole un nuovo collegamento del teatro con la città, con gli artisti, con l’arte che c’è”. E un altro attento osservatore della scena romana (e non solo), Graziano Graziani, chiede «un dibattito pubblico quando sarà aperto il bando per il nuovo direttore, con progetti visionabili, pensando proprio a un teatro stabile che dialoga con la città e con le tante sale dove si fa un teatro molte volte importante e con i suoi vari pubblici. A Roma gli spazi periferici o underground hanno prodotto cose seminali, che spesso hanno dovuto crescere altrove. Sarebbe ora di ripensare il sistema, riflettendo anche sulla necessità di luoghi di residenza artistica”.

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